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N. 30 - Novembre 2007

I movimenti sociali

Formazione, ideologia, organizzazione e comportamenti

di Stefano De Luca

Una definizione di movimento sociale può essere data attraverso quattro aspetti che, secondo studiosi di diversa provenienza teorica e territoriale, li caratterizzano. I movimenti sociali sono definiti come ‘reti di relazioni prevalentemente informali, basate su credenze condivise e nuove identità, che si mobilitano su tematiche conflittuali, attraverso un uso frequente di varie forme di protesta’.

In primo luogo, i movimenti sociali possono essere considerati come sistemi di relazioni informali tra una pluralità di individui, gruppi e/o organizzazioni. A differenze dei partiti o dei gruppi di pressione, dove l’appartenenza è generalmente sancita da una tessera d’iscrizione, i movimenti sociali sono composti da reticoli dispersi e debolmente connessi di individui che si sentono parte di uno sforzo collettivo.

Non sono organizzazioni, ma reti di relazioni tra diversi attori, che possono includere, a seconda delle condizioni, anche organizzazioni dotate di una struttura formale. Una delle caratteristiche dei movimenti è il poterne far parte, sentendosi coinvolti in uno sforzo collettivo, senza dover aderire ad una specifica organizzazione. In secondo luogo tali reticoli, per essere considerati un movimento sociale, e quindi differenziarsi da semplici fenomeni collettivi di aggregato, come le mode o il panico, devono elaborare un sistema di credenze condivise e una nuova identità. Caratteristica dei movimenti sociali è infatti l’elaborazione di visioni del mondo e sistemi di valori alternativi rispetto a quelli dominanti. Per questo motivo i movimenti sono considerati come protagonisti del mutamento sociale, “profeti del presente”, poiché “come i profeti, parlano avanti, annunciano il mutamento possibile”.

Diversamente dai gruppi di pressione, i movimenti sociali non mirano prevalentemente a rappresentare gli interessi dei loro iscritti o simpatizzanti, ma si propongono come portatori di modelli alternativi per la società e il sistema politico in generale. Terza caratteristica, che li contraddistingue dalle altre forme di azione collettiva come il volontariato, l’associazionismo, il gruppo d’interesse o il partito, è che l’azione dei movimenti sociali è di tipo conflittuale. I movimenti avanzano rivendicazioni mediante un’azione di sfida diretta, rivolta contro autorità politiche, determinati codici culturali o altri gruppi. Tali sfide comportano l’esistenza di una relazione di opposizione, o antagonista, tra due attori per il controllo o l’appropriazione di risorse che entrambi valorizzano, e hanno come esito di promuovere od ostacolare il mutamento sociale. Infine, i movimenti sociali si distinguono da altri attori politici, come i partiti e i gruppi di pressione, per il fatto di adottare forme particolari di comportamento politico, in primis l’utilizzo della protesta come modo di fare pressione politica.  Per protesta s’intende una forma non-convenzionale di azione che interrompe la routine quotidiana. Le forme di protesta utilizzate dai movimenti sociali, possono essere distinte in non-violente, perturbative e violente.

Per forme di protesta non-violente s’intendono gli scioperi, le azioni dimostrative come i cortei o i raduni pubblici, le petizioni e il volantinaggio. Le azioni perturbative sono di vario tipo: le occupazioni (la forma più diffusa negli anni Sessanta), i sit-in, le irruzione in scuole o edifici pubblici cui è vietato l’accesso, il blocco di pubbliche funzioni (come ad esempio il blocco del traffico), bruciare delle effigi o delle immagini, lo sciopero della fame, incatenarsi ad un cancello. Le forme di violenza utilizzate negli episodi di protesta sono gli scontri con la polizia, quelli di piazza, i danni ai beni materiali, gli attacchi violenti, la violenza contro obiettivi causali. I movimenti utilizzano in genere queste forme di violenza quando le azioni collettive non-violente perdono la loro capacità di colpire le èlite.

Chi protesta si rivolge in genere all’opinione pubblica, prima ancora che ai rappresentanti elettorali o alle burocrazie pubbliche. Mancando di canali d’accesso alle istituzioni, i movimenti sociali tendono ad utilizzare i mass media come cassa di risonanza: da ciò ne consegue il bisogno di forme d’azione inusuali che attraggono l’attenzione dei media stessi. I movimenti sociali hanno origine nei momenti di crisi, o di diffusa insoddisfazione e critica nei confronti dell’ordine sociale esistente. Sono i sentimenti d’insoddisfazione e d’ingiustizia, che causano frustrazione e risentimento nei confronti delle norme e dei valori di un dato sistema sociale.  Questi stessi fattori che facilitano la mobilitazione, sono in realtà anche potenziali fattori di disgregazione del movimento stesso. Come è stato riscontrato dagli studiosi di scienze sociali, un movimento si forma quando individui, che hanno in comune un’identità collettiva (e le risorse necessarie per mobilitarsi), condividono questo sentimento di insoddisfazione e si aggregano per protestare contro lo stato di cose.

 Un movimento sociale si forma attraverso la convergenza e la fusione di appartenenze precedenti. E’ stato infatti riscontrato che gli individui che prendono parte alla mobilitazione, hanno già un’esperienza di partecipazione in altre reti organizzative.  Questa fusione di appartenenze precedenti rende i movimenti instabili al loro interno, in quanto emergono continui problemi d’integrazione e di mantenimento dell’unità.

Mancando procedure istituzionalizzate per la formazione di decisioni e un sistema riconosciuto di norme, ogni sottogruppo tenderà a partecipare in funzione dei propri interessi particolari. Questo insieme di spinte devono essere controllate perché il movimento possa sopravvivere. Il rischio di disgregazione viene infatti equilibrato attraverso la produzione di un’ideologia, la costituzione di un’organizzazione e la creazione di una leadership unitaria.

Il sentimento che accomuna gli individui che fanno parte del movimento sociale è l’insoddisfazione nei confronti delle realtà esistente, e la convinzione che non viene fatto nulla da parte del sistema per migliorare la situazione presente; questi soggetti ipotizzano una visione ideale di come dovrebbero andare le cose, creano un’ideologia. Le funzioni dell’ideologia sono molteplici: la definizione dei problemi, l’individuazione delle possibili soluzioni, la motivazione dell’azione, l’identificazione di un avversario, la definizione di un oggetto o di una posta in gioco. L’ideologia è l’elemento che fornisce unità al movimento e rafforza i legami tra i membri, che crea in poche parole tutte le condizioni che permettono la mobilitazione dell’attore sociale. Le ideologie dei movimenti sociali sono state considerate come utopiche, astratte, basate sulla netta distinzione tra amici e nemici. La loro forza risiederebbe nella capacità di convincere la popolazione dell’importanza degli obbietti perseguiti dal movimento. Mutano nel tempo: se i movimenti sociali degli anni Sessanta sono stati definiti come emancipatori e progressisti, quelli del decennio successivo invece come anti-modernisti e regressivi. Studi recenti hanno messo in evidenza come i movimenti degli anni Ottanta erano più pragmatici, pioché si allontanavano dalle grandi utopie per concentrarsi su tematiche più specifiche. Essi rinunciavano alla contrapposizione frontale a favore del negoziato. Infine i movimenti degli anni Novanta, denunciano la globalizzazione dall’alto, ovvero quella neo-liberista.

L’ideologia, grazie alla definizione degli obbiettivi collettivi delle lotta e dell’identificazione dell’avversario contro cui il movimento si batte, permette di passare dall’insoddisfazione all’azione per cambiare le condizioni che generano il malcontento. Ma per poter trasformare in realtà la visione ideale, si deve dare vita ad un sistema organizzativo che sia in grado di “mantenere in vita” il movimento, e di coordinare le azioni del movimento verso la realizzazione del proprio fine. Questo processo è gestito da un gruppo di persone, che costituiscono il nucleo attorno al quale verrà formandosi il nuovo movimento, e che diverranno i leaders dello stesso. I leaders (anche se spesso viene identificato in un movimento sociale un unico leader, è più appropriato esprimersi nei termini di un gruppo di leaders) hanno il compito di definire gli obbiettivi del movimento, di provvedere ai mezzi per l’azione, di proporre l’ideologia ai seguaci per mezzo di discorsi e pubblicazioni, di pianificare la strategia.

Le diverse fasi di sviluppo di un movimento collettivo richiedono una leadership diversa con caratteristiche specifiche. Se distinguiamo nel ciclo vitale di un movimento quattro fasi, come ha fatto Blumer, possiamo descrivere il tipo di leadership presente in ciascuna fase. Infatti ad ognuna delle quattro fasi corrisponde un tipo diverso di leadership.

Blumer sostiene che durante la prima fase di fermento sociale, il leader tipico è un ‘agitatore’, una persona che ‘smuove le acque’. Durante la seconda fase di eccitazione popolare, è necessario un ‘profeta’, per diffondere il messaggio e suscitare entusiasmo tra i seguaci. Nella terza fase di organizzazione formale c’è bisogno di un ‘amministratore’, che organizzi e coordini il movimento e ne definisca i requisiti di appartenenza.

Durante la fase finale di istituzionalizzazione, il movimento diventa più burocratico e il leader tipico è un ‘un uomo di stato’, che capisce la realtà politica, e aiuterà il movimento a raggiungere i suoi obbiettivi. A volte, un solo leader può riassumere in sé tutte le caratteristiche sopra menzionate ma, di solito, un movimento ha bisogno di leader diversi per le varie fasi del suo sviluppo. Ciò comporta la possibilità che, all’interno del movimento, si verifichino conflitti tra soggetti che rivestono posizioni di vertice. I fondatori del movimento, per esempio, possono essere in disaccordo con coloro che attualmente lo gestiscono, con una conseguente formazione di fratture o correnti all’interno del movimento stesso.  Da quanto emerge sopra, anche per i movimenti sociali sembrerebbe valida la ‘legge ferrea dell’oligarchia’, enunciata da Robert Michels, secondo la quale per sopravvivere come organizzazione un “partito politico” deve dare sempre meno importanza all’ideologia, e concentrarsi sulla propria sopravvivenza all’interno del sistema. Secondo questa teoria i movimenti sociali, come i partiti politici, si burocratizzano. Ma nella realtà è stato riscontrato dagli studiosi che l’evoluzione dei movimenti sociali non segue un modello costante.

 Prima di tutto è emerso che solo pochi movimenti sopravvivono nel tempo, molti di loro si sciolgono perché hanno raggiunto i propri fini, alcuni invece scompaiono a seguito di frequenti processi di scissione e fusione all’interno del movimento stesso. Altri si burocratizzano (assomigliando sempre più a partiti o gruppi di pressione), cioè sviluppano delle strutture interne, moderano i fini e si integrano nel sistema di rappresentanza degli interessi: ad esempio dal movimento studentesco italiano degli anni Sessanta sono nati i partiti della Nuova sinistra. Altri ancora si radicalizzano: i fini divengono più ambiziosi, le forme d’azione meno convenzionali e si isolano dal mondo esterno. Come si può ben intuire i movimenti sociali si evolvono in modi diversi, e l’analisi di Blumer sui cicli di vita dei movimenti sociali e sui relativi tipi di leadership presenti nel movimento, non può essere considerata valida per tutti i movimenti sociali. Sembrerebbe più giusto affermare che ci sono movimenti che completano il ciclo (s’istituzionalizzano), altri invece che si fermano ad una delle fasi del ciclo e altri ancora che scompaiono del tutto.

I movimenti per mantenersi nel tempo, e cercare di raggiungere i propri obbiettivi e non esaurirsi al termine di una protesta, devono sviluppare una struttura organizzativa al proprio interno. Non è che i movimenti diventano un’organizzazione nel senso proprio del termine, ma restano sempre delle reti di relazioni. Diviene necessaria una coordinazione interna per poter svolgere tutte quelle attività necessarie sia al mantenimento in vita del movimento, che al raggiungimento dei propri fini. I compiti dell’organizzazione di un movimento sono diversi: come l’elaborazione delle strategie per raggiungere l’obiettivo, il coordinamento delle campagne di protesta e la rappresentazione del movimento all’interno delle istituzioni.

Caratteristica dell’organizzazione è di essere segmentata con differenti cellule che crescono e muoiono in breve tempo, policefala, con numerosi leaders che controllano piccole frazioni del movimento, reticolare, cioè basata su legami multipli tra cellule autonome che costruiscono delle reti dai confini indefiniti.

Altra caratteristica dell’organizzazione è la struttura partecipativa. Soprattutto i movimenti che sono definiti della ‘sinistra libertaria’, affermano come valore principale la democrazia diretta, tendono a distribuire il potere fra molti individui, riconoscendo in maniera solo limitata la delega e privilegiando le elaborazioni di decisioni consensuali.

Anche per quanto riguarda l’organizzazione dei movimenti, non è possibile tracciare un unico modello in grado di spiegare il tipo di organizzazione che esso assume. Questo dovuto al fatto che il passaggio dalla protesta, all’organizzazione interna di un movimento avviene secondo modalità diverse.

Il tipo di organizzazione che emerge dipende da come il movimento risponde agli stimoli e ai vincoli che gli provengono dalla sua struttura interna e dall’ambiente in cui opera, e anche dal fatto che il tipo di organizzazione muta anche a seconda di come si evolve il movimento.

Più che una classificazione delle formule organizzative, è preferibile elencare alcune caratteristiche dei movimenti sociali che influenzano il tipo di organizzazione che questo assume. Queste caratteristiche sono: il tipo di obbiettivo perseguito, i requisiti di appartenenza richiesti, i rapporti che si instaurano con l’ambiente esterno e gli incentivi che forniscono ai membri.

A seconda del tipo di obbiettivo perseguito dal movimento si avrà una particolare forma di organizzazione. Si può distinguere tra movimenti espressivi e movimenti strumentali. I primi hanno obbiettivi orientati alla soddisfazione di bisogni sociali e psicologici dei membri, adattano un tipo di organizzazione decentrata. I secondi sono invece orientate al perseguimento di specifici obbiettivi, esterni all’organizzazione, sviluppano una struttura organizzativa di tipo centralizzata. Altra caratteristica cui fanno riferimento gli studiosi delle scienze sociali per individuare le caratteristiche che assume l’organizzazione del movimento, sono i requisiti di appartenenza richiesti agli individui. Si può distinguere in organizzazioni inclusive ed esclusive.

Le prime non hanno meccanismi rigidi di selezione dei membri e richiedono un livello d’impegno relativamente scarso, non prevedono specifici doveri, e il ruolo dell’ideologia è molto debole. Le organizzazioni esclusive invece, controllano rigidamente i processi di aggregazione all’interno dei movimenti, richiedono un’intensa identificazione ideologica e un elevato impegno all’interno dell’organizzazione, qui invece ci sarà un’organizzazione di tipo più centralizzata.

Ancora possiamo distinguere l’organizzazione dei movimenti sociali a seconda dei rapporti che instaurano con l’ambiente e, in particolare con le altre organizzazioni. Ci sono movimenti che non hanno rapporti con altre reti associate, oppure quelli che hanno appartenenze multiple e leadership comunicanti con altre organizzazioni. Le organizzazioni  possono essere classificate anche secondo il tipo di incentivi che forniscono ai membri: come incentivi materiali, di solidarietà, di valore. I primi sono beni o risorse economiche; i secondi sono indipendenti dai fini specifici dell’organizzazione e derivano da un senso di soddisfazione che raggiungono i membri nel partecipare al movimento stesso, oppure nel stabilire delle relazioni tra i membri; gli ultimi sono legati a fini dell’organizzazione e alla loro realizzazione.

Il modello organizzativo prescelto e la sua evoluzione nel tempo sono il prodotto di processi complessi di adattamento all’ambiente, di tentativi di trasformare il movimento , di scelte strategiche e accettazione delle tradizioni (come per le forme di protesta anche per l’organizzazione di un movimento sono importanti i repertori delle formule organizzative). In primo luogo bisogna osservare che c’è una certa tendenza delle organizzazioni di movimento ad adeguare le loro strutture organizzative agli obbiettivi che si cercano di realizzare, e alle caratteristiche dei gruppi sociali che si propongono di mobilitare. Queste scelte vengono comunque influenzate dalle risorse e dai vincoli presenti sia nei movimenti stessi (dalle risorse culturali, dal loro stesso modello organizzativo iniziale), sia nel loro ambiente. Trasformazioni tecnologiche, sviluppo economico, hanno influenzato non solo le tattiche dei movimenti, ma anche la loro struttura organizzativa. L’espansione dei mezzi di comunicazione, dalla carta stampata ai media elettronici, ha permesso di esternare alcuni costi: se prima erano necessarie organizzazioni ben strutturate per far circolare i messaggi, oggi sono sufficienti organizzazione “leggere” che riescono a catturare l’attenzione dei media. La diffusione dei mezzi di comunicazione globali (fax o posta elettronica) ha anche ridotto i costi del coordinamento.

Un ulteriore e più approfondito cenno deve essere fatto ai comportamenti che adottano i movimenti nel svolgere la propria azione, che comprendono sia le azioni strategiche che quelle più spontanee e meno coordinate. Un indicatore dei comportamenti dei movimenti sono le forme di protesta, considerate come forme tipiche di azione collettiva dei movimenti sociali (anche se altri attori la utilizzano), cioè propria di quegli attori che, a differenza dei partiti o dei gruppi di pressione, sono meno dotati di canali di accesso ai decisori pubblici. E’ stato osservato dagli studiosi delle scienze sociali che i movimenti utilizzano forme di protesta definite come ‘perturbative’, perché mirano ad intimorire le èlite attraverso una dimostrazione della forza numerica ma anche della determinazione degli attivisti. La protesta serve anche a raccogliere consensi: deve essere abbastanza innovativa da raggiungere i mezzi di comunicazione di massa e, attraverso essi, un pubblico ampio che i movimenti collettivi come ‘minoranze attive’ cercano di convincere della giustezza dei loro obiettivi. Oltre alla distinzione già accennata sopra fra forme di protesta pacifiche, perturbative e violente, le forme d’azione dei movimenti possono essere distinte anche a seconda che abbiano strategie culturali, cioè mirano ad una trasformazione interiore, o strategie politiche, cioè che cerchino soprattutto un cambiamento della realtà esterna. Ma a loro volta queste strategie si caratterizzano per i diversi gradi di radicalismo: dalla moderata evoluzione subculturale alla radicale sfida controculturale, nel primo caso, dal negoziato allo scontro, nel secondo.

Le tattiche di protesta messe in atto dai movimenti sono influenzate dagli scopi che  si vuole raggiungere con la protesta. Le varie forme di protesta sono essenzialmente riconducibili a tre logiche: quella dei numeri, quella del “danno materiale” e quella della testimonianza. La prima fa leva sul numero dei sostenitori del movimento ed è alla base di forme di protesta come i cortei, i referendum e le petizioni, che ad esempio negli anni Ottanta venivano utilizzate dai movimenti pacifisti per bloccare l’installazione dei missili a testata nucleare Cruise e Pershing II. I movimenti sociali cercherebbero di mobilitare il maggior numero possibile di dimostranti, con lo scopo di richiamare i rappresentanti eletti mostrando che, almeno su alcuni temi, esiste nel paese una maggioranza diversa rispetto a quella parlamentare. La paura di perdere elettori dovrebbe quindi spingere i rappresentanti del popolo a rivedere la propria posizione, riallineandola con quella del paese reale. La seconda si basa sulla capacità di produrre danni a cose o persone, il che può derivare da scioperi, da azioni di boicottaggio o, addirittura quella prospettiva violenta che è alla base degli atti terroristici.

Questa è la logica che troviamo alla base ad esempio dello sciopero nell’industria. Scopo di questo tipo di protesta è arrecare un danno materiale al datore di lavoro; il danno economico dovrebbe spingere l’imprenditore razionale a scendere a patti con i lavoratori onde evitare altre perdite. A parte il caso specifico degli scioperi nelle fabbriche, nella maggior parte delle forme di protesta utilizzate dai movimenti possiamo riscontrare un tipo di azione che cerca di interrompere la ruotine quotidiana, che minaccia disordine.

Accanto ad azioni che seguono la logica dei numeri o quella del ‘danno’, si sono sviluppate, soprattutto a partire dagli anni Settanta, forme di protesta basate su una logica delle testimonianza. Queste azioni non mirano a convincere il pubblico o gli eletti che coloro che protestano rappresentano la maggioranza, né che essi costituiscono un potenziale di minaccia per l’equilibrio del sistema, ma vogliono dimostrare un forte impegno per un obbiettivo considerato di vitale importanza per le sorti dell’umanità.

Attraverso azioni come la disobbedienza civile (infrazione consapevole di una serie di leggi considerate ingiuste), sciopero della fame e tante altre, i dimostranti cercano di testimoniare la convinzione che sia indispensabile, anche correndo alti rischi (come l’arresto), fare qualcosa contro una decisione o una situazione ritenuta profondamente ingiusta.

Anche le forme di protesta, come anche l’ideologia, l’organizzazione e la leadership possono variare nel tempo: negli anni Sessanta si era osservata una tendenza a mantenere l’attenzione dei media e il potenziale di minaccia accentuando soprattutto la radicalità delle azioni, più recentemente sono state individuate dagli studiosi due nuove tendenze: la diffusione della protesta anche ad attori istituzionali, e la crescente moderazione dei repertori d’azione utilizzati dai movimenti stessi.

 



 

 

 

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