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N. 143 - Novembre 2019 (CLXXIV)

icone mariane acheropite

GLI ULTIMI BAGLIORI DELL'ENCAUSTO

di Paolo Fundarò

 

Roma e il monastero di Santa Caterina sul monte Sinai in Egitto sono i principali centri in cui si conservano le più antiche icone precedenti il periodo iconoclasta, iniziato con l’imperatore bizantino Leone III Isaurico nel 730, durante il quale le immagini sacre furono osteggiate e proibite, richiamando il divieto biblico.

 

Sebbene vengano considerate come testimonianze appartenenti a due diverse aree culturali – esempi di pittura occidentale quelle presenti nelle chiese romane ed espressione della cultura altomedievale di Costantinopoli quelle del Sinai – molti elementi fanno pensare a unica origine.

 

Sono immagini ancora legate alla tradizione e l’influenza ellenistico-romana in quanto, ancora non plasmate e codificate dalle regole iconografiche successive alla fine della contesa iconoclasta nell’843. Appartengono alla tradizione delle icone acheropite, il cui significato letterale equivale a “non dipinte da mano umana”, si diffondono all’epoca dell’imperatore Giustiniano (483-565) e sarebbero state create o per un contatto diretto, come ad esempio il volto di Cristo, o per ierofania, manifestazione divina.

 

L’antecedente pagano delle acheropite, possiamo ritrovarlo nei Diipetés, simulacri caduti dal cielo o scagliati da Zeus, come ad esempio il Palladio di Atena o l’Artemide di Efeso, sacre effigi capaci di proteggere le città dalle invasioni nemiche. Inizialmente il termine indicava le pietre meteoritiche a cui venivano attribuiti poteri divini.

 

Due tra le icone mariane dipinte a cera presenti a Roma, hanno dimensioni maggiori rispetto le altre e la preparazione del supporto è su tela, mentre in quelle del Sinai l’esecuzione è direttamente su legno. Si tratta di varianti in base alla funzione che l’immagine doveva svolgere.

 

Kurt Weitzmann riporta una serie di casi in cui alcune icone a encausto del monastero di Santa Caterina conservano tracce del tessuto sottostante. Interamente dipinta su tessuto e proveniente probabilmente dall’Egitto copto anche un’icona identificata di recente in una collezione privata a Londra senza che si siano conservate tracce del supporto ligneo.

 

La pratica di dipingere su tavola o su sudari in lino con o senza preparazione del supporto è attestata ampiamente nei ritratti a uso funerario nell’Egitto del Fayyum, e anche nelle rare icone pagane ritrovate nella stessa regione. Rispetto a questi documenti pittorici non ci sono nuove pratiche in atto; stessi materiali e stessi procedimenti artistici mostrano anzi la continuità della cultura tecnica-pittorica su supporto mobile nel mondo Tardo Antico.

 

Una differenza significativa è perlopiù, come accennato, nella funzione delle icone: molte tra quelle del Sinai furono concepite espressamente come doni per il celebre monastero greco probabilmente su iniziativa dell’imperatore Giustiniano; le Madonne di Roma tuttora custodite nelle chiese della capitale cristiana rappresentavano anche importantissimi palladi e sacrari a difesa della città e degli eserciti, come del resto l’immagine del Mandylion di Edessa, l’immagine acheropita per eccellenza generata secondo la tradizione per contatto diretto col volto di Cristo.

 

Nel 431 il concilio di Efeso nell’ambito di una disputa cristologica stabilì che l’insegnamento del nestorianesimo era errato. Nestorio Patriarca di Costantinopoli sosteneva la tesi divisoria, cioè che Gesù nato uomo era solamente portatore di Dio (Theophoros) custodito nella sua persona come in un Tempio. Il Concilio capeggiato da Cirillo di Alessandria decretò la natura unitaria, umana e divina allo stesso tempo di Gesù; di conseguenza Maria di Nazareth non poteva definirisi Christotokos cioè genitrice del solo uomo, ma Theotokos Madre di Dio, o più esattamente “dal parto divino”. Titolo che in precedenza aveva avuto Iside, la cui immagine di maternità che allatta o assisa sul trono col Bambino tra le braccia, verrà riproposta dagli artisti nell’iconografia cristiana.

 

In seguito al Concilio di Efeso, il culto Mariano, crescendo d’importanza, portò a creare vari modelli iconografici della Vergine destinati a essere tramandati nel tempo in uno schema fisso: la Brephocratousa, l’Odigitria, l’Eleousa, L’Aghiosoritissa, la Blachernitissa, la Basilissa e la Galactotrophousa, che solitamente prendono il nome non in base all’aspetto, ma al luogo in cui venivano custodite.

 

Tra le immagini più riprodotte quelle della Madonna Hodighitria “Colei che mostra la via”, attribuita secondo la tradizione a San Luca e così denominata dal luogo in cui veniva custodita a Costantinopoli, una chiesa nel quartiere di Ton Odegon. Fu inviata da Gerusalemme da Eudocia moglie dell’imperatore Teodosio II, pellegrina in Terra Santa nel 438 alla cognata Pulcheria che la donò alla chiesa degli Hodigòi o “delle guide”, dal nome dei monaci custodi del santuario che guidavano i pellegrini, tra cui molti ciechi venuti a chiedere la guarigione.

 

La più antica copia di questo genere risalente forse tra il V e il VI secolo, è l’icona che attualmente si trova nella chiesa di Santa Maria Nova, proveniente dalla vetusta Santa Maria Antiqua al Foro Romano ricavata all’inizio del VI secolo da ambienti del Palazzo Imperiale e traferita da Papa Leone IV dopo il terremoto dell’847; fu dipinta probabilmente in un area sotto l’influenza di Alessandria d’Egitto.

 

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 Hodighitria “Colei che mostra la via”, V o VI secolo. Roma, chiesa di Santa Maria Nova

 

Nell’icona, recuperata e riscoperta con un delicato intervento di restauro, curato e documentato da Pico Cellini nel 1950, riaffiorarono le fasi di ridipintura; la prima effettuata sotto Onorio III (1216-1275), per via di un incendio, la seconda nel XVI secolo. Infine nel restauro ottocentesco curato da Pietro Tedeschi, il quale lasciò la sua firma nel retro della tavola. Del dipinto originale a cera eseguito su tela di lino restarono il volto della Madonna e del Bambino che rivelano le eccezionali dimensioni, prima di essere ridotte in due frammenti.

 

L’immagine originale creata forse nel 438 fu per secoli il “palladio” di Costantinopoli, perduto quando la città cadde in mano ai Turchi nel 1453. Il prototipo ha dato origine a innumerevoli copie. Tra le più antiche, una tavola proveniente dal Sinai ora a Kiev.

 

Secondo la studiosa Margherita Guarducci, per la monumentalità, l’attribuzione a San Luca, la tecnica a cera e per il fatto che il Bambino viene tenuto nel braccio destro (dexiokratousa) anziché sinistro, l’icona di Santa Maria Nova sarebbe una copia speculare, ricalcata sul modello originale di Costantinopoli, ritenuta la più antica immagine ufficiale del culto di Maria.

 

Nel tipo canonico, dell’Hodighitria, Maria è raffigurata in posizione frontale con lo sguardo fisso rivolto verso l’osservatore con un atteggiamento ieratico e distaccato. Indossa una tunica di colore verde, il maphorion (il velo) è di colore rosso e i capelli sono coperti da una cuffia aderente. Il Bambino seduto sul braccio, è rivolto verso la Madre, con la destra leggermente alzata benedice alla greca, mentre con la sinistra regge un rotolo di pergamena, simbolo di saggezza e di sapienza.

 

Sempre del genere della Vergine Hodighitria, la Madonna del Pantheon, nella Basilica di Santa Maria ad Martyres a Roma, risalente forse al VII secolo è l’unica tra le icone precedenti l’iconoclastismo dipinta a tempera su una tavola d’olmo, con un legante proteico a base di caseina. Ha subito in varie fasi, probabilmente già antiche, alcuni restauri a cera. Anche in questo caso colpisce la dimensione della tavola (100 x 47,5 cm) dovuta alla sua funzione pubblica, ma è incerto se in origine l’icona si presentasse a figura intera o, come alcuni sostengono, simile per proporzioni alla Salus Populi Romani di Santa Maria Maggiore.

 

Probabilmente per le misure grandiose sostituiva l’immagine presente nel mosaico absidale delle chiese a navata centrale. La prima notizia relativa a quest’ultima tavola può forse essere rintracciata in un elenco di acheropite contenuto in un codice greco della Biblioteca Marciana di Venezia, databile tra la fine del IX e l’inizio del X secolo.

 

Differente in tipologia e significato, ma sempre ascritta all’opera di San Luca, è il modello iconografico della Vergine Orante, l’Haghiosoritissa. Cosi denominata dalla Hagia Sorós, la Santa Urna contenete la reliquia della Cintura (o Zonè) della Vergine, custodita nella Basilica della Chalcoprateia, voluta da Pulcheria a Costantinopoli, nel quartiere del rame (calchòs). Denominata anche Paraklisis o della supplica, per il gesto delle sue mani. Nell’oratorio, vicina al prezioso tabernacolo in cui era riposta la reliquia di Maria, vi era l’immagine della Theotokos.

 

La più antica copia di questa tipologia di icona derivante dal modello costantinopolitano si conserva nella chiesa di Santa Maria del Rosario a Roma ed è detta anche Madonna Advocata (in difesa dell’umanità). Fu dipinta a encausto direttamente su un’imprimitura di gesso senza l’uso della tela, su una tavola di tiglio dalle dimensioni contenute (70 x 40,5 cm). Restaurata nel 1960 dall’Istituto Centrale del Restauro, emerse la pittura originale su fondo con foglia d’oro, in buono stato di conservazione e di alto livello esecutivo di matrice ellenistica; sicuramente uno dei volti più belli tramandati dal mondo antico.

 

Raffigurata senza bambino, di tre quarti con lo sguardo rivolto verso lo spettatore e con le mani poste all’altezza del petto in atteggiamento di supplica, si può ascrivere al tipo più generico dell’Orante analogo alla Vergine della Deisis: composizione in cui la Madonna con San Giovanni Battista sono posti ai due lati della figura del Cristo. Isolata poi da quel contesto iconografico, la Vergine fu rappresentata in forma autonoma, assumendo il titolo di Haghiosoritissa.

 

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 Haghiosoritissa, VI-VII secolo. Roma, chiesa di Santa Maria del Rosario

 

Per Bertelli l’icona di Santa Maria del Rosario sarebbe l’immagine originale venerata nella Hagia Soros, salvata dalla furia iconoclasta e portata a Roma da un devoto pellegrino. Nell’Urbe la tavola venne trasferita in diversi luoghi di culto: dalla Chiesa del Monasterium Tempuli ospitata sino al 1209, passò alla chiesa di San Sisto Vecchio, fino al 1221. Venne poi portata nella chiesa dei Santi Domenico e Sisto sino al 1567, e infine all’Oratorio del Rosario a Monte Mario.

 

Tra le immagini della Teotokos, La Basilissa (Madonna Regina) di Trastevere conosciuta anche come la Madonna della Clemenza è la più grande icona a cera del mondo antico (circa 200x133 cm), e l’unica con cornice originale, su cui dovevano essere presenti anche due sportelli in legno per la chiusura e la custodia sul modello delle antiche icone pagane.

 

L’icona, realizzata su tela riportata su tre tavole di cipresso raffigura la Vergine abbigliata come una regina con Gesù bambino sulle ginocchia e due angeli ai lati. La Madonna indossa l’abito cerimoniale color porpora scuro dell’imperatrice bizantina e sul capo la corona. La Vergine sembra seduta sul trono e in piedi allo stesso tempo a causa dell’ambiguità dell’esecuzione o, forse come colta nell’atto di sollevarsi dal trono. In basso a destra dell’icona si intravedono i frammenti del donatore: due dita e parte del viso rivolto verso lo spettatore. È stato identificato come un Pontefice, ma non è chiaro se sia parte integrante della composizione originale.

 

Attualmente collocata all’interno della Cappella Altemps, realizzata alla fine del 1500, a sinistra dei magnifici mosaici dell’altare maggiore della chiesa di Santa Maria in Trastevere, fu restaurata nel 1950 presso l’Istituto Centrale del Restauro; le analisi hanno evidenziato che i colori delle cornice hanno la stessa natura del dipinto.

 

Nella ricostruzione dell’iscrizione, Carlo Bertelli riporta la seguente lettura “Poiché Dio stesso si fece dal tuo utero i principi degli angeli ristanno è stupiscono di Te che porti in grembo il nato”. La tradizione di accompagnare le immagine iconiche con un’iscrizione sulla cornice risale evidentemente al periodo preiconoclasta poiché presenti anche in alcune icone sinaitiche.

 

L’analisi delle tre tavole effettuata nel 1970 rivela che la provenienza delle tavole di cipresso è cipriota, mentre la cornice di castagno proviene dall’Asia Minore. L’icona potrebbe essere stata quindi dipinta e trasportata direttamente dall’oriente e in un secondo momento potrebbe essere stata aggiunta l’immagine del Pontefice.

 

Come per le altre icone altomedievali la datazione è argomento di vivace dibattito. Bertelli confrontando l’icona con gli affreschi absidali di Santa Maria Antiqua e con l’immagine di Maria Regina a mosaico proveniente dall’oratorio della vecchia basilica di San Pietro ora a Firenze, suppose che l’icona risalisse all’inizio dell’VIII secolo, precisamente al tempo di Giovanni VII e commissionata dallo stesso pontefice tra il 705 e il 707.

 

La studiosa Maria Andaloro, nel 1971, anticipa la datazione dell’icona alla fine del VI secolo per la presenza di una marcata impronta ellenistica e sulla base di un documento storico, l’Itinerario di Salisburgo, una guida per i pellegrini redatta intorno al 640, in cui viene registrata l’icona trasteverina con la seguente lettura “basilica quae appellatur sca Maria transtiberis ibi est imago mariae quae per se facta est”. L’ultima parte dell’iscrizione rileva che secondo la tradizione è considerata acheropita. Alcuni studiosi ipotizzano che il prototipo di questa icona possa essere la Maiestatis Domini; per altri è da cercarsi a un perduto mosaico nell’abside della chiesa della Natività a Betlemme.

 

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 Basilissa (Madonna Regina), fine VI secolo. Roma, chiesa di Santa Maria in Trastevere

 

Per la tecnica di esecuzione in cui non sono presenti rilievi ma pennellate corpose e dense, le icone di Santa Maria in Trastevere e di Santa Maria Antiqua sembrano dipinte con una cera saponificata e stesa a freddo; mentre l’icona di Santa Maria del Rosario potrebbe essere stata sottoposta a una fonte di calore per una pratica più aderente alla tecnica dell’encausto: tecnica misteriosamente abbandonata dopo il periodo iconoclasta quando viene sostituita dalla tempera con varie combinazioni di leganti solitamente proteici. Probabilmente nella riforma delle immagini vi era qualche prescrizione ora perduta sul tipo di legante che vietava l’uso della cera, forse a causa dei suoi effetti troppo realistici o illusionistici.



 

 

 

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