SULLA GUERRA SOCIALE
QUANDO L'ITALIA DIVENNE ROMANA
di Federica
Campanelli
Così come Roma non fu fatta in un
giorno, anche il “popolo romano” è
stato il risultato di un lungo
processo fatto di incontri, scontri
e lenta integrazione di realtà
etniche diverse tra loro. Tappa
fondamentale di tale processo fu la
“Guerra Sociale” (91-88 a.C.), in
cui la Res Publica dovette
vedersela con i suoi vicini più
prossimi, gli Italici, una
moltitudine di popoli già suoi
alleati e sfruttati fino all’osso,
ma ancora privi della cittadinanza
romana . Finché, stanchi di subire
lo strapotere di Roma, questi
imbracciarono le armi con un intento
comune: diventare parte attiva della
vita sociale e politica dell’Urbe.
In altre parole, diventare “Romani”.
Mosaico italico
Quando, a partire dal IV secolo
a.C., Roma iniziò a estendere il suo
dominio sull’Italia antica, si
ritrovò a che fare con un complesso
mosaico di entità culturali e
territoriali. Man mano che tali
comunità cadevano sotto la sua
egemonia, la Repubblica romana
imponeva loro, in base ai propri
interessi, rapporti di vario genere
e grado, che andavano
dall’annessione diretta alla
colonizzazione fino alla
“federazione”. Quest’ultima era la
tipica formula di sottomissione
riservata ai popoli Italici, che per
tale motivo erano detti foederati
o socii (“alleati”), da cui
l’epiteto “sociale” dato al
conflitto che stava per funestare la
penisola. Se sulla carta i socii
Italici mantenevano l’indipendenza,
di fatto subivano l’ingerenza di
Roma senza godere di alcun
vantaggio. Sin dai tempi delle
guerre annibaliche (III-II secolo
a.C.), essi erano tenuti a fornire
nutriti contingenti militari
all’esercito romano, e proprio la
loro presenza consentì a Roma di
espandersi con successo. In cambio
gli alleati non ottenevano nulla,
erano anzi stremati da una pesante
tassazione e non potevano avvalersi
di alcuna rappresentanza politica
nelle assemblee legislative. Ora,
però, volevano giustamente godere
degli stessi diritti di ogni romano.
«Gli alleati erano furiosi. La loro
presenza nelle armate di Roma andava
crescendo da tempo, ma per contro
gli si continuava a chiedere di
pagare, attraverso il loro
stipendium, imposte da cui i
cittadini romani erano invece stati
esentati», conferma Giovanni Brizzi,
professore di Storia romana presso
l’Università di Bologna.
Tensione crescente
Giunto il I secolo a.C., la
situazione divenne insostenibile.
«L’Urbe continuava ostinatamente a
negare ogni allargamento della
cittadinanza, ignorando inoltre gli
abusi dei suoi magistrati verso le
genti italiche», continua Brizzi. Fu
così che, nel 91 a.C., il tribuno
Marco Livio Druso, presentando in
Senato alcuni provvedimenti a
carattere “popolare”, riportò
nell’agenda politica la scottante
questione degli alleati italici.
«Druso intendeva rendere giustizia
ai socii, e a tale scopo propose di
offrire loro la piena cittadinanza
e, con essa, la parità di diritti
con i romani», spiega l’esperto. La
sua proposta, com’era prevedibile,
non fu presa in considerazione, e
nello stesso anno il tribuno venne
assassinato da un misterioso
sicario.
Italia contro Roma
Eliminato Druso dalla scena
politica, agli alleati non rimaneva
che cavarsela da soli. Decisero
quindi di unire le proprie forze e
organizzarsi in un’estesa
coalizione: la Lega Italica. Spina
dorsale ne erano i Marsi e i
Sanniti, presto affiancati da Piceni,
Vestini, Peligni, Marrucini,
Frentani, Iapigi e Lucani, ai quali
diedero supporto anche gli abitanti
dell’antica Venosia (in Basilicata)
e di Pompei. Per portare avanti
l’insurrezione, la Lega si diede un
carattere politicamente unitario,
dotandosi di una capitale dove fu
insediato il Senato. La scelta cadde
su Corfinium, in Abruzzo,
ribattezzata con l’emblematico nome
di Italica. Gli alleati iniziarono
inoltre a coniare una propria
moneta, dove si riscontra la prima
testimonianza scritta della parola
“Italia” e in cui era presente la
provocatoria immagine del toro,
simbolo sannita, nell’atto di
incornare la lupa capitolina. Per
quanto riguarda le forze armate, la
Lega era pronta a combattere il
potere di Roma con un esercito di
oltre 100.000 uomini. La
dichiarazione di guerra arrivò nel
91 a.C. con un documento firmato da
delegati Marsi, motivo per cui la
Guerra Sociale sarà anche detta “Marsica”.
Al fianco di Roma rimasero l’Umbria,
l’Etruria, le colonie greche del Sud
e alcuni importanti centri come
Napoli, Nola, Taranto e Reggio. La
miccia esplose una sera del 90 a.C.
ad Ascoli, quando, durante
un’insurrezione popolare, tutti i
cittadini romani presenti furono
uccisi. La cosa scatenò ovviamente
l’ira dell’Urbe, e la guerra dei
socii ebbe di fatto inizio.
In guerra
I confederati italici schierarono le
loro armate su due principali aree
della penisola, una a settentrione
(tra Piceno e Marsica), capeggiata
dal generale marsico Poppedio
Silone, l’altra a meridione (tra
Sannio e Campania), con alla testa
il sannita Papio Mutilo. «Roma, in
preda all’incredulità, fu così
costretta a battersi su due fronti
contro un organismo modellato in
tutto e per tutto a sua immagine,
non solo nell’apparato militare, ma
anche nelle strutture politiche»,
riprende Brizzi. La Repubblica, che
oltre a schierare i veterani dovette
ricorrere all’arruolamento di nuove
leve, si avvalse di abili generali
del calibro di Pompeo Strabone, Caio
Mario e soprattutto Lucio Cornelio
Silla, attivo sul fronte
meridionale. L’andamento del
conflitto fu alterno e molto
violento, e nel corso dei primi
quattro mesi le forze italiche
prevalsero su quelle romane. Tale
circostanza fece tentennare alcune
comunità fino a quel momento rimaste
neutrali o vicine all’Urbe, le quali
rischiavano adesso di essere
trascinate nel gorgo
dell’insurrezione. Per evitare
quindi che i ribelli si
moltiplicassero, nel 90 a.C. – nel
bel mezzo del conflitto – il console
Lucio Giulio Cesare propose la
Lex Iulia, con la quale si
concedeva la piena cittadinanza a
tutti coloro che fossero rimasti
fedeli a Roma.
Vittoria morale
«Con tali concessioni, Roma aveva
bloccato il possibile estendersi
della rivolta», sottolinea Brizzi,
«ma non bastava ancora». Erano
necessarie ulteriori espedienti che
sfaldassero definitivamente la lega
ribelle. Roma aveva capito come
ribaltare le cose a suo favore: così
all’inizio del 89 a.C. fu varata la
Lex Plautia Papiria, che
concedeva la cittadinanza a tutti i
domiciliati a sud del Po, a patto
che ne facessero formale richiesta.
Poi arrivò anche la Lex Pompeia,
riguardante le comunità dell’Italia
transpadana. «Era davvero la fine:
tale misura provocò infatti
un’emorragia tra le fila degli
insorti, anche se alcune bande di
ribelli proveranno a tenere viva la
resistenza sui monti del Sannio e
della Lucania», riprende l’esperto.
Lo scontro volgeva adesso favore dei
romani. In seguito a queste mosse
politiche, furono molte le città
italiche ad arrendersi, e il resto
lo fecero le armi: nell’arco di un
anno ogni focolaio di rivolta poté
dirsi soppresso. Gli ultimi
irriducibili furono i Sanniti, che
avevano presieduto la rivolta in
tutto il Sud del paese, ma nell’88
a.C. anch’essi cedettero all’abilità
e alla ferocia del generale Silla,
la cui mossa decisiva fu l’assedio
di Nola. Si concluse così la guerra
dei socii, il cui esito fu di
fatto una vittoria “morale” per gli
italici, che ottennero ciò che
volevano, cioè diventare romani. Ma
fu ancor più un trionfo per Roma,
che seppe fare di un casus belli, la
concessione della cittadinanza, un
nuovo strumento per ottenere
consenso e consolidare il proprio
potere.