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N. 99 - Marzo 2016 (CXXX)

LA DEMOCRAZIA “VERDE”
COME L’ISLAM PUÒ FAVORIRE LO SVILUPPO DEMOCRATICO

di Giacomo Porporato

 

I fatti dell’11 settembre 2001 rappresentano probabilmente uno degli eventi più drammatici nella storia occidentale recente. Non solo persero la vita oltre 2700 persone, ma da quel momento in poi la più importante potenza del mondo non si sentì più sicura, colpita al cuore del proprio potere economico e militare.

Sembrò palesarsi, nei mesi e negli anni successivi, il tanto temuto e profetizzato “scontro di civiltà”, delineato in precedenza dallo studioso Samuel Huntington. Il professore di Harvard, infatti, aveva sostenuto che il fondamentalismo islamico non costituiva una deviazione dall’ortodossia religiosa o il prodotto di una interpretazione minoritaria dell’esperienza musulmana, ma identificava l’essenza stessa di quella tradizione. In tale contesto, Islam e Occidente erano considerati espressione di culture e religioni universalistiche, intente a rivendicare entrambe la propria superiorità nei confronti del resto dell’umanità.

L’intera comunità scientifica iniziò a dibattere, così, del rapporto esistente tra i principi della religione islamica e i cardini fondamentali della democrazia occidentale, interrogandosi circa una eventuale compatibilità tra questi due elementi, anche come antidoto per evitare il rafforzarsi della deriva fondamentalista qaedista.

La domanda che molti osservatori si posero fu: l’Islam è compatibile con la democrazia? Come ricorda anche il professore Renzo Guolo, autore di un omonimo volume che indaga proprio tale relazione, la prima distinzione da sottolineare è che cosa si intenda per democrazia. Democrazia come mero strumento elettorale o democrazia sostanziale o “poliarchia”, per dirla con la celebre espressione del politologo Robert Dahl?

Se si prende come riferimento il semplice meccanismo elettorale, si può certamente affermare che un certo grado di apertura si sta sperimentando in molti paesi musulmani. Del resto, lo stesso testo sacro islamico, il Corano, si fonda sul concetto di giustizia sociale e umana e si sofferma molte volte sulle libertà dell’individuo, che non ha altro padrone che Dio. Oltre a questo, poi, il sistema giuridico islamico presenta due istituti estremamente importanti, ossia quello della Bay’a e quello della Sura. Il primo costituisce una sorta di “Patto sociale” tra il Califfo e i credenti, alla stregua del “Contratto sociale” in seguito teorizzato da Rousseau. Il secondo, invece, esprime un concetto molto radicato nella cultura islamica, cioè che ogni decisione pubblica deve essere presa di comune accordo con la comunità dei fedeli, consultandosi apertamente.

Se, però, la democrazia è qualcosa di diverso, e di più, di un semplicistico metodo di assegnazione dei seggi, allora la strada che il mondo musulmano deve fare è ancora tanta. La diseguaglianza tra i sessi, il rapporto religione-Stato, il concetto di libertà sono solo alcuni degli elementi più critici nella dialettica Islam-democrazia.

Ma perché i principi della cultura politica islamica paiono essere così in contrasto con gli ideali fondanti della democrazia occidentale?
Innanzitutto, l’Islam è una religione “senza centro”: non esiste un clero strutturato che decide cosa appartenga all’ortodossia e cosa sia da rigettare. Da quando Mustafa Kemal Ataturk abolì, nel 1924, il sistema califfale, trasferendo i suoi poteri alla neonata Assemblea Nazionale della Turchia, i sunniti non ebbero più il proprio punto di riferimento dogmatico e religioso, oltre che politico, scatenando una dura lotta, che si è protratta fino ad oggi, per la sua successione. La stessa nascita del sedicente Stato islamico di Abū Bakr al-Baghdādī può essere ricondotta all’interno di tale conflittualità.

Proprio la mancanza di una autorità centrale ha permesso il radicamento del fondamentalismo sunnita, il quale ha fin da subito invocato il ritorno al modello profetico delle origini, tanto sul piano religioso quanto su quello politico. Indirettamente, quindi, i movimenti qaedisti, riaffermando il valore del mito fondativo di Maometto, contestano la Tradizione lunga dell’Islam, che, nel corso dei secoli, ha sviluppato un livello minimo di separazione tra precetti religiosi e autorità politica.

Fu la dinastia omayadde che, per prima, avviò il percorso di separazione tra il Politico e il Religioso. Nel 661 d.C., infatti, Muʿawiya ibn Abi Sufyan, massimo esponente del potente lignaggio degli Omayaddi, si autoproclamò califfo della Umma, trasferendo la capitale dalla città santa Medina a Damasco. Tale conquista rappresenta un punto di svolta fondamentale nell’evoluzione dell’Islam poiché, per la prima volta, il califfo guidava la comunità dei fedeli senza però esserne anche leader religioso.

Per giustificare tale passaggio epocale, i custodi dell’ortodossia elaborarono una teoria politica estremamente importante, il quietismo, o “teoria dell’obbedienza dovuta”. In particolare, i dottori dell’Islam legittimarono il governante che conquistava il potere con la sola forza militare, ricordando che l’unica condizione indispensabile per il mantenimento del suo titolo era la volontà del nuovo sovrano di difendere la comunità musulmana contro gli attacchi dei nemici esterni. Finché la Bay’a era rispettata, il califfo era idoneo a ricoprire il suo incarico.

Nonostante tali precedenti storico-dogmatici, però, l’aspirazione a ricongiungere politica e religione sulla base del modello originario maomettiano rimarrà sempre viva in tutta la cultura islamica. Proprio questo anelito impedirà alla “galassia musulmana” quel “disincanto del mondo” che Max Weber individuò come elemento centrale della nascita del capitalismo europeo e della democrazia liberale rappresentativa.

Senza importare acriticamente formule politiche nate e sviluppatesi in altri contesti, l’Islam dovrebbe essere in grado di riaffermare con forza la propria Tradizione lunga, rigettando qualsiasi fondamentalismo e sganciandosi definitivamente dall’esperienza (politica) del Profeta.


In questo modo, il successo di una “via islamica” alla democrazia non è affatto scontato, ma almeno risulterebbe fondato su solidi precedenti interni alla stessa tradizione musulmana e quindi, forse, più facilmente introiettabile.
Soltanto in questo modo, gli oltre 1,5 miliardi di fedeli islamici potrebbero sperimentare un prototipo di democrazia “verde”, e far uscire così dall’autoritarismo e dal totalitarismo numerose realtà statuali dell’Africa e del Medio Oriente.



 

 

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