“La creazione del “nemico islamico” è 
							stata studiata a tavolino ed è l’elemento 
							propagandistico principale degli Stati Uniti e dei 
							loro alleati, impegnati a demonizzare sia le 
							popolazioni degli Stati che vogliono distruggere sia 
							le “quinte colonne” in casa, ovvero gli immigrati di 
							religione islamica (…). Tuttavia, e meno male, 
							l’italiano è tutto tranne che “razzista”, perché a 
							quest’ora, con le dosi da cavallo d’islamofobia 
							iniettategli da tv e giornali, ci dovrebbe essere 
							una caccia al musulmano sullo stile del KKK!" 
							(Enrico Galoppini)
							
							
							 
							
							
							CANZANO 
							
							- La cultura italiana fino a che 
							punto è pronta ad accettare 'aperture' verso nuovi 
							modelli di cultura islamica?
							
							
							 
							
							
							GALOPPINI 
							- Se per “cultura” intendiamo la scuola, la 
							situazione è semplicemente disastrosa. Si fa un gran 
							parlare di “incontro tra culture”, ma i manuali di 
							Storia, ad esempio, dedicano alla civiltà 
							arabo-musulmana un solo capitolo, di regola inserito 
							prima di quello dedicato a Carlo Magno, nel contesto 
							della “dissoluzione dell’Impero Romano”.
							 
							
							
							
							Effettivamente, lo sviluppo 
							dell’Islam si situa in un’epoca in cui la parte 
							occidentale dell’Impero, governata da Longobardi e 
							Bizantini, era già scomparsa (almeno di questo 
							l’Islam non ha colpe!), con Carlo Magno che emerge 
							proprio nel momento in cui a Baghdad, col califfo 
							Hârûn ar-Rashîd, l’Islam raggiunge uno dei momenti 
							di massimo splendore. Tuttavia, le conquiste 
							islamiche, ancora descritte – anche nei migliori 
							manuali! – come “saracene”, vengono associate a 
							quelle ungare e normanne, il che veicola l’idea di 
							una “cittadella europea assediata” dai “barbari”. 
							Nei manuali di Storia medievale, il capitolo 
							sull’Islam si conclude col 1258, anno della 
							conquista mongola di Baghdad, seguito da quello su 
							Carlo Magno e la “rinascita”, o meglio, la “nascita 
							dell’Europa”, secondo una storiografia che 
							sinceramente ha fatto il suo tempo. Inscatolare una 
							plurisecolare storia islamica in un solo capitolo 
							che copre circa sei secoli è un’operazione che 
							denota un notevole disinteresse ad inserire i popoli 
							arabi e musulmani in una storia complessiva del 
							Mediterraneo (e non solo), astraendo dall’intreccio 
							di relazioni tra popoli e civiltà diverse. Non è un 
							caso, infatti, che ai nostri studenti si propongano 
							testi nei quali la storia della cultura è 
							sacrificata rispetto a quella politico-militare, 
							nella quale viene esaltato il momento conflittuale.
							 
							
							
							
							E dopo il suddetto capitolo-fiume, 
							arabi e musulmani saltano fuori – come gli “indiani” 
							dei film western - in quello dedicato alle 
							Crociate, mentre gli Ottomani, che per 
							quattro-cinque secoli hanno retto un Impero che si 
							estendeva su tre continenti, vengono nominati solo o 
							quasi per rievocare gli assedi di Vienna del 1529 e 
							del 1638, del tutto decontestualizzati, oppure per 
							far sapere all’ignaro studente che passato il 
							Cinquecento essi entrarono in un’inspiegabile 
							“crisi” protrattasi per oltre tre secoli! Inoltre, 
							dell’importantissimo apporto persiano nella 
							costruzione della civiltà islamica non v’è traccia…
							 
							
							
							
							Poi, per “cultura” si può intendere 
							quella veicolata da alcuni studiosi (la parola 
							“intellettuali” non mi piace affatto perché 
							l’associo ad una “organicità” rispetto al potere, 
							quindi preferisco “studiosi” o “uomini di cultura”, 
							che ha il suo equivalente in arabo: muthaqqafûn), 
							tra i quali ne vanno segnalati alcuni che svolgono 
							un meritorio lavoro di divulgazione (con la quale 
							bisogna ‘sporcarsi’!) volto a rendere complesso e 
							sfaccettato il quadro della civiltà arabo-musulmana 
							e delle sue influenze, in un senso e nell’altro, 
							rispetto alle altre civiltà. Mi riferisco a studiosi 
							come Franco Cardini (che è un medievista, non un 
							islamologo) e Claudio Mutti (Edizioni all’insegna 
							del Veltro), mentre gli “esperti” accademici in 
							genere – a parte i sociologi dell’Islam - se ne 
							stanno molto riservati, e solo recentemente, perché 
							tirati in ballo da un patetico ed esotico 
							giornalista, sono usciti dal guscio: speriamo che 
							quest’antipatico episodio rappresenti un 
							provvidenziale cambiamento, per l’intera categoria, 
							della considerazione che hanno per l’“interventismo 
							della cultura”, il quale – sia beninteso – non può 
							prendere le mosse se non da una solida preparazione 
							(sperando di non far torto a nessuno, segnalo le 
							opere di Alberto Ventura e di Angelo Scarabel) e, 
							aggiungo, dalla coscienza dei tempi in cui viviamo.
							 
							
							
							
							Il riferimento alla “cultura” 
							coinvolge inoltre anche le trasmissioni televisive 
							di divulgazione, ma qui è il buio totale. In 
							centinaia di documentari dedicati, anche in prima 
							serata (penso a “Superquark”), alle varie civiltà 
							emerse nella storia dell’uomo, non mi risulta che ne 
							sia mai stato trasmesso uno sulla civiltà 
							arabo-musulmana. Il fatto è talmente strano che 
							viene da pensare che ci sia una qualche sorta di 
							“consegna del silenzio”. L’unica eccezione di un 
							certo rilievo fu una trasmissione che andava in 
							onda, al mattino, nei primi anni Novanta, dal titolo 
							“Islam. Cultura e civiltà”, la quale era davvero ben 
							fatta coniugando il rigore “scientifico” con la 
							capacità della divulgazione. Dall’11 settembre 2001, 
							poi, non si può certo pretendere che la situazione 
							migliori: l’Islam dev’essere “il nemico”, punto e 
							basta, perché così hanno decretato gli Stati Uniti.
							 
							
							
							
							Ecco perché a fronte del profluvio di 
							dichiarazioni di principio intonate al “rispetto” e 
							all’“incontro”, anche a livello locale, dove ci si 
							aspetterebbero minori censure mentre la tendenza è 
							quella del “quieto vivere”, è difficilissimo 
							organizzare occasioni d’approfondimento quali corsi 
							di lingua araba e di cultura arabo-islamica: non si 
							trovano non dico i fondi per finanziare simili 
							iniziative (i fondi ormai ‘mancano’ per le cose 
							essenziali!), ma addirittura è complicatissimo 
							ottenere uno spazio, un patrocinio, una seppur 
							simbolica forma d’incentivazione e di sostegno. 
							Eppure, posso assicurare che vi sono molte più 
							persone di quanto si creda che vorrebbero “saperne 
							di più”, ma la situazione è fortemente pregiudicata 
							da chi detiene posizioni di responsabilità, a tutti 
							i livelli.
							
							
							
							 
							
							
							CANZANO 
							
							-  
							
							Parlami della nascita di ghetti nelle nostre città - 
							le ‘banlieue di casa nostra’ -  e di conflitti 
							sociali, dei migranti che vivono la precarietà in 
							termini assoluti.
							
							 
							
							
							GALOPPINI 
							
							– Attenzione. Qua il discorso con 
							l’Islam non c’entra più nulla o quasi (spiegherò il 
							“quasi”). Parliamo d’immigrazione, allora, ma 
							l’immigrazione di musulmani (e poi bisogna vedere se 
							costoro, in maggioranza, sono solo ‘musulmani 
							anagrafici’!) è solo una parte. Altrove (“Eurasia” 
							4/2006) ho spiegato che, a mio avviso, la radice del 
							“problema” è essenzialmente economica. Cito il punto 
							d’arrivo del ragionamento che svolgevo in quelle 
							pagine: “Queste 
							le due condizioni fondamentali: l'immigrato va bene 
							se 1) in Italia ha da svolgere un lavoro che gli 
							autoctoni non sanno o non vogliono fare; 2) tale 
							lavoro non è offerto a condizioni che comportino 
							un regresso per le condizioni lavorative (salari, 
							previdenza, ferie ecc.) alle quali essi sono 
							abituati, perché in caso contrario si è in 
							presenza di una truffa ai danni di quel popolo i cui 
							politici sono stati eletti proprio per tutelarne gli 
							interessi!”.
							 
							
							
							L’essenziale sta tutto qui. Poi, se vogliamo parlare 
							del resto, dei “problemi sociali” che l’immigrazione 
							comporta, e, nello specifico, la formazione di 
							‘ghetti’ come quelli francesi, possiamo anche 
							parlare dell’Islam (così, spiego quel “quasi” 
							dell’inizio della mia risposta). Ad un 
							intervistatore siriano al quale spiegavo i problemi 
							che pone l’immigrazione di musulmani in Italia ho 
							detto che la stessa religione dell’Islam, se vissuta 
							socialmente come una sorta di ‘rifugio’, di 
							surrogato della madrepatria, allora diventa un 
							fattore che porta alla ghettizzazione, fermo 
							restando che questa si verifica soprattutto a causa 
							dell’ipocrisia di chi ha fatto arrivare gli 
							immigrati senza tener conto dei due punti 
							summenzionati e poi li ha voluti ‘nascondere’, 
							‘esorcizzare’ in quartieri dormitorio sfruttando il 
							fatto che sia gli autoctoni che gli allogeni, 
							comportandosi come fanno gli altri animali, tendono 
							a tenersi separati.
							 
							
							Se 
							si vuole evitare flussi d’immigrati incontrollabili 
							bisogna tener conto di quei due punti, ma se gli 
							immigrati arrivano e si pensa che sono una 
							“ricchezza” allora dobbiamo cercare, tutti quanti, 
							di costruire occasioni d’incontro concreto, basate 
							su questioni concrete, che coinvolgono l’esser 
							“cittadini” (o quantomeno “residenti”: io sono 
							contrario a che la “nazionalità” venga elargita come 
							la tessera di un circolo); non mi riferisco agli 
							incontri interreligiosi che, per carità, saranno 
							anche utili al loro livello, eppure contribuiscono 
							ben poco – a causa del loro carattere elitario - a 
							far sentire tutti quanti coinvolti in un “vivere 
							comune”. Insomma, è più facile dirsi che “ci si 
							rispetta” e che “preghiamo l’unico Dio” che mettersi 
							tutti assieme a risolvere problemi concreti quali il 
							trasporto pubblico, la nettezza urbana e… lo spaccio 
							di droga, che non è certo un problema che nasce a 
							causa degli immigrati di religione islamica!
							 
							
							
							L’Islam condanna senz’appello l’uso e lo spaccio di 
							droghe, sennonché gli spacciatori maghrebini non 
							sono degli assidui frequentatori di moschee! Di 
							nuovo, si vuol fare di questioni piuttosto semplici 
							da analizzare (e forse anche da risolvere), un 
							affare che coinvolge appartenenze, identità e tutto 
							ciò che smuove sentimenti del tipo “noi contro 
							loro”. Siccome non ha senso ripetersi, rimando ad un 
							mio articolo apparso su varie testate, nel quale – 
							sebbene sia perfettamente conscio che il consumo di 
							droga si nutre di un disagio sociale ed è alimentato 
							dal potere con la P maiuscola -  proponevo una 
							strategia per togliere di mezzo almeno gli 
							spacciatori: 
							http://www.oppostadirezione.altervista.org/Opposta_direzione_2.pdf.
							 
							
							
							Che il degrado urbano sia dovuto agli immigrati è 
							vero perciò solo in minima parte. È vero nei 
							quartieri infestati da spacciatori, ma in altri casi 
							non è davvero il caso di tirare in ballo né gli 
							immigrati né tanto meno la loro religione. L’altro 
							giorno, mentre facevo la solita gimcana tra gli 
							escrementi di cane che ‘adornano’ i marciapiedi di 
							Torino, mi è venuto in mente che le persone di 
							cultura musulmana rarissimamente possiedono un cane, 
							quindi trattasi di ‘civilissimi’ italiani che devono 
							sentirsi offesi nell’uscire con paletta e sacchetto… 
							E che dire delle scritte sui muri, anche di palazzi 
							storici? Al 99% sono in italiano… E poi, via, non 
							diamo sempre la colpa agli altri: l’immigrato si 
							comporta in base all’esempio che vede. Nella 
							Mitteleuropa e in Scandinavia chi arriva capisce 
							subito che o si adegua o se ne va, qua chi già di 
							suo non è un campione di civiltà si adegua alla 
							media degli italiani, che è davvero un campionario 
							d’inciviltà.
							 
							
							
							Purtroppo l’immigrazione scatena le demagogie più 
							ignobili e gli irenismi più melensi, e nello 
							specifico quella di persone provenienti da Paesi a 
							maggioranza arabo-musulmana si trova a fronteggiare 
							un clima che si serve dell’islamofobia per precise 
							strategie geopolitiche atlantiche. La creazione del 
							“nemico islamico” è stata studiata a tavolino ed è 
							l’elemento propagandistico principale degli Stati 
							Uniti e dei loro alleati, impegnati a demonizzare 
							sia le popolazioni degli Stati che vogliono 
							distruggere sia le “quinte colonne” in casa, ovvero 
							gli immigrati di religione islamica (mi permetto di 
							segnalare che a breve uscirà una mia raccolta di 
							articoli su “Islam e disinformazione”). Tuttavia, e 
							meno male, l’italiano è tutto tranne che “razzista”, 
							perché a quest’ora, con le dosi da cavallo d’islamofobia 
							iniettategli da tv e giornali, ci dovrebbe essere 
							una caccia al musulmano sullo stile del KKK!
							
							
							 
							
							
							CANZANO 
							- Nel meridione d’Italia, in città come Napoli e 
							Palermo, dove  la presenza di musulmani è notevole, 
							potrebbe verificarsi una situazione come quella 
							della famosa Via Anelli a Padova?
							
							 
							
							
							GALOPPINI 
							– Non credo. Napoli e Palermo hanno già troppi 
							problemi per permettersi anche quello! E poi, non 
							facciamo confusione. Problemi ingenerati da 
							situazioni come quella di Via Anelli a Padova, per 
							quel che ho capito da un’inchiesta trasmessa da 
							“La7”, non possono essere associati in alcun modo al 
							fatto che quelle persone sono musulmane. Musulmani 
							praticanti coscienti della responsabilità di fronte 
							a Dio del fatto di “essere musulmani” non fanno di 
							quelle cose, ma se un musulmano spaccia droga non lo 
							fa certo perché è “musulmano”! La sua religione, il 
							suo “modo di vita” che è ispirato dal Corano e 
							dall’esempio del Profeta Muhammad non gli dicono di 
							drogarsi e di spacciare! Allora diciamo che esistono 
							‘musulmani anagrafici’ che si drogano e, 
							soprattutto, spacciano (come mi capita di osservare 
							in certe zone di Torino), ma in questo caso il 
							problema è di ordine pubblico ed è chi dovrebbe 
							prevenire e, al limite, eliminare senza pietà tale 
							scempio che non sta facendo bene il suo lavoro…
							
							 
							
							
							CANZANO 
							- Il film "Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano" 
							diretto da François Dupeyron propone parecchi spunti 
							interessanti: il grande Sharif interpreta il ruolo 
							di un anziano droghiere arabo che stringe un patto 
							di amicizia sincera con un ragazzino ebreo, in un 
							viaggio che da Parigi li porterà fino alla Turchia 
							alla ricerca forse di un punto d’incontro, di 
							un’origine comune. Si parla di culture diverse che 
							sono in grado di comunicare, convivere e apprezzarsi 
							a vicenda, pensi che è possibile questo tipo di 
							convivenza?
							
							 
							
							
							GALOPPINI 
							–  La “convivenza” tra diversi è una cosa difficile 
							da realizzare. Non ci si riesce nemmeno tra maschio 
							e femmina... figuriamoci tra religioni ed etnie. 
							Però, se la situazione lo richiede, ci si può 
							provare, ma tutte le parti in questione devono 
							assumere un atteggiamento propositivo. Chi arriva 
							non deve fare la “vittima” di atteggiamenti 
							comprensibili, perché, si sa, gli stranieri sono 
							naturalmente percepiti come un elemento perturbatore 
							(a volte lo sono) dagli indigeni, specialmente 
							quando questi ultimi ne vedono arrivare troppi tutti 
							assieme.
							 
							
							Il 
							problema della “convivenza”, comunque, riguarda le 
							nostre società, perché in molti Paesi a maggioranza 
							musulmana, in specie nel Vicino Oriente, essa è un 
							risultato acquisito da secoli, cioè da quando, nel 
							VII secolo, le armate del califfo ‘Umar varcarono i 
							confini dell’Arabia per invadere territori allora 
							sotto l’Impero Bizantino. Ebbene, si fa un gran 
							parlare dei “cristiani d’Oriente in pericolo”, però 
							un giorno dovranno spiegarci  com’è possibile che da 
							XIV secoli quella cristiana è una presenza costante… 
							per non parlare di chi ha fomentato l’attacco 
							all’Iraq e non denuncia la triste condizione dei 
							cristiani (come di tutti i palestinesi) in 
							città-simbolo della religione cristiana come 
							Betlemme e Nazaret, o la stessa Gerusalemme, ma poi 
							si erge a paladino di costoro giusto per apportare 
							il proprio contributo alla campagna di allarmismo 
							sull’Islam in corso. Invece, in Europa, che fine 
							hanno fatto i musulmani di Sicilia, o quelli di 
							al-Andalus? Alla fine, tutti espulsi, come se 
							l’“Occidentale” fosse incapace di convivere col 
							“diverso”.
							 
							
							
							Intendiamoci, non sto prendendo le difese di una 
							parte per addossare tutti ti difetti all’altra. Ad 
							esempio, non mi piace per niente il modo 
							“partigiano” con cui tra i musulmani si parteggiava 
							per i bosniaci o per i kosovari solo perché 
							musulmani, senza porsi domande sulle dinamiche 
							geopolitiche che caratterizzano la situazione nella 
							ex Jugoslavia.
							 
							
							Se 
							poi però vuoi sapere un mio parere sul film non 
							posso dartelo perché non l’ho visto. Anche se devo 
							dire che l’industria culturale (cinema, editoria 
							ecc.) promuove soprattutto esempi di “convivenza” 
							che astraggono dalle situazioni concrete. In altre 
							parole, la “convivenza” è una cosa edificante, ma a 
							patto che esista giustizia per tutti, ed il caso dei 
							palestinesi non mi pare proprio quello su cui si 
							possa, senza scadere nell’ipocrisia, costruire 
							sceneggiature rassicuranti dove tutti sono “vittime” 
							allo stesso modo. Lo stesso discorso vale per il 
							tipo di musulmano posto all’attenzione del gran 
							pubblico occidentale: si tratta quasi sempre di 
							“riformisti”, di “laici”, di “femministe islamiche”, 
							di personaggi al limite della curiosità, mentre 
							invece sarebbe davvero un segnale di concreta 
							accettazione dell’Altro per quel che è se a una 
							delle numerose rassegne culturali s’invitasse un 
							musulmano che spiega la sua religione e la Legge che 
							ne è parte integrante senza pretendere che si 
							giustifichi sui rapporti tra i sessi, la pena di 
							morte e tutto ciò che rientra nella neoreligione 
							occidentale dei “diritti umani”.
							 
							
							
							Nell’Impero Ottomano, cioè fintanto che è durata una 
							compagine imperiale musulmana, la “convivenza” non 
							era fondata sull’omologazione ma su un largo 
							autogoverno delle varie comunità o “nazioni 
							religiose”. In un certo senso era più facile da 
							praticare, anche se a noialtri, oggi, può sembrare 
							difficile dal punto di vista teorico: infatti, 
							finito l’Impero Ottomano (e già dall’ascesa dei 
							Giovani Turchi, massoni, laicisti e nazionalisti), 
							la plurisecolare convivenza tra turchi e greci è 
							saltata…
							 
							
							La 
							religione dell’Islam, inoltre, accetta tutte le 
							altre religioni. Cioè, le considera, certo a modo 
							suo, ovvero interpretandone i punti-cardine secondo 
							un’ottica funzionale al proprio discorso, 
							provenienti da Dio, mentre da parte delle altre non 
							c’è reciprocità di vedute, e nel migliore dei casi 
							la considerazione per l’Islam si appunta 
							sull’“esperienza religiosa” dei musulmani. Certo 
							l’Islam è avvantaggiato dall’essere l’ultima 
							“Rivelazione”, tuttavia quest’accettazione 
							dell’Altro religioso da parte dell’Islam è un punto 
							indubbiamente a suo favore.
							 
							
							Note su Enrico 
							Galoppini
							 
							
							Insegna Storia dei 
							Paesi islamici presso la Facoltà di Scienze della 
							Formazione - corso di Lingue e culture dell'Asia e 
							dell'Africa - dell'Università Kore di Enna e presso 
							la Facoltà di Lingue e Letterature straniere 
							dell'Università di Torino.
							 
							
							Diplomato in lingua 
							araba (diploma di "fine corso") presso l’Università 
							della Giordania e l’Istituto Bourghiba di Tunisi 
							(1998-1999).
							 
							
							Come interprete e 
							traduttore dall'arabo all'italiano ha lavorato ad un 
							progetto di catalogazione del patrimonio urbanistico 
							e archeologico yemenita finanziato dal MAE 
							(2000-2001), e come accompagnatore di viaggi 
							culturali nel Vicino Oriente. Insegna lingua 
							araba da vari anni. Anima, dal 2002, il sito "Aljazira.it".
							
							 
							
							È nel comitato di 
							redazione della rivista di Studi geopolitici «Eurasia».
							
							Fa parte del Comitato 
							scientifico di un progetto di ricerca dell’ISSE 
							(Istituto Studi Storici Europei) e dell’Istituto 
							LUCE sui rapporti tra l’Italia e il Mondo 
							arabo-islamico in età contemporanea: il risultato è 
							il dvd Italia e Islam. Dalla guerra di Libia a 
							Nassirya. 
							
							 
							
							Ha tenuto varie 
							conferenze in Italia e all’estero (anche in Paesi 
							arabi) sui temi dell’islamofobia, dell’informazione 
							e della guerra (temi trattati anche in interviste 
							radiofoniche ad emittenti nazionali ed estere), ed 
							ha partecipato alla presentazione di libri e 
							riviste.
							
							 
							
							Particolarmente 
							interessato agli aspetti religioso e 
							storico-politico del mondo arabo-islamico, alla 
							storia del colonialismo, all'attualità politica 
							internazionale e alla geopolitica, ma anche a 
							fenomeni di costume, collabora o ha collaborato a 
							numerose testate, tra le quali «Eurasia», «LiMes», 
							«Imperi», «Levante», «La Porta d'Oriente», «Kervàn», 
							«Africana», «Meridione. Sud e Nord del mondo», 
							«Diorama Letterario», «Rinascita», «Italicum», «Il 
							Consapevole», «Luci sulla città».