N° 205
/ GENNAIO 2025 (CCXXXVI)
contemporanea
L’Impero di Nicola II Romanov
SULLa Russia pre-rivoluzionaria
(1894-1914) / PARTE I
di Filippo
Vedelago
L’Impero russo, spesso indicato
come Russia imperiale, fu
l’organismo statale che, a partire
dal 1721 con Pietro I il Grande
(1682-1725), governò la Russia,
sotto la guida della dinastia dei
Romanov, fino all’abdicazione di
Nicola II (1894-1917), a seguito
della rivoluzione del febbraio 1917.
Venne preceduto dal regno degli zar
moscoviti e seguito dall’Unione
Sovietica. Dal punto di vista
territoriale fu il terzo stato più
esteso della storia; nel 1790 si
estendeva su tre continenti (Europa,
Asia e Nord America), confinando
tanto con la Prussia quanto con il
Canada britannico, affacciandosi sia
sul Mar Baltico che sull’Oceano
Pacifico.
Nel presente elaborato procederemo
ad analizzare la situazione storica,
sociale e politica del periodo
1894-1914 dell’Impero degli zar, per
comprendere come il paese che, agli
inizi dell’Ottocento, aveva
contribuito alla sconfitta di
Napoleone, ultimo prodotto della
Rivoluzione Francese, venne
travolto, quasi cent’anni dopo, da
una rivoluzione interna che ne
provocò il completo collasso.
All’alba del Novecento la Russia
degli zar era una delle più vaste e
una delle più fragili entità
politiche del mondo. In totale
anacronismo politico con gli altri
stati imperialisti dell’epoca,
l’Impero russo conteneva elementi di
grande potenza come anche di totale
condanna alla disintegrazione.
Prendendo in considerazione la
situazione politica europea
all’inizio del XX secolo, si nota
immediatamente il suo caso
specifico: in un’Europa sempre più
evoluta in senso
liberal-democratico, con strutture
parlamentari ed elettive, lo Russia
rimaneva l’ultimo baluardo
dell’assolutismo, con un monarca il
cui potere non era limitato da
alcuna forma di rappresentanza
nazionale, né da alcuna legge.
Particolarmente interessante da
analizzare è il Codice delle Leggi
dell’Impero (in vigore a fine
Ottocento - primi del Novecento) che
imponeva piena obbedienza alla
figura dello zar, un imperatore di
diritto divino con un potere
descritto come «autocratico e
illimitato».
Molto più che in occidente, dove il
potere delle monarchie d’antico
regime era sempre stato bilanciato
da innumerevoli tradizioni,
privilegi, assemblee e casi di
immunità, la storia aveva attribuito
allo zar di Russia un assolutismo
molto più puro. Le prerogative del
monarca erano infatti limitate in
due soli casi: l’obbligo di
rispettare le leggi di successione
dinastica al trono e la professione
del credo ortodosso. La figura dello
zar ai primi del XX secolo si
presentava come un perfetto esempio
di cesaropapismo, con un potere
religioso e politico di derivazione
divina e una giustificazione delle
proprie azioni dovuta soltanto a
Dio, Lo zar non era quindi soltanto
un “Cesare” civile (la parola “Czar”
o “Tzar” deriva dal latino “Cesar”,
ovvero “Imperatore”), ma anche un
“guardiano e difensore della fede”,
similmente alla figura degli antichi
imperatori bizantini (gli zar di
Russia si consideravano infatti
eredi dell’autorità dei sovrani di
Bisanzio, con Mosca quale “Terza
Roma”, venuta dopo la “Seconda Roma”
ovvero Costantinopoli, erede a sua
volta della “Roma dei Cesari”).
Date queste premesse, un possibile
sviluppo del paese in senso
costituzionale era pressoché
impossibile, poiché ogni rinuncia da
parte del monarca alla sovranità
assoluta equivaleva ad un atto
sacrilego. Ciò condannava
l’autocrazia russa al completo
immobilismo. La monarchia zarista
sapeva però proporsi diversamente; a
dispetto delle enormi diseguaglianze
esistenti nel paese, era un valido
esempio di “monarchia sociale” con
un regime ugualitario garantito
dallo zar “padre e protettore del
suo popolo” (a riguardo gli
slavofili non esitavano a
sottolineare, ancora ai primi del
Novecento, l’armonia e la coesione
della società russa garantita
dall’autocrazia del monarca, a
differenza dei particolarismi e
delle lotte di classe che
caratterizzavano il mondo
occidentale).
Nell’esercizio delle sue funzioni di
capo religioso e di stato, lo zar
ricorreva a una burocrazia
fortemente centralizzata e
gerarchizzata, così come era stata
impostata nel corso del Settecento:
consiglieri e ministri scelti dal
sovrano, organi costituzionali
composti dai più alti rappresentanti
della corte e della burocrazia.
Costoro, come in passato,
appartenevano alla stragrande
maggioranza dell’aristocrazia
ereditaria, che occupava anche la
maggior parte delle cariche
importanti nelle provincie
dell’Impero, nei vertici di comando
dell’esercito e di responsabilità
nell’esercizio delle imposte e dei
beni dello stato. Alcuni tentativi
di riforma di questo apparato erano
stati avviati dallo zar Alessandro
II (1856-1881), completamente
stroncati da suo figlio e successore
Alessandro III (1881-1894). Alla
morte immatura di quest’ultimo,
l’ascesa al trono di Nicola II
(1894-1917) suscitò molte speranze
in coloro che desideravano una nuova
stagione di riforme, riferendosi ai
valori delle società industriali
moderne, quali il riconoscimento
delle libertà fondamentali del
cittadino, la laicità dello stato e
un regime di rappresentanza
nazionale su base elettiva. Il
discorso pronunciato dal giovane zar
il 29 gennaio 1895 fugò ogni minimo
dubbio, opponendo un netto rifiuto a
qualsiasi «sogno insensato»,
dichiarandosi fermo nel mantenere il
principio dell’autocrazia zarista
«in modo tanto energico e immutabile
quanto il mio indimenticabile
padre».
Nicola II Romanov era asceso al
trono di Russia nel 1894, all’età di
ventotto anni, totalmente
impreparato a gestire un paese così
contradditorio. Dal carattere
introverso, riservato e mite, Nicola
aveva impostato i primi anni del suo
regno seguendo le linee dettate da
Alessandro III, che avevano permesso
di mantenere una certa stabilità
governativa nel paese. Tra i suoi
principali collaboratori figurarono
quindi molti uomini di spicco della
Russia del padre, come il
procuratore del Santo Sinodo
Konstantin Petrovic Pobedonostsev
(1827-1907), i Ministri dell’Interno
Ivan Logginovic Goremykin
(1839-1917) e Vjaceslav
Konstantinovic Pleve (1846-1904), il
generale e capo della polizia di San
Pietroburgo Dimitrij Fedorovic
Trepov (1855-1906).
La forte inesperienza di governo di
Nicola II fu determinante per la
grande influenzabilità dimostrata
nei primi anni di regno e per
comprendere la precedenza spesso
rivolta a problematiche di carattere
familiare e privato rispetto agli
affari di Stato. Il giovane zar
aveva inoltre una concezione
distorta e idealizzata della
tradizione e della realtà russa,
suggestionato dallo studio delle
biografie dei santi ortodossi e
della storia, spesso mitizzata,
degli imperatori russi suoi
predecessori. Era inoltre molto
accondiscendente nei confronti della
moglie, la zarina Aleksandra
Fedorovna, nata Alice d’Assia e di
Renania (1875-1917), che preferiva
come residenza il tranquillo palazzo
di Carskoe Selo, fuori San
Pietroburgo, dove conduceva una
quotidianità improntata all’impegno
sociale e a scelte di vita pacate ed
austere, in pieno stile vittoriano.
Ciò rese la coppia aliena alle
simpatie della grande aristocrazia
della capitale, abituata alla
mondanità e agli sfarzi di corte.
Nicola e Alessandra ebbero quattro
figlie (Maria, Olga, Tatiana e
Anastasia) e un solo figlio ed erede
al trono, il principe Alessio
(1904-1917). Il piccolo zarevic (il
titolo ufficiale dell’erede dello
zar) soffriva di emofilia, malattia
altamente debilitante e considerata
fatale ai primi del Novecento, che
gli era stata trasmessa dal ramo
britannico della famiglia di
Aleksandra (la malattia si diffuse
nelle case regnanti d’Europa
attraverso le figlie della regina
Vittoria, portatrice sana e bisnonna
di Alessio). Data l’incurabilità
della patologia, sofferta solo dai
portatori maschi, la famiglia decise
di mantenere segreta, al popolo e
alla corte, la condizione del
principe. Inizialmente i genitori si
rivolsero ai migliori medici europei
per curare il figlio, senza alcun
esito positivo. Oppressi dalla
consapevolezza che ogni minima
caduta o taglio potevano risultare
fatali per il figlio, i genitori
iniziarono a trovare conforto nella
fede, riponendo piena fiducia in
Grigorij Efimovic Rasputin
(1869-1916), un monaco, mistico e
santone. La vicinanza della coppia a
tale individuo, capace di
influenzare alcune decisioni
politiche dello zar e dallo stile di
vita dissoluto e vizioso, allontanò
ancor di più i Romanov dalla nobiltà
russa, alimentando al tempo stesso
nella popolazione numerose
indiscrezioni e dicerie sulla
condotta dei sovrani.
Da un punto di vista economico, la
Russia di Nicola II presentava una
forte specificità agli inizi del
Novecento. Differentemente agli
altri paesi europei, che avevano
prodotto un proprio costante
sviluppo industriale, l’Impero russo
aveva conosciuto, sin dai tempi di
Pietro I, una crescita decisamente
diseguale, fortemente sottoposta
alla tutela dello stato, e uno
sviluppo industriale strettamente
connesso alle scelte politiche del
governo. Qualsiasi sforzo economico,
politico o militare dettato dalle
esigenze dell’autocrazia portava la
popolazione russa allo stremo.
Soltanto in seguito alla sconfitta
subita nella guerra di Crimea
(1853-56), l’autocrazia aveva
compreso l’urgenza di una crescita
industriale, puntando ad un
massiccio finanziamento
dell’industria pesante e allo
sviluppo di una rete ferroviaria
efficiente. I fattori di debolezza
economica erano però evidenti: la
forte precarietà del mercato di
acquirenti interni (condizionato dal
debole potere d’acquisto delle
grandi masse popolari) e la
fragilità del sistema bancario e
finanziario, che scoraggiavano gli
investimenti. Per sopperire a questi
deficit, il primo ministro Sergej
Jul’evic Vitte (1849-1915) sostenne,
a fine Ottocento, un accelerato
sviluppo industriale del paese
fondato su un preciso programma
economico: una politica economica e
fiscale rigorosa ai danni
principalmente delle masse popolari
delle città e delle campagne, con
un’alta pressione fiscale basata su
imposte indirette sui beni di largo
consumo (sulla vodka in particolar
modo), un protezionismo severo, una
riforma monetaria per garantire
stabilità al rublo, l’ampio ricorso
a capitali stranieri. Quest’ultimo
provvedimento ebbe un ruolo
considerevole per il decollo del
paese. Il periodo 1887-1900 fu
infatti caratterizzato dai lavori di
realizzazione della ferrovia
Transiberiana, utile per i
collegamenti e lo sviluppo della
Siberia, ma anche per favorire il
rapido spostamento di truppe nello
scacchiere asiatico. Lo sviluppo
ferroviario diede slancio anche
all’industria metallurgica e
all’estrazione petrolifera che, nel
1900, arrivò a coprire quasi la metà
della produzione mondiale di
greggio.
Questa corsa all’industrializzazione
determinò la rapida trasformazione
di intere aree dell’Impero, con la
crescita di centri urbani e
l’apertura di grandi fabbriche. In
particolar modo la regione
periferica di Mosca acquisì
un’importanza sempre maggiore, come
anche l’area attorno a San
Pietroburgo che vide la nascita di
aziende, a volte davvero
gigantesche, di metallurgia e
chimica (un esempio erano le
fabbriche Putilov di San Pietroburgo
che, a fine XIX secolo, contavano
oltre 12.000 operai). Diversamente
la regione degli Urali conobbe un
inesorabile declino, per via
dell’insufficiente collegamento
ferroviario, a fronte invece dello
sviluppo dell’Ucraina per
l’estrazione di ferro, carbone e
petrolio. Altra zona nevralgica era
quella polacca, attorno alla città
di Lodz, con aziende di
piccole-medie dimensioni. I porti
baltici di Riga, Tallin e della
capitale accoglievano invece tutte
quelle industrie di trasformazione
che necessitavano di una manodopera
esperta e specializzata per la
realizzazione di apparecchiature
elettriche e armamenti, mentre i
porti del Mar Nero videro la
crescita di industrie legate alla
chimica e al comparto alimentare.
Mosca combinava infine il settore
tessile, dei pellami e del cuoio con
la metallurgia specializzata. Uno
sviluppo industriale e di
moltiplicazione della ricchezza così
rapido iniziò tuttavia, soprattutto
a livello sociale, a scontrarsi con
una situazione politica immobile,
uscita indenne dagli
scombussolamenti politici europei
del periodo 1789 - 1848. A questa
tensione tra forze produttive in
piena espansione e istituzioni
antiche, va aggiunto anche il
dualismo di un capitalismo
industriale di punta in limitate
regione del paese contro
l’arretratezza di vaste regioni
agricole.
Osservando l’ambito agricolo, nel
1861 i contadini russi erano stati
liberati dalla secolare condizione
di servi della gleba. Questa
liberazione giuridica tuttavia non
era stata dettata da motivi
economici immediati, ma piuttosto
dal timore di un’esplosione generale
di violenza nelle campagne. Le
sommosse agrarie, che avevano
caratterizzato la Russia nel periodo
successivo alla guerra di Crimea
(1853-1856), avevano indotto il
governo a dare una soluzione di
questo tipo alla questione. I
contadini apparivano quindi liberi
sotto il profilo giuridico, ma non
lo erano ancora da un punto di vista
economico. Dopo la liberazione
l’autocrazia si sforzò con ogni
mezzo per salvaguardare gli
interessi e i privilegi
dell’aristocrazia fondiaria e i
contadini furono costretti a
riscattare, ad un prezzo spesso
eccessivo, la terra che coltivavano,
ritrovandosi indebitati. Anche se la
costrizione giuridica era scomparsa,
la dipendenza economica degli
agricoltori russi nei confronti
della nobiltà terriera si era
mantenuta, apparendo anzi nettamente
accentuata. Ma il forte
impoverimento della classe contadina
era dato anche dalla pressione
fiscale. Tale pressione, utile a
finanziare in gran parte
l’industrializzazione, era tanto più
insopportabile in quanto la
congiuntura economica determinava
una diminuzione dei prezzi agricoli
e un aumento del prezzo della terra
e del tasso degli affitti. La
necessità di procurarsi del denaro
liquido per riuscire a pagare le
tasse, costringeva l’agricoltore a
vendere, nel momento in cui la
produzione per abitante stagnava.
Prigionieri di tecniche di
lavorazione della terra vetuste ed
antiquate, dipendenti dai grandi
proprietari ai quali continuavano a
pagare affitti esosi e ad affittare
i loro servizi, i contadini russi
subivano anche la pignola tutela
della comune del villaggio. La
comune, attraverso il “Mir”
(l’organo decisionale di origine
medievale delle comunità rurali
russe), fissava le regole e le
modalità della ridistribuzione
periodica dei lotti (in ragione
delle bocche da sfamare di ciascuna
famiglia della comunità), il
calendario agricolo e la rotazione
delle colture, nonché il permesso o
meno di abbandonare la comunità per
andare a lavorare altrove. La
sopravvivenza di usi consuetudinari
e comunitari di questo tipo rendeva
impossibile l’emergere di una classe
contadina pienamente autonoma e
proprietaria, impedendo la nascita
di uno spirito di classe comune fra
gli agricoltori più poveri. Le
consuetudini comunitarie aiutano
inoltre a comprendere la concezione
molto particolare della proprietà
diffusa nelle campagne; i contadini
russi avevano la piena convinzione
che la terra non dovesse appartenere
a nessuno, non essendo un bene come
un altro, ma piuttosto un elemento
fondamentale e naturale del loro
ambiente, tanto quanto l’aria, il
legname e l’acqua. Questa concezione
(espressa senza troppe ambiguità
nelle mozioni presentate dalle
assemblee contadine durante la
Rivoluzione del 1905) li spingeva ad
impadronirsi dei boschi signorili,
ad utilizzare i pascoli dei grandi
proprietari senza alcun permesso e a
commettere atti contrari alle più
elementari leggi legate alla tutela
della proprietà privata. Ma il
passato feudale si faceva sentire
anche nella mentalità economica
degli stessi proprietari terrieri;
l’esistenza di una manodopera
abbondante e quasi gratuita, fornita
da una popolazione rurale in
soprannumero, la possibilità di
utilizzare gli attrezzi rudimentali
dei contadini che pagavano
generalmente i loro debiti sotto
forma di corvée, non incitavano
molto i padroni ad introdurre
tecniche produttive più moderne e
tecnologicamente avanzate. La
decadenza della nobiltà fondiaria,
dovuta alle sue enormi spese
improduttive, condusse ad un
progressivo trasferimento della
terra alla nascente classe borghese.
Una delle più evidenti conseguenze
dello sviluppo industriale di fine
Ottocento - inizi Novecento, fu la
formazione di un proletariato
operaio (stimabile in circa nove
milioni di operai). Quanto agli
operai propriamente detti, non
superavano i tre milioni, ed
occupavano un posto relativamente
scarso nell’enormità della massa dei
cosiddetti “poveri preindustriali”,
quali giornalieri, piccoli artigiani
e domestici. Tanto quanto la classe
contadina, anche il proletariato
operaio non aveva una coscienza di
classe, essendo molto giovane e con
una marcata separazione tra piccoli
nuclei di tradizione familiare
operaia, ben qualificati, e una
maggioranza di manovali, da poco
giunti nelle fabbriche delle città
dai villaggi contadini, ai quali
periodicamente facevano ritorno. Ma
la coscienza di appartenere alla
medesima classe era lontana
dall’essere uniforme anche in seno
al mondo operaio delle grandi città
(a titolo d’esempio, a Mosca i
ferrovieri o gli operai metallurgici
si consideravano più evoluti e
decisamente più formati degli operai
immigrati che, nel periodo
invernale, si facevano assumere in
industrie alimentari o di pellami).
Il proletariato russo era inoltre
sottoposto ad uno sfruttamento
particolarmente duro ed opprimente;
gli orari di lavoro erano lunghi (si
calcolavano dalle dodici alle
quattordici ore di lavoro), i salari
poverissimi e amputati da numerose
multe e trattenute fiscali, gli
incidenti sul lavoro molto
frequenti, la tutela del lavoratore
quasi nulla e le condizioni di
alloggio nei sobborghi cittadini
inimmaginabili.
Nel mondo del lavoro operaio era
imposto un sistema di tipo
patriarcale da parte del datore, che
spiegava l’insufficienza di leggi a
tutela del lavoratore. A livello
governativo vi era spesso una forte
divergenza tra il ministero delle
finanze che, dati i suoi legami con
il mondo della finanza e della
grande industria, tendeva a
privilegiare la classe
imprenditoriale, e il ministero
degli interni, preoccupato
essenzialmente per l’ordine pubblico
e convinto di dover intervenire in
ambito lavorativo per garantire una
protezione paternalistica, ma pur
sempre autoritaria, al mondo
operaio. Ciò determinò a fine
Ottocento il susseguirsi di leggi
protettrici (a titolo d’esempio
possiamo citare la legge del
1885-1886 che prevedeva la
proibizione del lavoro notturno per
le donne e i bambini) e di continue
deroghe a tali leggi. Come risultato
si ebbero una serie di scioperi
operai di variegato impatto, che
determinarono la nascita di forme
primitive di sindacalismo (i
cosiddetti “sindacati Zubatov”)
pienamente in linea con lo spirito
autocratico del regime zarista. Lo
zar era infatti inteso come il padre
protettore del suo popolo e, dato
che scioperi e forme di coalizione
erano vietate, spettava al governo
autocratico occuparsi della difesa
degli interessi dei lavoratori. Alla
base di questa linea si nascondeva
in realtà l’idea di riuscire a
rafforzare il lealismo tradizionale
del mondo operaio, onde evitare
disordini rivoluzionari. Ma questa
forma di sindacalismo statale si
rivelò, agli inizi del XX secolo,
un’arma a doppio taglio, in un
periodo in cui iniziava ad apparire
un nuovo lavoratore, ben diverso dal
contadino-operaio di fine Ottocento,
decisamente più cosciente,
preparato, informato e pronto a
rifiutare lo “zubatorismo” (come
riportava un rapporto di polizia del
1901: «il bravo operaio bonario si è
trasformato in un particolare tipo
di intellettuale mezzo illetterato,
che si crede obbligato a rifiutare
la religione e la famiglia, ad
ignorare a legge, a trasgredirla o
ad irriderla»). Va però sottolineato
che, in generale, le condizioni di
vita disumane della classe operaia e
la totale assenza di libertà
politiche e sindacali continuavano a
generare, ai primi del Novecento,
proteste sorde, spontanee e
circoscritte, mobilitavano masse per
scioperi e pogrom (sommosse popolari
rivolte contro le minoranze
etniche/religiose, in particolar
modo contro gli ebrei), ma senza
riuscire a favorire un’attività
politica, sindacale e di protesta di
ampio raggio. In effetti i contatti
del mondo contadino e operaio con le
frange militanti e rivoluzionarie
restarono piuttosto limitati almeno
fino al 1905.
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