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N. 137 - Maggio 2019 (CLXVIII)

Il Subalterno nei confini dell’Europa

riflessioni su “spazi" e “identità"

 di Debora Scotto di Rinaldi

 

La questione della formazione e costituzionalizzazione del concetto di cittadinanza europea ha costantemente accompagnato l’evoluzione del sistema comunitario, anche nel processo di trasformazione e rifondazione delle strutture e dei meccanismi istituzionali. L’articolazione di questo processo di trasformazione da un lato sembra rimanere ancorato a una dimensione statualistica della sua declinazione e, dall’altro lato, tende a perdersi definitivamente nella governance comunitaria.

 

Posto in questi termini ci si chiede se sia giusto continuare a riferirsi allo spazio politico statale, sorto nell’epoca moderna, come un luogo dove, inverare le pratiche politiche istituzionali e delle quali far nascere e costituzionalizzare il concetto di cittadinanza europea, senza tenere in debita considerazione i continui cambiamenti e riposizionamenti del cosiddetto “confine” europeo, oltre che alla crescente massa di soggetti, subalterni che all’interno della comunità aspirano a una partecipazione attiva al processo democratico; se non si tengono presenti questi aspetti fondamentali si rischia una continua riproposizione di forme di politica superate e del tutto anacronistiche.

 

Ciò non toglie che ci possa essere tutta una nuova tradizione di pensiero e di immaginazione costituzionale da formulare in maniera inedita e soprattutto un nuovo costituzionalismo che abbia presente i mutati spazi nei quali tali concetti erano stati formulati e praticati, componendosi su più piani e modellandosi in maniera recessiva rispetto alle evoluzioni avvenute negli ultimi anni. Possono essere formulati percorsi di innovazione rispetto alle tradizioni, nella prospettiva di dar spazio alle istanze di giustizia sociale e di emancipazione esistenziale ma questa riproposta del già fatto non tiene conto dei mutamenti e tende a far emergere una forte incapacità di misurarsi con chi propone un totale rigetto nei confronti delle istanze che hanno dato vita e mosso i meccanismi politico-istituzionali del secondo Novecento.

 

Eguaglianza, libertà, giustizia sociale, democrazia sembrano, per chi professa le gioie del postmoderno, rottami di un’epoca morta, nasce in questo modo un intero vocabolario linguistico/ideologico fatto di involuzioni tecnografiche, derive elitarie, parametri economici e finanziari in cui la flessibilità dei mercati borsistici è accompagnata a un massiccio apparato burocratico di gestione amministrativa.

 

In tal modo le politiche economiche e le scelte istituzionali cedono di fronte alle scelte ultra-individuali e iperliberiste, sacrificando definitivamente il momento pubblico del confronto e della composizione degli interessi, sprofondando in quella che Dussel definisce il “solipsismo de cinico”, che non lascia spazio al colloquio con l’altro, rischiando di ledere addirittura la dignità della persona. Così come è avvenuto per molti popoli in epoca coloniale, dagli indios americani ai regimi dittatoriali.

 

Appare, a questo punto, chiaro che non è possibile replicare modelli e forme organizzative, politiche, istituzionali, economiche fuori dai contesti e dalle dinamiche di vita degli individui, la formazione quindi dei testi costituzionali, la creazione dei meccanismi istituzionali, la formulazione di sistemi di regolazione sociale dove avviene in una dinamica relazionale.

 

Arrivati a questo punto è fondamentale chiarire e approfondire il concetto di Confine, secondo il pensiero di Enrica Rigo che, evidenzia sia gli aspetti materiali che intellettuali che tale concetto implica, soffermandosi soprattutto sul concetto secondo cui il confine è lo “spazio materiale” nel quale si esercita il potere o meglio la “sovranità territoriale della legge”, concetto sorto e sviluppatosi, anche se non in maniera non del tutto lineare, con la formazione dello Stato Nazionale di epoca Moderna, ed “esportato” negativamente durante il periodo della colonizzazione. Poiché tale concetto fu essenzialmente usato come strumento di conquista territoriale e amministrazione politica di uno spazio nel quale non si teneva in debita considerazione “l’individuo”, la sua tradizione culturale, sociale, politica, economica, si impose in un modo di essere che non corrispondeva e non rispettava il modo di essere degli altri nel mondo, assoggettandoli ed egemonizzando le masse dall’altro, le si ingabbiava attraverso processi, attraverso bisogni, urgenze, desideri che ricevevano una soddisfazione momentanea.

 

L’altro, secondo Edward Said, Gayatri Spivak e Jacques Derrida, entrò nel sistema, accettando suo malgrado questo modo di agire e il territorio conquistato entrò nel meccanismo del falso sviluppo, per cui quando il subalterno, che nell’eccezione di Spivak indica non solo l’oppresso ma tutto ciò che ha accesso limitato, o nullo, all’imperialismo culturale, lavori mai diverrà signore libero; al contrario arricchirà il signore e sarà sempre più schiavizzato.

 

Si passava quindi automaticamente dal colonialismo all’imperialismo, non senza la complicità della cosiddetta cultura intellettuale, perché come tutti sappiamo all’espansione e al progetto coloniale e imperiale è corrisposto quasi sempre un sistema culturale che ha avallato questo progetto attraverso tutti i linguaggi disponibili anche quelli che non erano immediatamente riconoscibili come complici dell’ideologia coloniale o imperialista.

 

Se non si tengono in debita considerazione gli errori commessi, e si vuole ripercorrere una strada già battuta nella formulazione di una costituzionalizzazione del concetto di cittadinanza europea si rischia di incorrere nuovamente in un neo colonialismo dove l’altro questa volta è rappresentato dagli emigranti, da quelle facce spesso scure, vite fluttuanti, la cui attività quotidiana e il cui sfruttamento sistematico garantiscono la nostra stabilità, il nostro essere cittadini rispettosi delle regole, delle norme, che sono fatte, però, solo per garantire il nostro essere nel mondo, contesto normativo costituzionale che non tiene in debita considerazione gli altri, cioè tutti coloro che provenienti da altri paesi chiedono di entrare nell’Unione Europea. Ma chiedono di entrare nell’Unione con una partecipazione attiva ai processi di tipo istituzionale, si sente quindi, l’esigenza o meglio la necessità di ripensare e riformulare i concetti tenendo conto dei mutati scenari sociali, economici.

 

Non si tratta di rigettare il passato, se pur con errori, né rinnegarlo, ma si tratta semplicemente di riscrivere una nuova storia, nella quale un qualsiasi testo normativo costituzionale possa vivere attraverso il protagonismo, la comunicazione, la responsabilità di tutti i soggetti sociali attivi.

 

Questo è il principale spazio di confronto sulle varie alternative da mettere in campo per avviare nuovi processi di emancipazione, democrazia, libertà. Spetterà alla capacità comunicativa delle grandi masse sociali e delle istituzioni agire quotidianamente affinché il loro vivere inedito della dimensione locale, non sia di ostacolo alla realizzazione di una Europa Nuova, nella quale il medium di incontro tra gli spazi politici locali e la dimensione continentale sia la democrazia partecipativa, nella quale i diversi piani delle autonomie devono essere pensati come spazi istituzionali ma anche e, soprattutto come luoghi di incontro e ibridazione tra le varie forme sociali che si auto organizzano e dimostrano una naturale propensione a connettersi e contaminarsi attraverso i meccanismi istituzionali, ovvero ad agire come nuove istituzioni, che fanno dell’autodeterminazione politica terreno di azione per rivendicare immediatamente spazi sociali e nuovi modi di vivere in comune.

 

Questo diventa, ritengo, un passaggio necessario per dar vita a un testo costituzionale europeo, processo di continue pratiche di confronto e di dibattito pubblico, e non il prodotto di sovranisti ne tanto meno ostaggi da funzionalismi comunitari.

 

Solo pensando, come afferma Niklas Luhmann, ai confini territoriali come strumenti non solo di delimitazione spaziale ma anche e soprattutto come spazi di relazioni, prodotti di comunicazione tra entità diverse sarà possibile capire la loro reale funzione e realizzare quanto fin ora esposto. Certo bisogna porsi in maniera completamente diversa da quanto è stato fin ora fatto, bisogna porsi nella prospettiva dell’etica della comunicazione, come giustamente propongono Said e Spivak, solo in questo modo si potrà pensare a una identità europea, a un nuovo continente che nasce dalla differenza, la cui eterogeneità si fonda su uno spirito comune, un Europa post coloniale, che non ripeta se stessa, nella sua terribile funzione civilizzatrice.

 

In tal senso anche l’idea di cittadinanza europea deve essere formulata tenendo conto di tutti/e le individualità che chiedono di essere tutelati e garantiti, bisogna tener conto della cosiddetta Europa minore, emigrante perché quando compare la logica della differenza, perde colpi la logica della rappresentanza, questo non deve esistere, la nuova idea di Europa deve tener conto delle differenza etnico, territoriale e religiosa degli individui e aspirare a superare definitivamente questo orizzonte, cercando nuovi legami culturali, sociali, politici, istituzionali, economici.

 

Solo allora sarà possibile creare uno spazio politico europeo nel quale proporre in maniera inedita la forza plurale dei diritti e la tensione a nuove forme di gestione della “cosa pubblica”: facendo in modo che i principi, i valori di giustizia sociale, emancipazione e libertà che hanno accompagnato i processi comunitari siano finalmente applicati e realizzati e non restino semplici aspirazioni metafisiche.

 

In tal modo potrebbe nascere l’idea di un’Europa globale, che si ponga nei confronti del mondo come “mediatore” nell’avviare rapporti costruttivi con gli altri, tra il nord e il sud del mondo, tra oriente e occidente, l’Europa come punto di incontro tra le diverse civiltà, luogo di crogiolo di nuove relazioni, all’insegna del confronto e dello scambio di esperienze. Una idea di Europa che riesca a mediare soprattutto attraverso la potenza civile che altro non è, come lo chiama Spivak, “responsabilità etica”.

 

Si tratta dell’istanza etica di fare spazio all’altro, creare uno spazio affinché l’altro possa esistere, possa manifestarsi, possa rispondere. Etica, quindi, soprattutto come richiamo alla razionalità, di relazioni reciproche, di comunicazione. Questo obiettivo potrebbe essere realizzato attraverso la formazione di nuovi concetti giuridico-istituzionali che tendono a tutelare e a garantire equità sociale a tutti i soggetti all’interno del continente Europa, siano essi già cittadini di Stati membri che non.

 

In questo caso la Rigo pone l’attenzione sul concetto di libertà, connesso sia al concetto di confine di cittadinanza, soprattutto in relazione ai grandi movimenti migratori all’interno del continente. Questa libertà così come i diritti civili, politici e sociali sembra essere concepita in maniera diversa a seconda dell’individuo, e la differenza è data dalla appartenenza o meno allo stato membro dell’Unione Europea. Per cui quando si parla di soggetti non appartenenti all’UE le politiche attuali, nazionali e aspiranti sovranazionali, propongono una limitazione della mobilità “transfrontaliera” giustificando questa limitazione con l’ormai obsoleto, per le menti più aperte, spauracchio dell’ordine pubblico e sicurezza nazionale, contemperato nell’art. 5 della Convenzione di Schengen.

 

Ciò non significa non darsi norme, ma concepire norme giuridiche che tengano in debita considerazione la giustizia individuale e sociale, si devono creare o ri-creare norme che devono soddisfare le condizioni e gli effetti secondari, che derivano dalla universale osservanza per il soddisfacimento degli interessi del singolo, e che possono essere accettate senza coercizione perché valide per tutti.

 

Il continente europeo deve essere un cantiere aperto nel quale sia possibile rimettere in discussione, coniugando l’aspirazione alla creazione di nuovi dispositivi istituzionali con la capacità di accogliere innovazioni, mutamenti, trasformazioni. Deve nascere una nuova idea di Europa, un’Europa che dovrebbe essere tutto ciò che l’Europa non è, tutto quello che c’era prima, dopo e oltre la politica: apertura infinita sul futuro, volontà di ricevere ospiti inattesi. L’Europa come moltitudine di soggetti attivi che attraverso gli spazi continentali, che comunicano incessantemente tra loro, che sappiano dilatare la dimensione naturale del vecchio continente.

 

Perché tutto ciò possa essere pensato e realizzato occorre coniugare la capacità di pratiche politiche visionarie con l’inventiva di un’immagine che aspiri a non ripetere sentieri già percorsi: riarticolare la spazialità territoriale, nell’accezione positiva ovviamente, ricreare le dinamiche democratiche di dispositivi e congegni istituzionali, trasmettere ai diversi livelli politici forme sperimentali di democrazia radicale. Tutto ciò non è utopia, è possibile solo però se nessuno si chiude nella difesa di se stesso, solo se tutti insieme instancabilmente lavoriamo perché ognuno si senta a casa ovunque.

 

Ciò non significa rimuovere, riscrivere, rinnegare o enfatizzare il passato, ma semplicemente ricordare che la storia, singola o nazionale altro non è che memoria, e la memoria è essenzialmente ciò che ci rammenta continuamente che ci troviamo sulla terra sotto il cielo, la memoria ci rammenta la nostra condizione precaria nel mondo.

 

La memoria non è fissa né eterna, si trasforma, possiamo quindi andare avanti, oltre l’io incontro al noi.

  

 

Riferimenti bibliografici:

  

Ashcroft B., Griffiths G. e Tiffin H., The Empire writes back, Routledge and Kegan Paul, Londra 1989.

Albertazzi S., Lo sguardo dell’altro: le letterature postcoloniali, Carocci, Roma 2000.

Di Piazza E., Studi (post) coloniali, in Cometa M., Dizionario degli studi culturali, Meltemi, Roma 2004.

Spivak G., The Post-Colonial Critic, Routledge, London 1990.

Luhmann N., De Giorgi R., Teoria della società, Franco Angeli, Milano 1992.



 

 

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