.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


.

contemporanea


N. 114 - Giugno 2017 (CXLV)

“Bisogna impedire a quel cervello

di funzionare per almeno vent’anni”

Antonio Gramsci e la parzialità del totalitarismo

di Daniela Tedone

 

Non si tratta, ora, di ripercorrere vita e carriera dell’Antonio Gramsci fervente attivista all'interno del Partito e sui giornali, quanto di cogliere il compimento del suo proposito umano e politico proprio negli ultimi anni della sua vita, quelli grossolanamente definiti di ‘‘inattività’’, indotta dall’isolamento carcerario a cui lo costringe il regime fascista.

 

Troppo poco rievocato, in Italia, al di fuori degli ambienti accademici, Antonio Gramsci rientra tra i dieci intellettuali più citati su scala mondiale per via dell’ampiezza e della complessità del suo pensiero, che spazia dall’analisi politico-economica a quella sociale, letteraria, teatrale e persino psicologica, espressione di una mente articolata che continuamente si divincola dai confini che il contesto in cui prende vita cerca di imporle.

 

È opportuno riferirsi alla precaria condizione economica che caratterizza l’infanzia gramsciana, al fine di individuare le radici del caldo sentimento politico dell’intellettuale, sentimento pragmatico, esploso nella concretezza della quotidianità più che nella formazione culturale e nel contatto con gli ambienti socialisti.

 

Antonio non avverte empaticamente la condizione della classe proletaria, lui vive la rabbia di non potersi iscrivere alle medie – ‘‘io che avevo preso 10 in tutte le materie’ –’ per via della necessità di supportare la famiglia, lavorando sin dagli undici anni e così aggravando le sue già precarie condizioni di salute fisica, dovute ad una malformazione congenita ed allo stato di denutrizione. Il suo impegno e gli sforzi della famiglia, più limitazioni alla soddisfazione di bisogni di prima necessità che superflue rinunce, gli consentono di proseguire gli studi sino al diploma di liceo, al termine del quale non si arresta la tenacia di proseguire la propria formazione: mangiando una volta al giorno e con la difficoltà di studiare per il freddo, i dolori fisici e le crisi nervose, riesce a raggiungere Torino, dopo ripetuti malori e svenimenti durante il viaggio, e a sostenere gli esami per la borsa di studio che gli consentirà di iniziare a frequentare l’università.

 

È poco rilevante il mancato conseguimento della laurea nella fioritura della sua genialità intellettuale e professionale: sono noti gli sviluppi della sua attività politica e giornalistica. Buona parte del suo lavoro aderisce all’analisi socio-politica del suo tempo, cogliendo con chiarezza e lungimiranza la pericolosità della deformazione antidemocratica dell’assetto istituzionale. I suoi occhi osservano, la sua mente analizza, elabora, prevede, la sua professione informa con l’umiltà di una sintassi sublime di proposito spezzata e distribuita per essere compresa e di un lessico spogliato della sua estetica per raggiungere i semplici. In ogni articolo, si intrecciano la ferocia contro il regime, che, come una ragnatela, quasi trasparente, paralizza e intrappola ogni corpo debole che intercetta, e la dolcezza del prendersi cura di chi è sempre stato troppo impegnato a tirare a campare per potersi procurare gli adeguati strumenti interpretativi necessari a vivere consapevolmente in una realtà tanto complessa. Un Gramsci di questo calibro diventa più che un sassolino nella scarpa per il regime.

 

«Bisogna impedire a quel cervello di funzionare per almeno vent’anni» dichiarava il p.m. fascista Ingrò contro Antonio Gramsci durante il ‘‘Processone’’ del maggio 1928 che sentenziava la detenzione dei più avveduti esponenti della dirigenza comunista. Il regime si esprime con linguaggio chiaro, inequivocabile: l’obiettivo è la destrutturazione cerebrale di Gramsci; nel mirino non ci sono le sue mani, i suoi piedi, il suo torace, né la sua testa: nel mirino c’è la sua mente. L’annientamento fisico non è il fine che il regime ha in mente per lui, piuttosto è uno dei possibili mezzi (e tra i più sconvenientemente risonanti per la propaganda) a garanzia della devitalizzazione del suo pensiero.

 

Per questa dichiarazione esiste, letteralmente, un ristretto margine di variabilità interpretativa, che è possibile dilatare ricostruendo tre diverse sfumature del proposito repressivo del regime, forse tutte simili ma non identiche, sicuramente conciliabili ma non inscindibili.

 

“Impedire a quel cervello di funzionare” può voler corrispondere alla volontà di comprometterne la funzionalità in senso biologico attraverso la privazione delle condizioni elementari per la sana sopravvivenza psichica; in quest’ottica la distruzione fisica si assurge a principale strumento per l’interruzione del proposito intellettuale del condannato.

 

Diversamente, pur sempre rimanendo circoscritti all’individualità personale del soggetto ma riallacciandosi alla contiguità con il mondo, si può volerne impedire l’attività propriamente analitico-culturale, mediante l’interruzione indotta del contatto con la realtà politica contemporanea e i suoi possibili riflessi realistici, riprodotti clandestinamente dalla minoranza dissidente o anche solo desumibili criticamente dalla stessa stampa fascista; in questo senso l’obiettivo è più mirato e la strategia di cui ci si intende servire è l’interruzione del flusso informativo, politico e umano dall’esterno verso l’interno, dalla società alla prigione, dalla realtà all’intellettuale politico, che, privato della linfa vitale del suo lavoro, ritorna ad essere semplice individuo.

 

Inversamente, aprendosi questa volta nello specifico alla dimensione sociale della produzione culturale individuale, l’obiettivo può voler essere l’interruzione del flusso informativo dall’interno verso l’esterno, non più dalla società alla prigione ma dalla prigione alla società. Ne deriverebbe la costrizione nella dimensione personale della propulsione diffusiva delle elaborazioni culturali; in questa modalità si consente all’individuo di sopravvivere come intellettuale gambizzato, che può tentare un arrangiamento interpretativo del mondo esterno filtrato dall’osservazione di terzi ma con la totale negazione della natura risolutivo-pragmatica che nello specifico caratterizza il pensiero politico.

 

Potendo considerare che ciò che distingue un uomo da un corpo sia la sua irripetibile originalità nella prassi, da intendersi come estrinsecazione di un sé libero dalla forza di gravità sociale che attrae e livella i corpi sulla superficie della convenzione impedendo lo slancio verticale, e nella consapevolezza che il regime abbia ampiamente dimostrato non solo di non avere paura ma di essere totalmente indifferente alla sorte dei corpi, ora massicciamente inorgogliti per essere resi mansueti, ora sacrificati come carne da macello, si può ritenere che ciò che realmente spaventi il potere siano gli uomini.

 

Ciò che caratterizza un uomo e lo distingue da un corpo è il radicamento delle proprie azioni, o ancor meglio, delle intenzioni delle proprie azioni, nel pensiero libero. Per questo motivo è proprio il cervello di Gramsci a dover smettere di funzionare: questo corpo sfugge alla gravità e pretende di essere uomo.

 

Secondo logica, l’influenza esercitata da un uomo libero sul tessuto sociale è più preoccupante della stessa esistenza di quell’uomo. E questo è stato avvertito anche dal regime. Ma il regime non è solo logico. Il regime è anche irrazionale sete di dominio, pretesa di assoluto potere, ossessiva maniacalità, aggressività crudele.

 

La sopravvivenza di un solo uomo libero ne sfregia l’orgoglio, ne abbatte il proposito finale, ne disarticola la piena realizzazione. Ne basta uno solo e il totalitarismo diventa parzialità. Per questo non è scontato che l’intento repressivo abbia il solo fine logico di impedire al condannato la germinazione sociale delle proprie idee negandosi il sadico gusto di stroncarlo nella sua disobbediente razionalità.

 

Questo proposito, come noto, è stato ampiamente disatteso. Non solo si può negare l’avvenuta demolizione della lucida creatività di Gramsci, ma si può addirittura constatare l’incremento della sua prodigiosa capacità di analisi di ciò che avviene fuori e dentro di sé, nella consapevolezza introspettiva dell’estrema labilità della propria mente duramente provata.

 

All’interno del carcere Gramsci diventa un attento osservatore del deterioramento delle dinamiche psichiche indotte dall’isolamento, affina l’abilità di osservare se stesso, diviene in grado di mettere in atto un assiduo monitoraggio delle proprie difficoltà, paure, crisi, per proteggersi dallo svilimento mentale.

 

Proprio nella lucida criticità analitica che sopravvive in Gramsci nonostante la solitudine, lo stato di salute e i maltrattamenti subiti si custodisce la prodigiosità del suo compimento di uomo e cittadino che liberamente antepone il proprio Credo al proprio Io.

 

La sua mente non ha mai smesso di pensare, l’isolamento non è mai stato sufficiente a fargli perdere il contatto con la realtà, l’incarcerazione non ha impedito che tutta sua la ricchezza umana e politica potesse raggiungere e lasciare un indelebile segno nella mente e nel cuore di contemporanei e posteri. Lungi dall’essere considerato un fallimento esistenziale, il suo sacrificio è e rimarrà uno sfregio sul presuntuoso volto del Fascismo e di ogni forma di totalitarismo.

 

10 maggio 1928

 

Carissima mamma,

sto per partire per Roma. Oramai è certo. Questa lettera mi è stata data appunto per annunziarti il trasloco. Perciò scrivimi a Roma d’ora innanzi e finché io non ti abbia avvertito di un altro trasloco. Ieri ho ricevuto un’assicurata di Carlo del 5 maggio. Mi scrive che mi manderà la tua fotografia: sarò molto contento. A quest’ora ti deve essere giunta la fotografia di Delio che ti ho spedito una decina di giorni fa, raccomandata. Carissima mamma, non ti vorrei ripetere ciò che ti ho spesso scritto per rassicurarti sulle mie condizioni fisiche e morali. Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi. Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso. Cara mamma, vorrei proprio abbracciarti stretta stretta perché sentissi quanto ti voglio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini.

 

Ti abbraccio teneramente.

Nino



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.