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N. 128 - Agosto 2018 (CLIX)

La più sorprendente vittoria del genio ellenico

SULL’invasione slava del Peloponneso

di Roberto Conte

 

Come è noto, l’Impero Romano d’Oriente sfuggì nel V secolo al triste destino del suo corrispettivo occidentale e, nonostante invasioni e razzie, mantenne integri i suoi confini settentrionali, arginando o dirottando le massicce migrazioni verso sud dei popoli germanici. Tuttavia, dalla metà del secolo successivo, si trovò a dover fronteggiare un nuovo, imponente arrivo di popolazioni barbariche dal nord del Danubio.

 

Anche se, dopo lunghissime lotte dall’esito altalenante, sotto la dinastia macedone esso fu in grado di recuperare praticamente tutto il territorio perduto, ormai l’intera penisola balcanica aveva subito trasformazioni culturali e etniche irreversibili: era diventata, e lo sarebbe stata sino a oggi, una terra in assoluta preponderanza di Slavi, con gli antichi abitanti, di stirpe illirica o tracia e di lingua latina o greca, relegati in zone marginali, dove saranno in seguito conosciuti sotto il nome di Aromuni, Vlachs, Morlacchi, Cici, Sarakatsani.

 

Una parziale eccezione a questo scenario potrebbe essere rappresentata dagli Albanesi, qualora venisse provata la loro discendenza diretta dagli antichi Illiri.

 

Nell’ambito di questi eventi, particolare interesse ha destato presso gli storici, a partire dall’inizio dell’Ottocento, la sorte che ebbe a subire la Grecia, e soprattutto il Peloponneso, portando a un acceso e appassionante dibattito, non ancora del tutto appianato.

 

Esso ebbe inizio nel 1830, quando lo storico austriaco Jacob Philipp Fallmerayer pubblicò Geschichte der Halbinsel Morea während des Mittelalters, opera nella quale affermava senza mezzi termini che i Greci moderni discendevano dagli Slavi invasori o da immigrati mediorientali trapiantati dal governo bizantino, e addirittura che non una goccia di sangue degli antichi Elleni scorreva nelle loro vene.

 

Questa teoria radicale fu avanzata in pieno periodo romantico, e quando era ancora vivissima l’eco della lotta insurrezionale dei Greci contro il dominio ottomano, che aveva visto anche la partecipazione di molti giovani occidentali, alcuni dei quali, come l’inglese George Byron e l’italiano Santorre di Santarosa, avevano perso la vita durante quell’impresa; è naturale quindi che essa scatenasse immediatamente vibratissime proteste e confutazioni.

 

Si avviò quindi una polemica storiografica che si è trascinata sino ai giorni nostri, con posizioni che andavano dalla totale aderenza alla teoria di Fallmerayer al più completo negazionismo, che escludeva qualsiasi intrusione slava nel Peloponneso.

 

Le fonti scritte dell’epoca in cui si svolsero i fatti sono piuttosto rare e non molto precise, tanto da poter essere spesso impugnate da entrambe le parti come attestazione della veridicità delle proprie ipotesi.

 

Le prove di altra natura, toponomastiche, archeologiche, numismatiche o genetiche che siano, sono altrettanto aleatorie e aperte a qualsiasi tipo di interpretazione. In ogni caso, una disamina il più obiettiva possibile di tutti i documenti disponibili può aiutare a raggiungere qualche conclusione sicura su questo argomento.

 

Le prime ondate di invasioni slave a sud del Danubio avvennero sotto il regno di Giustiniano I (529-565), e furono di certo favorite dal fatto che questo imperatore stava impegnando il grosso delle sue risorse materiali e umane nel grandioso piano di riconquista dell’Occidente: se questa notevole impresa riuscì infine a raggiungere risultati non disprezzabili, come la conquista dell’Africa vandala, dell’Italia ostrogota e della parte meridionale della Spagna visigota, d’altro canto lasciò la frontiera settentrionale piuttosto sguarnita, facilitando le infiltrazioni dei barbari invasori.

 

Costoro, e in particolare la tribù slava degli Anti, forzarono più volte la frontiera danubiana (nel 534, 538, 540, 546, 547, 551, 552, 558 e 562), compiendo razzie e devastazioni in tutti i Balcani, senza che si riuscisse seriamente a mettere fine alle loro attività.

 

Nel 562 Giustiniano pensò di aver trovato una soluzione a questo drammatico problema stringendo un’alleanza con gli Avari, popolo di stirpe turanica o mongolica appena giunto dalle steppe orientali, proprio in funzione anti-slava.

 

I nuovi arrivati svolsero bene il loro compito, sottomettendo tutte le tribù dell’area transdanubiana, ma ben presto la cura si rivelò peggiore del male. Quando il nuovo imperatore, Giustino II (565-578), rifiutò improvvidamente di corrispondere loro il tributo sino a quel momento versato, egli si trovò a dover affrontare non più bande di predoni che, per quanto grandi, agivano senza concertazione tra di loro, ma un impero simile a quello creato da Attila un secolo prima, in grado di portare avanti una strategia di lungo respiro.

 

La caduta nel 582 di Sirmio, fortezza sulla Sava che costituiva la chiave di volta dei Balcani settentrionali, spalancò agli invasori le porte per la conquista di tutta la penisola. In particolare, gli Slavi, che in quel momento operavano in quanto sudditi del khagan avaro, penetrarono in massa entro i confini dell’impero, e non più al solo scopo di saccheggiare, bensì per stabilirvisi permanentemente.

 

In queste prime fasi non sembra che il Peloponneso sia stato colpito da queste devastazioni: scrivendo intorno al 584, nelle sue Historiae Ecclesiasticae, Giovanni di Efeso afferma che nel 581, approfittando del fatto che il grosso delle truppe imperiali era impegnato nella guerra contro i Persiani, gli Slavi percorsero tutta l’Ellade e le province di Tessaglia e di Tracia, e per i successivi quattro anni ebbero mano libera, potendo non solo saccheggiare città e campagne, ma anche installarsi a loro piacimento all’interno delle province.

 

Anche altri storici del periodo, come Menandro, Evagrio e Giovanni de Biclar affermano chiaramente che gli invasori razziarono e occuparono parte dell’Ellade, ma nessuno di essi nomina mai esplicitamente il Peloponneso, e è anche fonte di dibattito cosa essi volessero indicare precisamente con il nome di Ellade, che all’epoca era usato a volte per designare gli interi Balcani, a volte solo la Macedonia e la Tracia, a volte solo la Grecia centrale (il territorio su cui in seguito fu costituito l’omonimo thema).

 

Ma solo pochi anni dopo sembra che gli invasori siano riusciti a spingersi più a sud, non si sa se via terra, forzando l’istmo di Corinto, o via mare, passando su barche l’omonimo golfo. La testimonianza più esplicita di questa catastrofe ci viene dalla Cronaca di Monemvasia, che segnala che nel sesto anno dell’imperatore Maurizio, ovverosia nel 587, gli Avari dilagarono anche nel Peloponneso, che sarebbe sfuggito al controllo di Costantinopoli per ben duecentodiciotto anni.

 

I contestatori più radicali delle tesi di Fallmerayer hanno sempre messo in dubbio la veridicità di questa fonte, considerandola troppo tarda rispetto agli eventi narrati, tuttavia le stesse indicazioni giungono da una glossa del vescovo Areta di Cesarea, vissuto all’inizio del X secolo, il che porta a concludere che la fonte comune ai due testi fosse precedente a questo periodo, dunque piuttosto vicina all’epoca dei fatti.

 

La Cronaca di Monemvasia fornisce anche ulteriori particolari: gli abitanti di Sparta avrebbero cercato rifugio nel neonato centro abitato di Demena, presso Messina, quelli di Patrasso presso Reggio Calabria, quelli di Argo sull’isola di Orobè (probabilmente l’attuale Romvi), quelli di Corinto a Egina. A parziale contraddizione di tali affermazioni, tuttavia, la stessa fonte afferma che la parte orientale del Peloponneso, da Corinto a Capo Malea, rimase immune dall’effetto delle invasioni, e continuò a rimanere sotto il controllo imperiale.

 

Per lungo tempo gli imperatori di Costantinopoli non furono in grado di prendere alcuna iniziativa per rimediare a questa situazione: per quanto nel 601, dopo una vittoriosa campagna transdanubiana, Maurizio (582-602) fosse in grado di concludere con il khagan avaro Baian una pace che impegnava quest’ultimo a riconoscere il Danubio come frontiera in cambio di un aumento del tributo, nulla fa intendere che gli Slavi già insediatisi nei Balcani ritornassero a nord del fiume, e comunque l’anno successivo l’assassinio di Maurizio e l’usurpazione di Foca (602-610) fecero piombare nel caos tutto l’impero, e gli Avaro-slavi poterono riprendere impunemente le loro scorrerie, giungendo a minacciare seriamente la stessa capitale.

 

Neanche il declino della supremazia avara, che ebbe inizio proprio dopo il fallito assalto a Costantinopoli, nel 626, riuscì a frenare le continue infiltrazioni delle tribù slave, ormai libero di agire come entità del tutto indipendenti, e il loro definitivo insediamento all’interno dell’impero.  

 

In queste condizioni, e con la continua minaccia dell’appena nata potenza araba a est, i successivi sovrani dovettero occuparsi esclusivamente della sopravvivenza stessa dello stato. Anche quelli tra loro che riuscirono a lanciare qualche controffensiva nei Balcani, come Costante II nel 659 o Giustiniano II nel 688-689, concentrarono i loro sforzi sulle zone più vicine alla capitale e per questo più fondamentali dal punto di vista strategico, come la Tracia o la Macedonia.

 

È vero che le operazioni militari di Giustiniano II sembrano aver permesso la costituzione del thema dell’Ellade, la cui esistenza è attestata con sicurezza dal 695, ma non è chiaro se esso includesse anche il Peloponneso orientale o fosse limitato alla Grecia centrale, che in effetti costituiva la sua base territoriale nel IX secolo.

 

Dalle poche testimonianze disponibili, sembra però che l’intero Peloponneso restasse abbandonato a se stesso: tra il 723 e il 728 il monaco (in seguito vescovo e poi santo) inglese Willibald, in viaggio verso la Terrasanta, sostò a Monemvasia, che secondo lui si trovava “in Sclawinia terra”.

 

A peggiorare la situazione, nel 746-747 si abbattè su tutta la Grecia una terribile pestilenza, che decimò la popolazione: fu in questa occasione, secondo quanto scrive Costantino Porfirogenito nel suo de Thematibus, che tutto il Peloponneso su slavizzato e divenne barbaro (εσθλαβωθη δε πασα η χωρα, και γεγονε βαρβαρος).

 

Molti studiosi si sono accapigliati sulla traduzione più esatta del termine εσθλαβωθη, per alcuni da intendersi come “fu slavizzata”, per altri “fu resa schiava”, ma il senso delle parole dello scrittore e imperatore resta lo stesso: gli Slavi erano ben presenti nella penisola e se ne erano resi padroni.

 

Considerando queste testimonianze, non è possibile negare l’arrivo e l’insediamento di numerosi slavi nel corso del Medioevo. Tuttavia sarebbe altrettanto errato sposare incondizionatamente la tesi dell’estinzione degli antichi Elleni.

 

La calata delle loro orde tra la fine del VI e la prima metà dell’VIII secolo nel Peloponneso causò certamente molto terrore e un rilevante spostamento di popolazioni, come rilevato dalla Cronaca di Monemvasia: accanto a coloro che cercarono rifugio oltremare, ci furono Elleni che emigrarono in luoghi più difendibili, in zone impervie o vicine al mare, dove era possibile ottenere rifornimenti e aiuti da Costantinopoli. In questo caso un aiuto importante può essere fornito dalla toponimia.

 

Nel periodo successivo alla discesa slava, diverse importanti città dell’età classica risultano scomparse, soprattutto nella parte centrale e occidentale della penisola. Non c’è più traccia di Messene o di Olimpia, mentre altri abitati celebri nell’antichità hanno assunto nomi in apparenza di origine slava: così al posto di Tegea troviamo Nikli, al posto di Mantinea Goritsa, al posto di Micene Charvati, poco distante da Megalopoli Veligosti.

 

Da un censimento dei centri abitati nel Peloponneso recanti un’onomastica slava, è possibile evincere una loro particolare diffusione in Acaia, Arcadia e Laconia, mentre al contrario essi sono piuttosto rari in Argolide e Corintide, il che in un certo modo viene a confermare la testimonianza della Cronaca di Monemvasia sul ritiro delle genti elleniche verso le coste orientali.

 

Ma altri indizi forniti dalla toponomastica permettono di intuire altri movimenti di popolazioni in questa fase storica piuttosto oscura. A sud di Kalamata, presso le coste della Messenia, esisteva il villaggio di Ano Mantinea, in seguito ribattezzato Megali Mantinea, il che sembrerebbe indicare che gli abitanti dell’antica città arcade si trasferirono in massa in questa zona, molto probabilmente proprio a causa dell’intrusione slava.

 

Ci furono comunque anche distretti dell’interno che riuscirono a arginare quella marea umana: nella zona dell’antico lago di Feneo, per esempio, sopravvissero, a volte mutando solo leggermente la loro denominazione, i villaggi di Lykouria (Lykouri), Kleitur (Klitouras), Steno, Tarso.

 

Costantino Porfirogenito, nella sua altra opera de Administrando Imperio, ricorda il caso degli abitanti dell’estremità della penisola di Maina, che indica come gli eredi degli antichi Spartani, che in quel territorio impervio resistettero a ogni penetrazione slava, mantenendo addirittura sino al regno di Basilio I (860-885) la religione pagana.

 

Questa notizia può sembrare sospetta, e ha indotto alcuni studiosi a ritenere che essa sia invece una prova dell’origine slava di questa gente, ma bisogna considerare che Sparta nel Tardo Antico era una città molto meno aperta al resto del mondo rispetto a Atene o Tessalonica, erede di una prestigiosa tradizione classica, in cui ancora nel IV secolo avanzato si aveva notizia di contrasti tra cristiani e pagani. Non sarebbe assurdo ritenere che ancora al momento dell’invasione, nel 587, molti dei suoi abitanti fossero ancora legati alle antiche credenze.

 

Forse i membri della comunità cristiana cercarono rifugio a Monemvasia o in Sicilia, ma i pagani, quelli più legati alle memorie del passato, non vollero abbandonare la Laconia e si asserragliarono nella penisola di Maina, di difficile accesso e per questo facilmente difendibile. Successivamente, il periodo di isolamento di più di due secoli che interessò l’intero Peloponneso permise ai Mainoti di restare pagani sino al ritorno dell’autorità di Costantinopoli, che in seguito provvide alla loro evangelizzazione.

 

Un’altra comunità indicata come del tutto esente, o almeno poco permeata, di elementi slavi è quella degli Tsakoni, abitante le coste orientali della Laconia, dove si parla ancora oggi un dialetto di tipo dorico, derivato direttamente dall’antico spartano.

 

È dunque presumibile che gli Slavi si insediassero soprattutto nelle aree centrali e occidentali del Peloponneso, ma anche in queste località è eccessivo parlare di una totale eradicazione della popolazione indigena.

 

Gli Slavi non avevano alcun concetto di purezza razziale, e, una volta occupate le terre che desideravano, non avevano alcun interesse a sterminare i primitivi abitanti; le loro stesse tribù comprendevano anche elementi germanici, unni, iranici: è probabile addirittura che gli Anti, che furono i principali protagonisti delle invasioni del VI secolo, fossero governati da un’aristocrazia di origine appunto iranica.

 

A questo proposito, è indicativa una storia narrata nei Miracula Sancti Demetri, risalente più o meno alla metà del VII secolo e che si occupa della rivolta contro il khagan degli Avari di un capo bulgaro di nome Kouver, che ottenne l’aiuto dell’imperatore Eraclio I (610-641). Costui era a capo di una grande banda, formata da Slavi, Avari e Bulgari, ma anche da indigeni legati agli invasori da relazioni matrimoniali.

 

Proprio su istanza di questi ultimi, questo gruppo si spostò da Sirmio in Macedonia, allo scopo di tornare nelle loro sedi originarie, da cui erano stati allontanati un’ottantina di anni prima.

 

Da questo episodio si evince che in molti casi non ci fu una drastica sostituzione di popolazioni, ma piuttosto una loro fusione, volontaria o imposta che fosse; in seguito, il predominio linguistico andò alla parte che risultava più numerosa, e in questo caso bisogna ammettere che nel Peloponneso, e in generale nella Grecia, l’elemento ellenico finì con il prevalere nettamente, favorito anche dalla definitiva riscossa bizantina: nel 783 un esercito al comando dell’eunuco Stauracio ristabilì l’autorità imperiale su tutta la penisola, e nell’805 un tentativo di sollevazione slava fu definitivamente sconfitto davanti alle mura di Patrasso. La costituzione del thema del Peloponneso, avvenuta qualche tempo prima di quest’ultimo episodio, sancì il definitivo ritorno di tutta la penisola sotto il controllo di Costantinopoli.

 

Il predominio numerico degli Elleni rispetto ai nuovi arrivati sembrerebbe confermato da recenti studi genetici, condotti dal professor George Stamatoyannopoulos della Washington University, che hanno dimostrato che l’eredità slava sull’odierna popolazione peloponnesiaca va da un minimo dello 0,2 a un massimo del 14,4%, mentre molto più stretto appare l’apparentamento con gli Italiani meridionali e con i Siciliani.

 

Questi dati, tuttavia, devono essere considerati con molta cautela, tenendo conto che il Peloponneso fu interessato nel XIV secolo da un rilevante flusso di genti albanesi, che contribuirono a mescolare ulteriormente il patrimonio genetico dei Peloponnesiaci, e anche, come notato prima, del carattere composito dal punto di vista etnico delle tribù di lingua slava.

 

È vero d’altronde che nei decenni e nei secoli successivi continuarono a essere menzionate comunità slave indipendenti all’interno del Peloponneso.

 

Verso l’842 lo stratego Teoctisto Brienne dovette condurre nuove operazioni contro alcune popolazioni ancora recalcitranti a sottostare all’autorità degli imperatori. Si suppone che i montanari della regione chiamata Skorta, in Arcadia occidentale, che nel XIII secolo non mancarono di causare grattacapi ai signori latini della Morea, fossero appunto di origine slava, come lo erano certamente le tribù dei Melingi e degli Ezeriti, stanziate rispettivamente sul versante occidentale e su quello orientale della catena del Taigeto, in Laconia.

 

Queste comunità, tenute a versare tributi all’imperatore, scesero in rivolta tra il 921 e il 924, e vennero sottomesse solo al termine di una campagna militare di otto mesi, condotta dallo stratego Krinitis Arotras. Costui impose loro un aumento delle tassazioni, che tuttavia fu abbuonato quasi subito dall’imperatore Romano I Lecapeno, che temeva che esse potessero far lega con il khan bulgaro Samuele, che aveva invaso l’impero.

 

Gli Ezeriti sparirono presto dalla storia, probabilmente assorbiti dai vicini ellenofoni, ma i Melingi furono ancora ricordati a lungo, almeno sino al XV secolo.

 

Risale proprio a questo periodo un’interessante relazione scritta da un certo Mazaris, giunto verso il 1415 da Costantinopoli, che distingue otto gruppi di popolazione presenti nella penisola (tra l’altro avendo da lamentarsi su tutti): i Peloponnesiaci (presumibilmente la gran massa degli Ellenofoni), i Laconi (probabilmente gli Tsakoni), gli Albanesi (giunti in gran numero, come detto, sul finire del XIV secolo) gli Italiani (cioè i mercanti e i trafficanti occidentali), gli Zingari, gli Ebrei e, appunto, gli Slavi, che quindi costituivano ancora un gruppo a sé.

 

In conclusione, è possibile affermare con una certa sicurezza che il Peloponneso fu interessato, come il resto dei Balcani, da uno stanziamento piuttosto massiccio di popolazioni slave, iniziato probabilmente già nel 587, rafforzatosi nel corso del VII secolo, e favorito anche dalla terribile pestilenza che nel 746-747 decimò la popolazione indigena.

 

Quest’ultima, però, non scomparve completamente: accanto ai molti profughi che cercarono rifugio in Italia meridionale o a Costantinopoli, ci furono molti altri Elleni che continuarono a resistere nella parte orientale e meridionale della penisola, e altri che si adattarono a vivere accanto ai nuovi venuti. Per un certo periodo di tempo il Peloponneso, rimasto privo di contatti con il cuore dell’impero, si imbarbarì, tanto da essere considerato una terra slava sia dagli ambienti colti della capitale, sia dagli occasionali viaggiatori occidentali.

 

Al momento della riconquista bizantina, però, il sostrato ellenico potè riprendere il sopravvento, in quella che lo storico francese Paul Lemerle definì “una delle più sorprendenti vittorie del genio ellenico”, facilitato anche dall’arrivo di migranti ellenofoni provenienti da altre zone dell’impero e dal ritorno dei discendenti di quanti erano fuggiti in Italia al momento dell’invasione, e riuscì a assorbire tutte le comunità slave all’interno della penisola, anche se alcune di esse mantennero più a lungo la loro distinta identità.

 

È questo l’elemento più probante della sopravvivenza, in numero piuttosto rilevante, degli antichi abitanti: altrove nei Balcani, anche nelle zone più vicine a Costantinopoli, e a onta dei massicci trasferimenti di popolazioni orientali operati dai vari imperatori bizantini, furono i nuovi arrivati a fagocitare gli indigeni e a slavizzarli completamente o a marginalizzarli nelle aree più impervie del territorio.



 

 

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