[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 205 / GENNAIO 2025 (CCXXXVI)


contemporanea

L’Impero di Nicola II Romanov
SULLa Russia pre-rivoluzionaria (1894-1914) / PARTE I

di Filippo Vedelago

 

L’Impero russo, spesso indicato come Russia imperiale, fu l’organismo statale che, a partire dal 1721 con Pietro I il Grande (1682-1725), governò la Russia, sotto la guida della dinastia dei Romanov, fino all’abdicazione di Nicola II (1894-1917), a seguito della rivoluzione del febbraio 1917. Venne preceduto dal regno degli zar moscoviti e seguito dall’Unione Sovietica. Dal punto di vista territoriale fu il terzo stato più esteso della storia; nel 1790 si estendeva su tre continenti (Europa, Asia e Nord America), confinando tanto con la Prussia quanto con il Canada britannico, affacciandosi sia sul Mar Baltico che sull’Oceano Pacifico.
 
Nel presente elaborato procederemo ad analizzare la situazione storica, sociale e politica del periodo 1894-1914 dell’Impero degli zar, per comprendere come il paese che, agli inizi dell’Ottocento, aveva contribuito alla sconfitta di Napoleone, ultimo prodotto della Rivoluzione Francese, venne travolto, quasi cent’anni dopo, da una rivoluzione interna che ne provocò il completo collasso.
 
All’alba del Novecento la Russia degli zar era una delle più vaste e una delle più fragili entità politiche del mondo. In totale anacronismo politico con gli altri stati imperialisti dell’epoca, l’Impero russo conteneva elementi di grande potenza come anche di totale condanna alla disintegrazione. Prendendo in considerazione la situazione politica europea all’inizio del XX secolo, si nota immediatamente il suo caso specifico: in un’Europa sempre più evoluta in senso liberal-democratico, con strutture parlamentari ed elettive, lo Russia rimaneva l’ultimo baluardo dell’assolutismo, con un monarca il cui potere non era limitato da alcuna forma di rappresentanza nazionale, né da alcuna legge. Particolarmente interessante da analizzare è il Codice delle Leggi dell’Impero (in vigore a fine Ottocento - primi del Novecento) che imponeva piena obbedienza alla figura dello zar, un imperatore di diritto divino con un potere descritto come «autocratico e illimitato».
 
Molto più che in occidente, dove il potere delle monarchie d’antico regime era sempre stato bilanciato da innumerevoli tradizioni, privilegi, assemblee e casi di immunità, la storia aveva attribuito allo zar di Russia un assolutismo molto più puro. Le prerogative del monarca erano infatti limitate in due soli casi: l’obbligo di rispettare le leggi di successione dinastica al trono e la professione del credo ortodosso. La figura dello zar ai primi del XX secolo si presentava come un perfetto esempio di cesaropapismo, con un potere religioso e politico di derivazione divina e una giustificazione delle proprie azioni dovuta soltanto a Dio, Lo zar non era quindi soltanto un “Cesare” civile (la parola “Czar” o “Tzar” deriva dal latino “Cesar”, ovvero “Imperatore”), ma anche un “guardiano e difensore della fede”, similmente alla figura degli antichi imperatori bizantini (gli zar di Russia si consideravano infatti eredi dell’autorità dei sovrani di Bisanzio, con Mosca quale “Terza Roma”, venuta dopo la “Seconda Roma” ovvero Costantinopoli, erede a sua volta della “Roma dei Cesari”).
 
Date queste premesse, un possibile sviluppo del paese in senso costituzionale era pressoché impossibile, poiché ogni rinuncia da parte del monarca alla sovranità assoluta equivaleva ad un atto sacrilego. Ciò condannava l’autocrazia russa al completo immobilismo. La monarchia zarista sapeva però proporsi diversamente; a dispetto delle enormi diseguaglianze esistenti nel paese, era un valido esempio di “monarchia sociale” con un regime ugualitario garantito dallo zar “padre e protettore del suo popolo” (a riguardo gli slavofili non esitavano a sottolineare, ancora ai primi del Novecento, l’armonia e la coesione della società russa garantita dall’autocrazia del monarca, a differenza dei particolarismi e delle lotte di classe che caratterizzavano il mondo occidentale).
Nell’esercizio delle sue funzioni di capo religioso e di stato, lo zar ricorreva a una burocrazia fortemente centralizzata e gerarchizzata, così come era stata impostata nel corso del Settecento: consiglieri e ministri scelti dal sovrano, organi costituzionali composti dai più alti rappresentanti della corte e della burocrazia. Costoro, come in passato, appartenevano alla stragrande maggioranza dell’aristocrazia ereditaria, che occupava anche la maggior parte delle cariche importanti nelle provincie dell’Impero, nei vertici di comando dell’esercito e di responsabilità nell’esercizio delle imposte e dei beni dello stato. Alcuni tentativi di riforma di questo apparato erano stati avviati dallo zar Alessandro II (1856-1881), completamente stroncati da suo figlio e successore Alessandro III (1881-1894). Alla morte immatura di quest’ultimo, l’ascesa al trono di Nicola II (1894-1917) suscitò molte speranze in coloro che desideravano una nuova stagione di riforme, riferendosi ai valori delle società industriali moderne, quali il riconoscimento delle libertà fondamentali del cittadino, la laicità dello stato e un regime di rappresentanza nazionale su base elettiva. Il discorso pronunciato dal giovane zar il 29 gennaio 1895 fugò ogni minimo dubbio, opponendo un netto rifiuto a qualsiasi «sogno insensato», dichiarandosi fermo nel mantenere il principio dell’autocrazia zarista «in modo tanto energico e immutabile quanto il mio indimenticabile padre».
 
Nicola II Romanov era asceso al trono di Russia nel 1894, all’età di ventotto anni, totalmente impreparato a gestire un paese così contradditorio. Dal carattere introverso, riservato e mite, Nicola aveva impostato i primi anni del suo regno seguendo le linee dettate da Alessandro III, che avevano permesso di mantenere una certa stabilità governativa nel paese. Tra i suoi principali collaboratori figurarono quindi molti uomini di spicco della Russia del padre, come il procuratore del Santo Sinodo Konstantin Petrovic Pobedonostsev (1827-1907), i Ministri dell’Interno Ivan Logginovic Goremykin (1839-1917) e Vjaceslav Konstantinovic Pleve (1846-1904), il generale e capo della polizia di San Pietroburgo Dimitrij Fedorovic Trepov (1855-1906).
 
La forte inesperienza di governo di Nicola II fu determinante per la grande influenzabilità dimostrata nei primi anni di regno e per comprendere la precedenza spesso rivolta a problematiche di carattere familiare e privato rispetto agli affari di Stato. Il giovane zar aveva inoltre una concezione distorta e idealizzata della tradizione e della realtà russa, suggestionato dallo studio delle biografie dei santi ortodossi e della storia, spesso mitizzata, degli imperatori russi suoi predecessori. Era inoltre molto accondiscendente nei confronti della moglie, la zarina Aleksandra Fedorovna, nata Alice d’Assia e di Renania (1875-1917), che preferiva come residenza il tranquillo palazzo di Carskoe Selo, fuori San Pietroburgo, dove conduceva una quotidianità improntata all’impegno sociale e a scelte di vita pacate ed austere, in pieno stile vittoriano. Ciò rese la coppia aliena alle simpatie della grande aristocrazia della capitale, abituata alla mondanità e agli sfarzi di corte.
 
Nicola e Alessandra ebbero quattro figlie (Maria, Olga, Tatiana e Anastasia) e un solo figlio ed erede al trono, il principe Alessio (1904-1917). Il piccolo zarevic (il titolo ufficiale dell’erede dello zar) soffriva di emofilia, malattia altamente debilitante e considerata fatale ai primi del Novecento, che gli era stata trasmessa dal ramo britannico della famiglia di Aleksandra (la malattia si diffuse nelle case regnanti d’Europa attraverso le figlie della regina Vittoria, portatrice sana e bisnonna di Alessio). Data l’incurabilità della patologia, sofferta solo dai portatori maschi, la famiglia decise di mantenere segreta, al popolo e alla corte, la condizione del principe. Inizialmente i genitori si rivolsero ai migliori medici europei per curare il figlio, senza alcun esito positivo. Oppressi dalla consapevolezza che ogni minima caduta o taglio potevano risultare fatali per il figlio, i genitori iniziarono a trovare conforto nella fede, riponendo piena fiducia in Grigorij Efimovic Rasputin (1869-1916), un monaco, mistico e santone. La vicinanza della coppia a tale individuo, capace di influenzare alcune decisioni politiche dello zar e dallo stile di vita dissoluto e vizioso, allontanò ancor di più i Romanov dalla nobiltà russa, alimentando al tempo stesso nella popolazione numerose indiscrezioni e dicerie sulla condotta dei sovrani.
 
Da un punto di vista economico, la Russia di Nicola II presentava una forte specificità agli inizi del Novecento. Differentemente agli altri paesi europei, che avevano prodotto un proprio costante sviluppo industriale, l’Impero russo aveva conosciuto, sin dai tempi di Pietro I, una crescita decisamente diseguale, fortemente sottoposta alla tutela dello stato, e uno sviluppo industriale strettamente connesso alle scelte politiche del governo. Qualsiasi sforzo economico, politico o militare dettato dalle esigenze dell’autocrazia portava la popolazione russa allo stremo. Soltanto in seguito alla sconfitta subita nella guerra di Crimea (1853-56), l’autocrazia aveva compreso l’urgenza di una crescita industriale, puntando ad un massiccio finanziamento dell’industria pesante e allo sviluppo di una rete ferroviaria efficiente. I fattori di debolezza economica erano però evidenti: la forte precarietà del mercato di acquirenti interni (condizionato dal debole potere d’acquisto delle grandi masse popolari) e la fragilità del sistema bancario e finanziario, che scoraggiavano gli investimenti. Per sopperire a questi deficit, il primo ministro Sergej Jul’evic Vitte (1849-1915) sostenne, a fine Ottocento, un accelerato sviluppo industriale del paese fondato su un preciso programma economico: una politica economica e fiscale rigorosa ai danni principalmente delle masse popolari delle città e delle campagne, con un’alta pressione fiscale basata su imposte indirette sui beni di largo consumo (sulla vodka in particolar modo), un protezionismo severo, una riforma monetaria per garantire stabilità al rublo, l’ampio ricorso a capitali stranieri. Quest’ultimo provvedimento ebbe un ruolo considerevole per il decollo del paese. Il periodo 1887-1900 fu infatti caratterizzato dai lavori di realizzazione della ferrovia Transiberiana, utile per i collegamenti e lo sviluppo della Siberia, ma anche per favorire il rapido spostamento di truppe nello scacchiere asiatico. Lo sviluppo ferroviario diede slancio anche all’industria metallurgica e all’estrazione petrolifera che, nel 1900, arrivò a coprire quasi la metà della produzione mondiale di greggio.
 
Questa corsa all’industrializzazione determinò la rapida trasformazione di intere aree dell’Impero, con la crescita di centri urbani e l’apertura di grandi fabbriche. In particolar modo la regione periferica di Mosca acquisì un’importanza sempre maggiore, come anche l’area attorno a San Pietroburgo che vide la nascita di aziende, a volte davvero gigantesche, di metallurgia e chimica (un esempio erano le fabbriche Putilov di San Pietroburgo che, a fine XIX secolo, contavano oltre 12.000 operai). Diversamente la regione degli Urali conobbe un inesorabile declino, per via dell’insufficiente collegamento ferroviario, a fronte invece dello sviluppo dell’Ucraina per l’estrazione di ferro, carbone e petrolio. Altra zona nevralgica era quella polacca, attorno alla città di Lodz, con aziende di piccole-medie dimensioni. I porti baltici di Riga, Tallin e della capitale accoglievano invece tutte quelle industrie di trasformazione che necessitavano di una manodopera esperta e specializzata per la realizzazione di apparecchiature elettriche e armamenti, mentre i porti del Mar Nero videro la crescita di industrie legate alla chimica e al comparto alimentare. Mosca combinava infine il settore tessile, dei pellami e del cuoio con la metallurgia specializzata. Uno sviluppo industriale e di moltiplicazione della ricchezza così rapido iniziò tuttavia, soprattutto a livello sociale, a scontrarsi con una situazione politica immobile, uscita indenne dagli scombussolamenti politici europei del periodo 1789 - 1848. A questa tensione tra forze produttive in piena espansione e istituzioni antiche, va aggiunto anche il dualismo di un capitalismo industriale di punta in limitate regione del paese contro l’arretratezza di vaste regioni agricole.
 
Osservando l’ambito agricolo, nel 1861 i contadini russi erano stati liberati dalla secolare condizione di servi della gleba. Questa liberazione giuridica tuttavia non era stata dettata da motivi economici immediati, ma piuttosto dal timore di un’esplosione generale di violenza nelle campagne. Le sommosse agrarie, che avevano caratterizzato la Russia nel periodo successivo alla guerra di Crimea (1853-1856), avevano indotto il governo a dare una soluzione di questo tipo alla questione. I contadini apparivano quindi liberi sotto il profilo giuridico, ma non lo erano ancora da un punto di vista economico. Dopo la liberazione l’autocrazia si sforzò con ogni mezzo per salvaguardare gli interessi e i privilegi dell’aristocrazia fondiaria e i contadini furono costretti a riscattare, ad un prezzo spesso eccessivo, la terra che coltivavano, ritrovandosi indebitati. Anche se la costrizione giuridica era scomparsa, la dipendenza economica degli agricoltori russi nei confronti della nobiltà terriera si era mantenuta, apparendo anzi nettamente accentuata. Ma il forte impoverimento della classe contadina era dato anche dalla pressione fiscale. Tale pressione, utile a finanziare in gran parte l’industrializzazione, era tanto più insopportabile in quanto la congiuntura economica determinava una diminuzione dei prezzi agricoli e un aumento del prezzo della terra e del tasso degli affitti. La necessità di procurarsi del denaro liquido per riuscire a pagare le tasse, costringeva l’agricoltore a vendere, nel momento in cui la produzione per abitante stagnava.
 
Prigionieri di tecniche di lavorazione della terra vetuste ed antiquate, dipendenti dai grandi proprietari ai quali continuavano a pagare affitti esosi e ad affittare i loro servizi, i contadini russi subivano anche la pignola tutela della comune del villaggio. La comune, attraverso il “Mir” (l’organo decisionale di origine medievale delle comunità rurali russe), fissava le regole e le modalità della ridistribuzione periodica dei lotti (in ragione delle bocche da sfamare di ciascuna famiglia della comunità), il calendario agricolo e la rotazione delle colture, nonché il permesso o meno di abbandonare la comunità per andare a lavorare altrove. La sopravvivenza di usi consuetudinari e comunitari di questo tipo rendeva impossibile l’emergere di una classe contadina pienamente autonoma e proprietaria, impedendo la nascita di uno spirito di classe comune fra gli agricoltori più poveri. Le consuetudini comunitarie aiutano inoltre a comprendere la concezione molto particolare della proprietà diffusa nelle campagne; i contadini russi avevano la piena convinzione che la terra non dovesse appartenere a nessuno, non essendo un bene come un altro, ma piuttosto un elemento fondamentale e naturale del loro ambiente, tanto quanto l’aria, il legname e l’acqua. Questa concezione (espressa senza troppe ambiguità nelle mozioni presentate dalle assemblee contadine durante la Rivoluzione del 1905) li spingeva ad impadronirsi dei boschi signorili, ad utilizzare i pascoli dei grandi proprietari senza alcun permesso e a commettere atti contrari alle più elementari leggi legate alla tutela della proprietà privata. Ma il passato feudale si faceva sentire anche nella mentalità economica degli stessi proprietari terrieri; l’esistenza di una manodopera abbondante e quasi gratuita, fornita da una popolazione rurale in soprannumero, la possibilità di utilizzare gli attrezzi rudimentali dei contadini che pagavano generalmente i loro debiti sotto forma di corvée, non incitavano molto i padroni ad introdurre tecniche produttive più moderne e tecnologicamente avanzate. La decadenza della nobiltà fondiaria, dovuta alle sue enormi spese improduttive, condusse ad un progressivo trasferimento della terra alla nascente classe borghese.
 
Una delle più evidenti conseguenze dello sviluppo industriale di fine Ottocento - inizi Novecento, fu la formazione di un proletariato operaio (stimabile in circa nove milioni di operai). Quanto agli operai propriamente detti, non superavano i tre milioni, ed occupavano un posto relativamente scarso nell’enormità della massa dei cosiddetti “poveri preindustriali”, quali giornalieri, piccoli artigiani e domestici. Tanto quanto la classe contadina, anche il proletariato operaio non aveva una coscienza di classe, essendo molto giovane e con una marcata separazione tra piccoli nuclei di tradizione familiare operaia, ben qualificati, e una maggioranza di manovali, da poco giunti nelle fabbriche delle città dai villaggi contadini, ai quali periodicamente facevano ritorno. Ma la coscienza di appartenere alla medesima classe era lontana dall’essere uniforme anche in seno al mondo operaio delle grandi città (a titolo d’esempio, a Mosca i ferrovieri o gli operai metallurgici si consideravano più evoluti e decisamente più formati degli operai immigrati che, nel periodo invernale, si facevano assumere in industrie alimentari o di pellami). Il proletariato russo era inoltre sottoposto ad uno sfruttamento particolarmente duro ed opprimente; gli orari di lavoro erano lunghi (si calcolavano dalle dodici alle quattordici ore di lavoro), i salari poverissimi e amputati da numerose multe e trattenute fiscali, gli incidenti sul lavoro molto frequenti, la tutela del lavoratore quasi nulla e le condizioni di alloggio nei sobborghi cittadini inimmaginabili.
 
Nel mondo del lavoro operaio era imposto un sistema di tipo patriarcale da parte del datore, che spiegava l’insufficienza di leggi a tutela del lavoratore. A livello governativo vi era spesso una forte divergenza tra il ministero delle finanze che, dati i suoi legami con il mondo della finanza e della grande industria, tendeva a privilegiare la classe imprenditoriale, e il ministero degli interni, preoccupato essenzialmente per l’ordine pubblico e convinto di dover intervenire in ambito lavorativo per garantire una protezione paternalistica, ma pur sempre autoritaria, al mondo operaio. Ciò determinò a fine Ottocento il susseguirsi di leggi protettrici (a titolo d’esempio possiamo citare la legge del 1885-1886 che prevedeva la proibizione del lavoro notturno per le donne e i bambini) e di continue deroghe a tali leggi. Come risultato si ebbero una serie di scioperi operai di variegato impatto, che determinarono la nascita di forme primitive di sindacalismo (i cosiddetti “sindacati Zubatov”) pienamente in linea con lo spirito autocratico del regime zarista. Lo zar era infatti inteso come il padre protettore del suo popolo e, dato che scioperi e forme di coalizione erano vietate, spettava al governo autocratico occuparsi della difesa degli interessi dei lavoratori. Alla base di questa linea si nascondeva in realtà l’idea di riuscire a rafforzare il lealismo tradizionale del mondo operaio, onde evitare disordini rivoluzionari. Ma questa forma di sindacalismo statale si rivelò, agli inizi del XX secolo, un’arma a doppio taglio, in un periodo in cui iniziava ad apparire un nuovo lavoratore, ben diverso dal contadino-operaio di fine Ottocento, decisamente più cosciente, preparato, informato e pronto a rifiutare lo “zubatorismo” (come riportava un rapporto di polizia del 1901: «il bravo operaio bonario si è trasformato in un particolare tipo di intellettuale mezzo illetterato, che si crede obbligato a rifiutare la religione e la famiglia, ad ignorare a legge, a trasgredirla o ad irriderla»). Va però sottolineato che, in generale, le condizioni di vita disumane della classe operaia e la totale assenza di libertà politiche e sindacali continuavano a generare, ai primi del Novecento, proteste sorde, spontanee e circoscritte, mobilitavano masse per scioperi e pogrom (sommosse popolari rivolte contro le minoranze etniche/religiose, in particolar modo contro gli ebrei), ma senza riuscire a favorire un’attività politica, sindacale e di protesta di ampio raggio. In effetti i contatti del mondo contadino e operaio con le frange militanti e rivoluzionarie restarono piuttosto limitati almeno fino al 1905.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]