SULLE Guerre "legittime"
Mutamenti dell'ideologia bellica
nell’Europa moderna
di Francesco
Biscardi
In questi ultimi mesi stiamo
assistendo a martellanti dibattiti
sulla liceità/necessità o meno di
aumentare, un po’ in tutti i Paesi
europei, le spese militari a un 5%
dei Pil nazionali, a causa di
presunte minacce alla sicurezza e
all’indipendenza di tali Stati. Non
pochi politologi, intellettuali ed
esperti di geopolitica lamentano
come simile politica di “riarmo” non
sia altro che un escamotage
per investire in industrie
meccaniche e manifatturiere in crisi
o per sostenere apparati bellici e
mercati delle armi, adombrando
interessi economici dietro simili
timori.
In siffatti momenti di incertezza
riflettere sulla guerra in un arco
cronologico che si suole definire
“preindustriale” offre vari spunti
per tentare di comprendere talune
caratteristiche proprie anche della
contemporaneità: i legami fra guerra
e politica, fra guerra e tecnologia,
fra guerra e consenso, fra guerra ed
economia... Non a caso, è durante
l’Età moderna che si scorge la
costruzione del moderno concetto di
“Stato”, proprio quando, nel
contempo, furono introdotte
importanti innovazioni sia nelle
tecniche che nel modo di condurre i
conflitti.
In tale periodo, infatti, l’Europa
cambiò modo di combattere: le armi
da fuoco diventarono più efficienti,
si passò dall’archibugio al
moschetto e alla baionetta, le
fortificazioni furono perfezionate e
irrobustite, gli eserciti crebbero
in dimensioni, passando da
prevalenti milizie mercenarie a
reparti allineati e disciplinati,
mentre sul mare le galee lasciarono
il posto a velieri e vascelli con
centinaia di cannoni. Ovunque
servirono uomini addestrati,
materiali di qualità e ogni apparato
bellico richiesto dai tempi,
saldando così il legame fra guerra,
economia e politica, assurgendo la
prima ad “affare di Stato”, e
spingendo alla stesura di notevoli
testi sull’argomento: trattati,
carteggi, testimonianze
autobiografiche e riflessioni di
vario genere.
Sorvolando sui progressi bellici, è
qui interessante soffermarsi su un
momento in cui qualcosa iniziò a
cambiare nel modo di vedere i
conflitti. Infatti, grossomodo fra
Sei e Settecento, prese corpo l’idea
di concepire la necessaria esistenza
di un diritto internazionale
comunemente accettato e di guerre
“legittime” solo se combattute fra
“pari”, ovvero fra Stati sovrani.
Mentre durante il Medioevo, fino
alle soglie del XVII secolo, aveva
dominato la giustificazione della
necessità bellica con il concetto di
“guerra giusta”, risalente a
Sant’Agostino, secondo cui alcuni
conflitti potevano essere ritenuti
necessari per volere divino (come
quelli presenti nelle Sacre
Scritture per il bene del popolo
ebraico). In aggiunta, sin dai tempi
del primo cristianesimo, era stata
usata l’espressione “milites Christi”
per designare i martiri e chi
rifuggiva il mondo per chiudersi in
contemplazione ascetica, come i
monaci, dopodiché, a iniziare dal
pontificato di Gregorio VII nell’XI
secolo, furono aggiunte locuzioni
quali “militia Christi” per indicare
coloro che combattevano per una
“giusta causa” individuata dalla
Chiesa, e l’idea di una “guerra
giusta” trovò piena attuazione nelle
crociate e nelle guerre condotte
contro non solo gli “infedeli”, ma
in generale contro ogni nemico
additato come tale dalla Santa Sede.
A completare il quadro, le guerre
che susseguirono alla Riforma
protestante e alle scissioni che si
ebbero nella Cristianità,
comportarono una giustificazione in
chiave religiosa, in pratica, di
quasi tutti i conflitti che
imperversarono in Occidente fino
alla Guerra dei trent’anni
(1618-48), sovente salutata come
l’ultimo degli scontri religiosi.
Certo è sempre opportuno
relativizzare i motivi “sacri”
quando si parla di guerre, in quanto
gli stessi sono perlopiù pretestuosi
e celanti più importanti interessi
politici, strategici ed economici.
Tuttavia, è fuori di dubbio che la
religione sia anche uno “strumento
di governo” e che in passato, come
del resto anche in talune
circostanze contemporanee, anche la
fede sia stata protagonista di vari
conflitti.
Fu comunque nel periodo susseguente
la pace di Westfalia del 1648, a
chiusura della sopraccitata Guerra
dei trent’anni, che la guerra
divenne compiutamente un “affare di
Stato”. Già Machiavelli e
Guicciardini avevano confinato la
guerra ad una dimensione prettamente
“laica”, poi Alberico Gentili, nel
De Jure Belli del 1588, aveva
ragguagliato su come essa fosse da
considerarsi giusta e legittima non
se portata avanti in nome di Dio,
bensì se condotta fra Stati sovrani,
legittimando un “recursus ad arma”
per una propria necessità di difesa
o per ristabilire una pace interna
precedentemente negata.
Successivamente teorici come Samuel
von Pufendorf, Cornelis van
Bynkershoek, Hugo Grozio, Emerich de
Vattel e Raimondo Montecuccoli,
seppur affrontando diverse questioni
e, ciascuno, con sfumature di
ragionamento differenti,
perfezionarono tale visione della
guerra come laica e legittima quando
condotta da autorità sovrane, da
organi politici egualmente
indipendenti. Furono, di contro,
considerate illegittime e criminose
le azioni belliche di pirati,
briganti, ribelli e gruppi di
privati.
Ad accomunare la gran parte dei
teorici dell’arte della guerra
secenteschi e primo settecenteschi
fu proprio l’idea che l’etica e la
religione non dovevano trovare
spazio negli affari bellici, sulla
linea dell’esistenza di una “ragion
di Stato” il cui teorico fondatore è
generalmente considerato
Machiavelli.
In particolare, Grozio (1583-1645),
nel De Iure Belli ac Pacis
del 1625, contribuì ad una
sistematizzazione teorica che può
essere presa a fondamento del
nascente diritto internazionale
quale insieme di regolamenti
accettati da tutti gli Stati
cristiano-occidentali. Nell’opera,
fra le asserzioni più importanti, vi
sono princìpi come la condanna
dell’attacco preventivo fra Stati
sovrani solo dietro pretesto di
minaccia di aggressione o di
crescita in potenza del rivale,
mentre si reputa legittima una
guerra, dopo aver tentato ogni via
pacifica, resasi necessaria per
respingere un attacco, una
violazione del diritto
internazionale, o se condotta in
risposta ad una grave violazione. Il
giurista fu altresì conscio
dell’importanza della neutralità, e
sottolineò come fosse opportuno
astenersi dal sostenere una fazione,
se non coinvolti direttamente.
Maggior concretezza e lucidità fu
poi espressa da Carl von Clausewitz
(1780-1831), forse il più importante
teorico dell’arte militare d’epoca
moderna, il quale magistralmente
concettualizzò il nesso
guerra-politica, evidenziando come
la prima sia la prosecuzione della
seconda “con altri mezzi”: si arriva
al confronto bellico quando non vi
risulta essere più spazio per la
diplomazia. Nel più importante libro
della sua opera Sulla guerra,
l’VIII, scrisse penetranti parole
che dovrebbero far riflettere ancora
oggi: "Nella
moltitudine degli staterelli
medievali, l’interesse immediato e
naturale, la prossimità, il
contatto, i vincoli di parentela, le
reciproche conoscenze personali
avevano impedito a ciascun individuo
di ingrandirsi rapidamente[...]. Gli
interessi politici, le simpatie e le
antipatie avevano finito [nei
secoli] con lo svilupparsi a sistema
raffinato, si che non si poteva più
sparare un colpo di cannone senza la
partecipazione di tutti i
Gabinetti".
In poche parole, la guerra,
argomentava Clausewitz, da faccenda
interessante pochi individui e regni
di piccole dimensioni, si era
trasformata in un grande affare di
Stato, coinvolgente ogni Gabinetto,
ogni ministero di governi sempre più
complessi, mentre era sempre più
strettamente interrelata
all’economia.
Anche se, nel dettaglio, alcune idee
dei pensatori moderni possono
apparire contraddittorie e non
esenti da rilievi, sono comunque
importanti per capire come la guerra
sia, per quanto possa essere triste
dirlo, una normalità: è una delle
prime industrie della società,
sempre presente nella lunga storia
umana, una costante, sempre in grado
di assorbire immense risorse
finanziarie, materiali e umane.
I caratteri e le modalità dei
conflitti, intrecciandosi con le
ragioni del commercio e della
politica economica degli Stati, si
sono rivelati così complessi da
spiegare come mai, sia ieri che
oggi, appaia difficile scindere
l’idea di una guerra ingiusta e
illegittima da una giusta e
legittima, ammesso che davvero ci
possa essere una “ragione” in guerra
e che l’unica verità non sia
sintetizzabile nel principio
espresso nel Cinquecento da Erasmo
da Rotterdam: “dulce bellum
inexpertis”, ovvero “la guerra è
piacevole solo per chi non la
conosce”.
Riferimenti bibliografici:
Bianchi P., Del Negro P. (a cura
di), Guerre ed eserciti nell’età
moderna, Il Mulino, Bologna,
2018.
Brunelli G., La guerra in età
moderna, Laterza, Bari, 2021.
Cardini F., Quell’antica festa
crudele. Guerra e cultura della
guerra dal Medioevo alla Rivoluzione
francese, Il Mulino, Bologna,
2013.
Di Rienzo E., Il diritto delle
armi. Guerra e politica nell’Europa
moderna, FrancoAngeli, Milano,
2005.
Von Clausewitz C., Della guerra,
a cura di Rusconi G.E., Einaudi,
Torino, 2000.