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N. 25 - Giugno 2007

GUIDO ROSSA

Un uomo solo contro le BR

di Marco Grilli

 

GENOVA, 24 GENNAIO 1979

 

“Un nucleo armato della BR ha giustiziato Guido Rossa, spia e delatore all’interno dello stabilimento Italsider di Cornigliano. Il suo tradimento di classe è ancora più squallido e ottuso in considerazione del fatto che il potere i servi prima li usa, ne incoraggia l’opera e poi li scarica. Compagni, da quando la guerriglia ha cominciato a radicarsi dentro la fabbrica, la direzione Italsider, con la preziosa collaborazione dei berlingueriani, si è posta il problema di ricostruire una rete di spionaggio, utilizzando insieme delatori vecchi e nuovi. L’obiettivo che il potere vuol raggiungere attraverso questa rete di spionaggio è quello di individuare e annientare all’interno delle fabbriche qualsiasi espressione di antagonismo di classe”.

 

Non più politici, magistrati, giornalisti e forze dell’ordine, il 24 gennaio 1979 segna il passaggio alla guerra totale nella storia delle BR, lo scavalcamento di ogni confine: sotto il fuoco dei terroristi cade un operaio metalmeccanico, militante comunista e delegato sindacale, accusato di aver denunciato Francesco Berardi, un fiancheggiatore delle BR all’interno dell’Italsider.

 

Come ogni mattina, alle 6 e 30 Guido Rossa esce dalla sua abitazione in Via Ischia per recarsi in fabbrica; i brigatisti, il cui covo si trova a soli 150 metri di distanza in Via Fracchia, lo attendono all’interno di un furgone parcheggiato dietro la sua Fiat 850, mentre una Fiat 128 guidata da Lorenzo Carpi funge da auto di scorta. Quattro colpi sparati dalla 7,65 di Vincenzo Gagliardo “gambizzano” Rossa, che in un estremo tentativo di difesa riesce a entrare nella sua automobile; a questo punto Riccardo Dura, l’altro brigatista del furgone, spacca il vetro della macchina e finisce Rossa con due colpi al torace, sparati da una micidiale calibro nove parabellum. L’ennesimo omicidio perpetrato dalle BR chiude la storia di un uomo rigoroso, coraggioso e coerente; un uomo che si batteva per i diritti dei lavoratori all’interno dello Stato democratico; un uomo che rigettava la lotta armata al tempo dello slogan “Né con lo Stato, né con le BR”.

 

L’UOMO GUIDO ROSSA

 

“Ha ancora un senso raggiungere vette pulite e scintillanti dove, solo per un attimo, possiamo dimenticare di essere gli abitanti di questo mondo dove si muore di fame, dove ci sono le guerre e le ingiustizie? Ma probabilmente queste prediche le rivolgo a me stesso, perché anche se fin dall’età della ragione l’amore per la giustizia sociale e per i diritti dell’uomo sono stati in me il motivo dominante, sinora ho speso pochissimo delle mie forze per attuare qualcosa di buono in questo senso (…). Da ormai parecchi anni mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza, qualcosa che si contrapponga a quello, quasi inutile, dell’andar sui sassi”. Queste parole, tratte da una lettera scritta ad un amico alpinista, definiscono meglio di ogni altra cosa la personalità dell’uomo Rossa: da un lato la passione per la montagna, esempio di coraggio, sacrificio e continua sfida personale (Guido era un ottimo alpinista, specializzato nelle operazioni di soccorso in alta quota; memorabile la spedizione sull’Himalaya nell’ottobre 1963); dall’altro la necessità di non isolarsi dal mondo circostante e la volontà di mettersi al servizio degli altri per realizzare un obiettivo più grande del vano arditismo, la costruzione di una società più equa e fondata sui diritti dell’uomo.

 

Cresciuto a Torino in una modesta famiglia, Rossa entra in fabbrica a soli 14 anni. Alla fine del 1960 è all’Italsider di Genova come aggiustatore meccanico presso l’Officina Centrale dello stabilimento “Oscar Sinigaglia” a Cornigliano. In fabbrica è ricordato come un operaio resistente, determinato, ingegnoso e testardo…l’incontro col mondo sindacale (CGL e FLM-Federazione lavoratori metalmeccanici) è naturale conseguenza del suo temperamento, l’elezione a delegato dell’Officina Centrale amplia così i suoi orizzonti mentali e il suo raggio d’azione. Comunista militante, Rossa si dedica anima e corpo alle lotte per i diritti dei lavoratori; schivo e diffidente per carattere, nel lavoro sindacale spicca per precisione, meticolosità, capacità di ascolto e prontezza decisionale. Ama definirsi un “operaiaccio”, lontano dal “sindacalese” ma apprezzato per la sua capacità di mediare con la direzione della fabbrica; pur essendo lontano dalla Chiesa, nei momenti liberi realizza in fabbrica dei piccoli crocifissi con frammenti di metallo fuso, schizzati dagli altiforni spesso verso gli operai, offrendoli in regalo ai dirigenti dell’Italsider…una vena artistica a supporto della dignità operaia che si esplica anche nella fotografia e in pittura.

 

Sposato con Silvia, una genovese impiegata alla SIP, ha una figlia, Sabina, dopo la morte nel 1961 a soli due anni del piccolo Fabio, rimasto vittima di un tragico incidente.

 

LE BR A GENOVA

 

Il capoluogo ligure era considerato dai terroristi come un centro fondamentale per il reclutamento di nuove leve, tanto che il procuratore generale Nicola Pezzarelli definì il brigatismo genovese come: “Il più attivo e uno dei più sanguinari dell’organizzazione eversiva”. A Genova spettano tristi primati: il primo ferimento di giornalista (Vittorio Bruno), il primo rapimento politico (Mario Sossi, 1974) ed il primo assassinio politico (Francesco Coco, 1976).

 

Il testo di quest’ultima rivendicazione rende perfettamente il clima di quegli anni: “Magistratura, polizia, carabinieri, carceri, costituiscono ormai un blocco unico, sono le articolazioni cardine di uno stesso fronte militare che lo Stato schiera contro il proletariato. La sola alternativa di potere è la lotta armata per il comunismo”.

Se il 1978 era culminato nell’uccisione di Aldo Moro, il 1979 vede accentuarsi i fatti di sangue; le BR, sempre più radicate nel territorio, puntano ora a conquistare la grande industria togliendo la direzione del proletariato al PCI, accusato di conservatorismo. Il tutto nell’obiettivo più grande di costruire una grande fronte combattente europeo capace di scuotere dalle fondamenta il Vecchio Continente.

 

LA DENUNCIA

 

Francesco Berardi, 50enne d’origine pugliese ed ex di Lotta Continua, arriva all’Italsider nel 1956. Fragile, insicuro e facilmente influenzabile, in fabbrica è soprannominato “il poeta della rivolta” per le sue liriche rivoluzionarie.

 

Rossa da tempo sospetta di lui, che definisce apertamente il PCI vero traditore della classe operaia e bolla il compromesso storico come un tradimento dell’ortodossia marxista-leninista. La presenza di fiancheggiatori in fabbrica è evidente: quando le BR sparano nel maggio 1978 al dirigente Liberti dimostrano di conoscere fin troppo bene l’Italsider.

 

Proprio Guido Rossa scopre il Berardi nell’atto di lasciare alcuni ciclostilati dietro la macchina del caffè…il loro contenuto è inequivocabile: “Attaccare il disegno controrivoluzionario del capitalismo nazionale nel suo cuore: la fabbrica. Sviluppare la lotta armata nel cuore della produzione costruendo a partire dalla fabbrica il partito comunista combattente e gli organismi rivoluzionari di massa”.

 

Tra gli operai del Consiglio di fabbrica prevale la posizione di Rossa mirata a catturare e denunciare Berardi. Una volta preso, c’è molta indecisione sul da farsi tra i delegati del Consiglio di fabbrica, gli operai e gli stessi sindacati (Cisl e Uil insistono per recuperare Berardi e occultare la vicenda). Rossa mantiene una linea rigorosa e intransigente, coraggiosa se consideriamo la cappa di piombo che gravava sull’Italia del tempo. Al comando dei carabinieri è sporta la denuncia ma, al momento della firma, operai e delegati si dileguano… resta solo Guido a mettere nero su bianco, dimostrando coerenza e senso di responsabilità.

 

La casa e l’armadietto all’Italsider di Berardi vengono perquisiti e gli investigatori trovano anche i volantini di rivendicazione delle BR per l’assassinio di Pietro Coggiola (dirigente della Lancia di Torino), oltre ai numeri di targa di molti dirigenti della fabbrica.

 

Rossa inizia a fiutare il pericolo del suo gesto ma rifiuta sia la pistola sia la scorta; al processo per direttissima (30/10/1978) il sindacalista è l’unico teste dell’accusa e conferma le dichiarazioni rese in istruttoria. Berardi è condannato a quattro anni e sei mesi, per Rossa inizia il calvario. Le BR diffondono il diario di lotta delle fabbriche genovesi Ansaldo e Italsider, 72 pagine in cui dichiarano guerra ai berlingueriani che praticano la delazione contro le avanguardie rivoluzionarie, reclamando la necessità di un salto di qualità nei livelli militari e politici. Resta ancora attuale il quesito che si pose Luciano Lama, il segretario della Cgil, nel giorno dei funerali di Rossa: “Se il gesto civile di Rossa non fosse stato troppo isolato; se attorno a lui si fosse formato un cemento per sorreggerlo; se tutta la fabbrica si fosse levata come un solo grande testimone, forse una vita non sarebbe stata spezzata”.

 

Dalle dinamiche dell’omicidio (il colpo fatale al cuore fu sparato da Dura, tornato sui suoi passi, dopo il ferimento alle gambe di Rossa) alle testimonianze (Gagliardo confermò in varie confessioni che Rossa doveva essere solo “gambizzato” e che fu Dura a decretare la necessità della morte per la “spia berlingueriana”) pare ormai accertato che il nucleo direttivo delle BR non voleva uccidere il sindacalista; poco dopo il delitto i terroristi rossi, temendo le gravi conseguenze politiche della vicenda, smentirono il loro coinvolgimento con due telefonate a “Il Secolo XIX”, mentre la sera del 25 gennaio un volantino a Sampierdarena attribuì l’agguato ad un nucleo armato vicino alle BR, costretto all’omicidio per l’ ”ottusa reazione” della vittima. Solamente il 6 febbraio furono trovati a Genova 200 volantini con la stella a cinque punte che rivendicavano l’agguato. Questo processo testimonia il disorientamento del gruppo di comando BR per la scelta autonoma e l’indisciplina di un componente del commando; nonostante ciò, per evitare spaccature interne, l’espulsione di Dura non fu decretata.

Sicuramente l’omicidio Rossa si rivelò controproducente per gli scopi delle BR; anche al proletariato, sbigottito per la barbara esecuzione di un compagno, apparve la vera natura del movimento terroristico, che nel suo “attacco al cuore dello Stato” non conosceva più limiti.

 

Il 26 febbraio 1983 la Corte d’Assise di Genova emise la sentenza contro 21 brigatisti imputati di sei omicidi (compreso quello di Rossa) compiuti nel capoluogo ligure tra il giugno 1978 e il gennaio 1980: furono comminate dieci condanne all’ergastolo e quattro condanne tra i 22 e i 26 anni di carcere, mentre sette imputati furono assolti.

Per quanto riguarda il commando genovese che uccise Rossa, Lorenzo Carpi è ancora latitante, Vincenzo Gagliardo, in carcere dal 1980, sta scontando la pena all’ergastolo, mentre Riccardo Dura è rimasto ucciso nel blitz condotto dalle teste di cuoio del generale Dalla Chiesa contro il covo BR di Via Fracchia, del 28 marzo 1980.

 

IL RICORDO

 

Il tentativo brigatista di conquistare ampi settori del proletariato per la realizzazione di un folle progetto politico, trovò una risposta eloquente nel giorno dei funerali di Rossa.  Tutta Genova si fermò in una triste giornata uggiosa e piovosa; tra le bandiere rosse del PCI e della CGIL, quelle abbrunate degli edifici pubblici, i segni della croce e i pugni chiusi, un mesto corteo di 250.000 persone, giunte da tutta Italia, sfilò per rendere omaggio all’uomo che sfidò le BR per la difesa delle istituzione democratiche e dei reali interessi del movimento operaio. Il Presidente della Repubblica Pertini, dopo aver pronunciato un memorabile discorso all’ Italsider in cui aveva definito i brigatisti dei miserabili che sparano contro gli operai, appuntò sul petto di Rossa la medaglia d’oro al valor civile, in quanto “mirabile esempio di spirito civico e di non comune coraggio spinti all’estremo sacrificio”.

 

Forte e polemico fu il discorso dell’ex-partigiano Gian Carlo Pajetta: “Hanno ammazzato un operaio, un comunista, un compagno, perché ha fatto il suo dovere di italiano e di comunista (…). C’è da interrogarsi se abbiamo fatto tutto il nostro dovere. Chi è responsabile di aver nascosto gli autonomi nei propri cortei? (…) Chi è responsabile di aver civettato con chiunque ha urlato contro il PCI, civettando a sua volta con i “compagni che sbagliano” del partito armato? Chiediamo in questo momento ad ognuno di avere il coraggio di riflettere, di assumersi la propria responsabilità politica. Chiediamo ad ogni cittadino di ricordare che il coraggio collettivo è fatto dalla somma del coraggio individuale”.

 

La morte di Rossa scatenò dibattiti e polemiche, specialmente all’interno del mondo della sinistra. Il giornalista Silavano Corsivieri si scagliò contro i nuovi slogan “Né con Rossa, né con le BR”, ribattendo che: “…I Guido Rossa che si fanno ammazzare per le loro idee, non hanno niente a che vedere con i servi del padrone. Sono operai d’avanguardia, pienamente coscienti e non marionette ottuse nelle mani di questo o quel dirigente revisionista”.

 

A 28 anni di distanza la vicenda Rossa mantiene ancora un valore per l’analisi e la ricostruzione storica degli anni di piombo. Nel 2006 la lungimiranza e la scelta di campo democratica dell’operaio-sindacalista ha ispirato il regista Giuseppe Ferrara, autore del film “Guido che sfidò le Brigate Rosse”.

 

Di recente pubblicazione anche il libro di Sabina Rossa: “Guido Rossa, mio padre”. La senatrice DS ricorda un padre presente e affettuoso, un uomo di forte spessore morale che credeva nei valori dell’uguaglianza e della solidarietà sociale, nella politica dei fatti concreti e della solidarietà. Un simbolo ancora attuale di chi ha saputo contrapporsi alla paura, in quei tempi dove non molti capivano qual’era la strada giusta da percorrere.

 

Nel suo libro Sabina ha ipotizzato l’esistenza di due livelli nelle BR; quello più alto e segreto, legato a Moretti, avrebbe incaricato Dura di uccidere all’insaputa degli altri. L’autrice lamenta anche la mancata realizzazione dei sogni del padre, ossia l’esistenza di una società più giusta, battendosi per la necessità di una legge di tutela per le vittime del terrorismo.

 

Secondo il Sindaco di Roma Walter Veltroni, per non cancellare la storia degli uomini come Guido Rossa: “Abbiamo bisogno di restituire la politica al suo valore più autentico, all’impegno disinteressato, alla passione ideale, alla voglia di pensare che la concretezza delle piccole cose, dei piccoli gesti di ognuno di noi, possa davvero cambiare il mondo”.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

G. Feliziani: “Colpirne uno educarne cento: la storia di Guido Rossa”, Arezzo, Limina, 2004

G. Fasanella, S. Rossa: “Guido Rossa, mio padre”, Bur, 2006

 



 

 

 

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