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N. 93 - Settembre 2015 (CXXIV)

Iraqi Freedom
Come l’America perse se stessa

di Giovanni De Notaris

 

“Ladies and gentlemen, we got him!” esordì un radioso Paul Bremer nella conferenza stampa del 13 dicembre 2003, ma in realtà aveva ben poco di cui essere felice. In quello stesso mese gli attacchi terroristici in Iraq erano giunti alla quota allarmante di 800 al mese. La strategia americana non aveva fino a allora sortito alcun effetto positivo.

 

Ma di chi stava parlando Bremer? E come mai gli Stati Uniti erano di nuovo presenti sul territorio iracheno dopo averlo lasciato al termine della guerra del Golfo del 1991?

 

Nella primavera del 1991 infatti, dopo che l’esercito iracheno era stato cacciato dal Kuwait, alcuni sia all’interno che all’esterno dell’amministrazione di George Bush senior lo invitarono a inviare in Iraq i soldati americani per destituire Saddam Hussein e istituire a Baghdad un regime democratico.

 

Immaginavano che la trasformazione democratica dell’Iraq avrebbe innescato in tutto il Medio Oriente una spirale democratica. Ma Bush rifiutò dicendo che la missione comprendeva la sola liberazione del Kuwait ed era conclusa.

 

Nessuno credeva però che dopo quella sconfitta bruciante Saddam riuscisse a mantenere il potere. Come conseguenza per il ritiro delle truppe fu approvata la risoluzione dell’ONU 687 che imponeva all’Iraq di distruggere le armi di distruzione di massa e i missili con un raggio d’azione di più di 90 miglia. La risoluzione inoltre vietava al paese di possedere armi biologiche, chimiche o nucleari e di produrle. Inoltre fu richiesto un monitoraggio da parte dell’ONU.

 

Con il tempo però, l’ONU si rese conto che Saddam non rispettava gli accordi e così impose delle sanzioni.

 

Per undici anni gli Stati Uniti furono quindi coinvolti in una guerra mai dichiarata per tenere a bada Saddam. Gli aerei da guerra americani pattugliavano le due no fly zone dell’Iraq, dove non poteva transitare alcun veicolo iracheno.

 

Nel 2001 però le atrocità di Saddam e dei suoi figli contro gli iracheni riaccesero il dibattito politico in America perché i sostenitori dei diritti civili si erano mobilitati. Cosicché dopo l’11 settembre, e dopo la campagna di Afghanistan, l’amministrazione di George W. Bush decise di occuparsi dell’Iraq.

 

Nonostante non fossero emerse prove che Saddam fosse coinvolto negli attentati di New York, su richiesta del presidente il Pentagono cominciò a predisporre i piani necessari per un invasione del paese.

 

L’idea di creare la democrazia in Iraq e poi da lì in tutto il Medio Oriente catturò il pensiero del presidente. Il suo vice Dick Cheney si mostrò il più deciso sostenitore della guerra, sostenendo che Saddam possedeva armi di distruzione di massa e che si stava preparando a utilizzarle contro gli americani.

 

Cheney sosteneva inoltre che era necessaria un’azione unilaterale degli Stati Uniti senza l’avallo dell’ONU e Donald Rumsfeld, il segretario alla Difesa, riteneva che grazie all’uso di nuove tecnologie sarebbero bastate non più di 150.000 unità.

 

Si riteneva inoltre di poter istituire un governo democratico guidato da Ahmed Chalabi un esule leader del Congresso Nazionale Iracheno. Dall‘Iraq poi gli Stati Uniti avrebbero potuto controllare meglio le minacce provenienti da Iran e Siria.

 

Le motivazioni quindi, come si può notare, non erano principalmente legate al petrolio ma, almeno per una parte del gabinetto di Bush e del presidente stesso, a un onesto timore che Saddam avesse davvero armi di distruzione di massa, o che realmente si potesse democratizzare il Medio Oriente.

 

Nell’autunno del 2002 George Tenet, il direttore della CIA, e Bush ebbero una conversazione in cui il presidente disse che la guerra in Iraq era necessaria e inevitabile perché con il passare del tempo il pericolo rappresentato da Saddam sarebbe aumentato. Tenet disse a Bush che non era saggio invadere l’Iraq e che il post guerra non sarebbe stato facile.

 

Il 5 agosto 2002 il generale Tommy Franks presentò nella “Situation Room” della Casa Bianca un piano di invasione e di ricerca delle armi nucleari. Durante l’estate, intanto, anche il terrorista afghano affiliato di al Qaeda Abu Musab al-Zarqawi cominciò ad operare nel nordest dell’Iraq.

 

Il 12 settembre del 2002 il presidente si rivolse all’Assemblea Generale dell’ONU chiedendo un intervento contro l’Iraq adducendo come motivazione il fatto che Saddam avesse armi di distruzione di massa e potesse usarle contro gli Stati Uniti e i suoi alleati. Gli Stati Uniti avrebbero chiesto all’ONU la ripresa delle ispezioni.

 

Poi Bush si rivolse al Congresso chiedendo l’autorizzazione a invadere l’Iraq con le stesse motivazioni dell’ONU, ritenendo che con il sostegno del Congresso gli Stati Uniti avrebbero avuto un consenso maggiore anche all’ONU.

 

Verso la fine di settembre il generale James Marks fu posto a capo dell’intelligence per l’invasione dell’Iraq. Il 4 ottobre riunì in una sala conferenze al Pentagono una decina di esperti i quali disponevano di un database noto come “Weapons of Mass Destruction Master Site List”, un elenco di 946 siti indicati da fonti di intelligence come impianti di stoccaggio o produzione di materiali chimici, biologici e nucleari in Iraq.

 

Ma il generale non sembrò convinto delle capacità degli esperti, e i siti segnalati non erano per nulla significativi, oltre al fatto che le immagini satellitari non erano aggiornate. Ritenne dunque di non poter essere certo della presenza effettiva di armi in quei luoghi. Nonostante tutto il 10 e l’11 ottobre il Congresso autorizzò l’uso della forza.

 

Durante l’autunno migliaia di soldati americani furono dislocati nelle vicinanze dell’Iraq. A quel punto il governo iracheno annunciò che gli ispettori dell’ONU potevano riprendere le loro ispezioni.

 

Il 4 novembre 2002 Rob Richer, ex direttore della base CIA di Amman in Giordania, assunse il ruolo di capo delle operazioni della CIA nel Vicino Oriente e nell’Asia del sud, comprendendo così tutto il Medio Oriente. Nel giro di un mese il suo gruppo di specialisti, l’”Iraq Operations Group”, stava trasferendo di nascosto due squadre della CIA nel nord del paese.

 

L’8 novembre l’ONU varò la risoluzione 1441 che imponeva all’Iraq, entro trenta giorni, di dichiarare se aveva o meno programmi per armi di distruzione di massa.

 

Dalla fine di novembre 2002 l’avvocato svedese Hans Blix, a capo della delegazione, ritenne, e con lui l’Europa, che a quel punto non ci sarebbe stato più bisogno dell’uso della forza. Marks però aveva rilevato con vedute satellitari che quando gli ispettori entravano in un sito, nello stesso momento gli iracheni portavano fuori dal retro materiale sospetto sui camion fino al confine siriano, anche se non vi era la certezza che fossero armi di distruzione di massa.

 

In novembre gli Stati Uniti e la Francia prepararono una nuova risoluzione di compromesso che imponeva all’Iraq di consegnare tutte le armi di distruzione di massa in suo possesso pur non comprendendo l’uso della forza. L’ONU approvò.

 

Nel mese di dicembre lo stanziamento di truppe americane nella zona continuava però ad arricchirsi di nuove unità. Intanto Blix e gli ispettori accusarono Saddam di inadempienza ma, dopo alcune minacce di intervento armato, il dittatore divenne più cooperativo. Blix però non aveva ancora trovato le armi e il Pentagono voleva agire prima dell’inizio della primavera, prima che le alte temperature del deserto diventassero un problema.

 

Il piano d’attacco era già pronto col nome di “Op Plan 1003 V” e comprendeva anche la creazione di un battaglione per trovare le armi di distruzione di massa chiamato “Sensitive Site Exploitation Task Force”; composto da 400 persone era capitanato dal colonnello Richard McPhee.

 

Intanto poiché l’Europa continuava a opporsi a un’invasione, il primo ministro inglese Tony Blair sollecitò una nuova risoluzione dell’ONU. Così il 5 febbraio il segretario di Stato Colin Powell propose la seconda risoluzione presentando al Consiglio le prove dell’esistenza delle armi, riuscendo a convincere alcuni paesi, ma non tutti quelli europei oltre alla Cina e alla Russia. Bisognava dare agli ispettori più tempo.

 

L’Amministrazione Bush insisteva però per accelerare senza l’autorizzazione dell’ONU. Bush era ormai riuscito a convincere l’opinione pubblica americana che l’Iraq fosse coinvolto negli attentati dell’11 settembre; la fortuna sembrò venirgli incontro.

 

Il 27 gennaio 2003 infatti, Blix dichiarò che il governo iracheno aveva ripreso a fare ostruzionismo, e così il 24 febbraio l’ONU promulgò una seconda risoluzione. Il 19 marzo 2003 avendo ricevuto un rapporto dai servizi segreti che indicava la presenza di Saddam nella periferia di Baghdad, a Dora Farm, a sudest della capitale irachena, sulle rive del Tigri, Bush autorizzò un attacco per ucciderlo. Fu l’alba dell’operazione “Iraqi Freedom.”

 

Due bombardieri F117 colpirono il bersaglio. L’idea era quella che ucciso il dittatore il governo si sarebbe arreso. Ma Saddam non era lì. La notizia era falsa. In tutto il Medio Oriente gli islamisti, anche quelli ostili ad al Qaeda e a Saddam, invitarono i loro seguaci a iniziare una Jihad per difendere l’Iraq dagli Stati Uniti.

 

Il giorno dopo il fallito attacco a Dora Farm dal Kuwait penetrarono in Iraq i marines diretti a Baghdad. Nel nord dell’Iraq intanto il campo di Zarqawi veniva distrutto. In sole tre settimane le forze americane erano entrate a Baghdad. Il governo iracheno era caduto ma ora cominciava il caos civile e istituzionale a cui gli americani non erano preparati; oltre a tutto questo non vi era ancora traccia delle armi di distruzione di massa.

 

Cosicché il battaglione incaricato di trovare le armi dovette suddividersi: cinque squadre con le forze armate dovevano catalogare e gestire in tempi brevi qualunque tipo di arma di distruzione, mentre altre tre squadre avrebbero ispezionato sistematicamente i luoghi presenti nell’elenco.

 

Intanto ospedali, musei e edifici pubblici venivano saccheggiati. I residenti a Baghdad furono privati dei beni di prima necessità e pur essendo felici di esseri liberi da Saddam speravano però in una rapida riorganizzazione del paese da parte degli Stati Uniti.

 

Alla guida della nuova Amministrazione civile fu posto Jay Garner un generale in congedo che nel 1991, durante la prima guerra del Golfo, si era fatto degli amici tra i curdi iracheni. Aveva condotto l’operazione “Provide Comfort”, dopo la guerra del 1991, in aiuto di migliaia di curdi nell‘Iraq del nord.

 

La situazione era difficile. I curdi avevano preso il controllo del nord del paese, a sud il potere passò nelle mani dei leader religiosi sciiti, a Baghdad e nella zona centrale dell’Iraq, il cosiddetto “triangolo sunnita”, le forze ostili agli Stati Unti creavano più problemi.

 

Per difendersi dagli attentatori gli americani usavano far fuoco uccidendo e ferendo molti civili innocenti, accrescendo così l’odio della popolazione nei loro confronti. A quel punto l’Amministrazione Bush, che sperava in una rapida vittoria, comprese che sarebbero dovuti restare lì a lungo e avrebbero dovuto assumersi la responsabilità della ricostruzione del paese.

 

Il 21 e 22 febbraio Garner convocò 200 persone alla National Defense University di Fort Macnair, nella zona sudovest di Washington per una riunione, dove elencò una serie di problemi: le forze sul campo erano inadeguate per garantire la sicurezza nelle strade rischiando il caos civile, il Congresso non si era preoccupato di che futuro garantire all’Iraq, e poi c’era bisogno anche dell‘appoggio di un governo civile per mantenere la sicurezza.

 

Era convinto che con circa 260.000 soldati americani più altri 300.000 iracheni si sarebbe potuta garantire la sicurezza nel paese. Per la ricostruzione sarebbero serviti circa 800.000.000 di dollari, Garner ne disponeva di appena 27.

 

Intanto il colonnello McPhee e la sua squadra non avevano ancora trovato traccia di armi di distruzione di massa mentre il generale Franks comunicava che avevano distrutto circa il 90% delle forze nemiche e che non c’era traccia di crisi umanitaria.

 

Garner era convinto che bisognasse stipulare dei contratti ai civili iracheni per farli lavorare alla ricostruzione del paese, ma non essendo in linea con le idee dell’Amministrazione americana fu sostituito da Paul L. Bremer, esperto di terrorismo ed ex diplomatico. Arrivò a Baghdad il 12 maggio 2003 affermando la necessità di un occupazione prolungata e di almeno 500.000 unità per gestire il caos.

 

Provò da subito a rendere più libero l’Iraq creando una stampa libera e anche dei mezzi di telecomunicazione. Furono forniti dei generatori elettrici per tutti gli ospedali di Baghdad. Il 19 maggio emanò poi l’ordine di sciogliere l’esercito iracheno, provocando le proteste della popolazione. Garner rimase stupito dal fatto che Bremer non accettasse il suo piano di usare 200.000 o 300.000 uomini dell’esercito iracheno per gestire il paese.

 

A giugno Moqtada al-Sadr, un religioso sciita, organizzò delle milizie contro gli americani. I due leader curdi Massoud Barzani e Jalal Talabani avevano messo da parte le divergenze per creare assieme un futuro governo per l’Iraq. Garner però si allarmò ritenendo che il paese a maggioranza sciita non avrebbe ben tollerato una maggioranza curda.

 

Talabani propose allora tre nomi per il futuro governo: Adnan Pachachi, ex ministro degli esteri prima della presa del potere da parte di Saddam, Ayad Allawi, il leader sciita di una gruppo di opposizione all’ex regime chiamato “Iraqi National Accord” con base a Londra, e infine Ahmed Chalabi.

 

Il piano studiato prevedeva una lunga occupazione e poi il passaggio di potere, con l’aiuto dell’ ONU, dagli Stati Uniti agli iracheni. Bush intanto continuava a vedere fosche nubi all’orizzonte perché le armi di distruzione di massa non erano ancora state trovate. Si diffuse così l’opinione che il presidente avesse mentito al paese e che in realtà le armi non erano mai esistite.

 

In luglio anche l’ayatollah Ali Sistani, il più importante religioso sciita, entrò in rotta con Bremer. Verso la fine del mese gli americani scoprirono dove erano nascosti i figli di Saddam, Uday e Qusay, e li uccisero mostrandone poi i corpi in TV.

 

Il 19 agosto 2003 fu uno dei più tragici dall’inizio dell’occupazione con l’attentato alla sede dell’ONU a Baghdad che causò la morte del rappresentante speciale Sergio Vieira de Mello, oltre a 22 morti e molti feriti. Cosicché l’ONU decise di abbandonare l’Iraq e di ritornare solo quando il paese fosse stato davvero messo in sicurezza. In Iraq era il caos totale.

 

I soldati americani ormai uccidevano senza distinguere tra buoni e cattivi. Solo nelle zone del nord controllate dai curdi c’era più tranquillità. A luglio c’erano stati 500 attacchi contro le forze della coalizione, con un incremento nel mese seguente.

 

Nel settembre 2003 Bremer e il Pentagono annunciarono che entro il 2005 si sarebbe formato un esercito iracheno di circa 40.000 uomini oltre a 146.000 mila poliziotti. Ma al momento quei numeri erano solo un’utopia. Il 2 ottobre 2003 David Kay, il nuovo ispettore capo per la ricerca delle armi di distruzione di massa riferì al Congresso di non aver trovato niente. Aveva cominciato in Qatar il 18 giugno con il suo gruppo di analisi formato da circa 1.400 persone tra agenti della CIA, esperti di armi biologiche, analisti e traduttori.

 

In novembre l’Amministrazione Bush promise finalmente di restituire la sovranità a un governo iracheno e di terminare l’occupazione il 30 giugno del 2004 dopo che fosse stata creata una costituzione e un parlamento con un primo ministro. Ma l’insurrezione proseguì.

 

Il 4 novembre gli americani comunicarono a Sistani che si sarebbe stilata una costituzione provvisoria e delle elezioni. Sistani approvò. Inaspettatamente giunse una buona notizia quando la sera del 13 dicembre i soldati americani trovarono Saddam nascosto in una fossa in una fattoria vicino alla sua citta natale Tikrit.

 

In America sembrò che l’incubo fosse finalmente finito; ma gli attacchi contro le forze della coalizione si intensificarono. Intanto il progetto di creare un governo di transizione entro il 30 giugno sembrava allontanarsi sempre di più. L’ayatollah Sistani chiese che la futura costituzione fosse redatta da iracheni democraticamente eletti e insistette affinché fosse l’ONU a stabilire la data per le elezioni. Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite, inviò sul posto l’ex ministro degli esteri algerino Lakhdar Brahimi come suo rappresentante.

 

Il 28 gennaio Kay si dimise dopo aver testimoniato davanti al Congresso dichiarando l’assenza di armi di distruzione di massa, e spingendo quindi il Congresso stesso a avviare un’inchiesta in quanto era ormai diventato palese che l’Amministrazione Bush aveva mentito. Il 22 giugno circa 2.000 sciiti protestarono davanti al quartier generale di Bremer chiedendo le elezioni.

 

Nel luglio 2003 Bremer approvò quindi un governo ad interim che doveva eleggere un presidente. La presidenza sarebbe stata attribuita a rotazione a nove persone ognuna delle quali darebbe rimasta in carica un mese. Solo nel febbraio del 2004 però Brahimi arrivò in Iraq indicando d’accordo con Sistani e con gli americani la data delle elezioni per la fine del 2004. Bremer acconsentì che l’80% del nuovo esercito fosse formato da militari del vecchio esercito.

 

C’era poi il problema della costituzione provvisoria che doveva essere pronta per il 28 febbraio, ma all’interno del Consiglio governativo i curdi non volevano trattare con Sistani. Bremer riuscì allora a proporre un compromesso in cui il 1° marzo sarebbe stato scritto un documento in cui i curdi mantenevano la loro autonomia, l’Islam sarebbe stata la religione ufficiale di stato, con garanzia di libertà per altre religioni, e la legge islamica sarebbe stata una delle fonti della nuova costituzione. Non sarebbero state approvate norme contrarie alle leggi islamiche. Tutto sembrava procedere per il meglio.

Almeno fino al 31 marzo 2004, quando a Fallujah quattro contractors civili della Blackwater addetti alla sicurezza furono uccisi.

 

I marines allora attaccarono Fallujah, una città di 250.000 abitanti sulla rive dell’Eufrate a 80 chilometri da Baghdad. La città era ormai diventata l’epicentro della resistenza sunnita. Brahimi però ammonì di non attaccare altrimenti avrebbe ritirato la missione ONU. Bremer era d’accordo. Bush al contrario ordinò l’attacco provocando la morte di civili innocenti e la dura reazione degli abitanti della città che si armarono e costrinsero gli americani a ritirarsi.

 

Intanto l’Autorità Provvisoria aveva deciso di arrestare, nell’agosto del 2004, Sadr, che era diventato portavoce degli sciiti nei bassifondi di Baghdad e che aveva radunato un esercito. L’esercito di Sadr insorse e prese il controllo della citta di Najaf.

 

4.000 marines e i soldati iracheni circondarono la città. La rivolta fu domata ma Sadr non fu catturato perché Sistani lo convinse a ritirarsi nella zona nordovest della capitale.

 

In tutto l’Iraq la violenza continuava ad aumentare con 1.750 attacchi al mese. A questo punto Bush decise di assegnare un ruolo più importante all’ONU assegnando a Brahimi, e non a Bremer, il compito di nominare l’Assemblea Provvisoria che il 10 giugno sarebbe succeduta al Consiglio Governativo Iracheno.

 

L’ONU avrebbe sovrainteso alle elezioni previste per il gennaio 2005 che avrebbero portato alla nascita di una Assemblea Nazionale che a sua volta avrebbe formato un governo e la costituzione poi sottoposta a un referendum con conseguenti nuove elezioni per il vero e proprio governo ufficiale. Ma le fosche nubi non accennavano a diradarsi.

 

Prima della fine del mese vennero a galla le atrocità commesse da alcuni marines nel carcere di Abu Ghraib. Il 28 aprile la CBS, nel programma “60 Minutes II”, mandò in onda le immagini raccapriccianti delle torture. L’Amministrazione Bush tentò di correre ai ripari ma era ormai evidente che la situazione gli era sfuggita di mano e la violenza continuava a crescere. Ormai noi vi era più una strategia utile per riprendere il controllo politico e militare del paese.

 

L’ONU propose allora una nuova risoluzione e Bush dovette garantire agli iracheni la piena sovranità, la piena gestione del gas e del petrolio, e la possibilità per il nuovo governo iracheno di disporre la decisione di quando le truppe americane avrebbero dovuto ritirarsi. Il Consiglio governativo scelse Allawi come primo ministro ad interim.

 

Il 28 giugno Bremer trasmise il potere agli iracheni e lasciò il paese. Lo stesso giorno arrivò al suo posto John Negroponte, anche lui un ex diplomatico, che stabilì come prima cosa da fare di ristabilire l’autorità del governo iracheno. Intanto in Iraq era cambiato anche il comandante generale delle forze di occupazione, ora era George Casey.

 

Negroponte mise a disposizione 3.000.000.000 di dollari per progetti più immediati e diede a Casey 2.000.000.000 per la sicurezza e 200.000.000 per assumere gli iracheni. 130.000 soldati americani e 20.000 contractors rimasero nel paese. Nel giugno del 2004 anche Tenet si dimise.

 

Il 28 giugno 2004 l’occupazione era ufficialmente terminata e le elezioni del 30 gennaio 2005 sembrarono la fine delle violenze ma non fu così. Gli sciiti e i curdi infatti avevano avuto la maggioranza e questo provocò una reazione dei sunniti più radicali con nuovi attentati.

 

Il principale candidato alla nomina di primo ministro dopo le elezioni del 30 fu Ibrahim al-Jafari uno sciita e come presidente Talabani. Casey intanto aveva avuto l’ordine di cercare e uccidere Zarqawi. Il governo iracheno non riusciva infatti a garantire la governabilità e si temeva inoltre che il gruppo terrorista iraniano Hezbollah addestrasse i ribelli iracheni.

 

A ottobre del 2005 gli attentati raggiunsero quota 3.000. Il 15 dicembre furono indette le nuove elezioni e andarono a votare circa 11.000.000 di persone. Il 20 aprile il nuovo parlamento iracheno scelse come nuovo primo ministro Jawad al-Maliki, uno sciita, che si insediò poi il 20 maggio. L’operazione “Iraqi Freedom” si concludeva, ma la pace e la democrazia non erano nemmeno iniziate.

 

Da quel momento, dopo anni di distanza, e alla luce degli ultimi sanguinosi eventi accaduti in quella zona, si può dire che l’unico risultato certo di quella sciagurata invasione è stato l’ISIS.



 

 

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