[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 211 / LUGLIO 2025 (CCXLII)


antica

SULLA GUERRA SOCIALE
QUANDO L'ITALIA DIVENNE ROMANA
di Federica Campanelli

 

Così come Roma non fu fatta in un giorno, anche il “popolo romano” è stato il risultato di un lungo processo fatto di incontri, scontri e lenta integrazione di realtà etniche diverse tra loro. Tappa fondamentale di tale processo fu la “Guerra Sociale” (91-88 a.C.), in cui la Res Publica dovette vedersela con i suoi vicini più prossimi, gli Italici, una moltitudine di popoli già suoi alleati e sfruttati fino all’osso, ma ancora privi della cittadinanza romana . Finché, stanchi di subire lo strapotere di Roma, questi imbracciarono le armi con un intento comune: diventare parte attiva della vita sociale e politica dell’Urbe. In altre parole, diventare “Romani”.


Mosaico italico

 

Quando, a partire dal IV secolo a.C., Roma iniziò a estendere il suo dominio sull’Italia antica, si ritrovò a che fare con un complesso mosaico di entità culturali e territoriali. Man mano che tali comunità cadevano sotto la sua egemonia, la Repubblica romana imponeva loro, in base ai propri interessi, rapporti di vario genere e grado, che andavano dall’annessione diretta alla colonizzazione fino alla “federazione”. Quest’ultima era la tipica formula di sottomissione riservata ai popoli Italici, che per tale motivo erano detti foederati o socii (“alleati”), da cui l’epiteto “sociale” dato al conflitto che stava per funestare la penisola. Se sulla carta i socii Italici mantenevano l’indipendenza, di fatto subivano l’ingerenza di Roma senza godere di alcun vantaggio. Sin dai tempi delle guerre annibaliche (III-II secolo a.C.), essi erano tenuti a fornire nutriti contingenti militari all’esercito romano, e proprio la loro presenza consentì a Roma di espandersi con successo. In cambio gli alleati non ottenevano nulla, erano anzi stremati da una pesante tassazione e non potevano avvalersi di alcuna rappresentanza politica nelle assemblee legislative. Ora, però, volevano giustamente godere degli stessi diritti di ogni romano. «Gli alleati erano furiosi. La loro presenza nelle armate di Roma andava crescendo da tempo, ma per contro gli si continuava a chiedere di pagare, attraverso il loro stipendium, imposte da cui i cittadini romani erano invece stati esentati», conferma Giovanni Brizzi, professore di Storia romana presso l’Università di Bologna.


Tensione crescente

 

Giunto il I secolo a.C., la situazione divenne insostenibile. «L’Urbe continuava ostinatamente a negare ogni allargamento della cittadinanza, ignorando inoltre gli abusi dei suoi magistrati verso le genti italiche», continua Brizzi. Fu così che, nel 91 a.C., il tribuno Marco Livio Druso, presentando in Senato alcuni provvedimenti a carattere “popolare”, riportò nell’agenda politica la scottante questione degli alleati italici. «Druso intendeva rendere giustizia ai socii, e a tale scopo propose di offrire loro la piena cittadinanza e, con essa, la parità di diritti con i romani», spiega l’esperto. La sua proposta, com’era prevedibile, non fu presa in considerazione, e nello stesso anno il tribuno venne assassinato da un misterioso sicario.


Italia contro Roma

 

Eliminato Druso dalla scena politica, agli alleati non rimaneva che cavarsela da soli. Decisero quindi di unire le proprie forze e organizzarsi in un’estesa coalizione: la Lega Italica. Spina dorsale ne erano i Marsi e i Sanniti, presto affiancati da Piceni, Vestini, Peligni, Marrucini, Frentani, Iapigi e Lucani, ai quali diedero supporto anche gli abitanti dell’antica Venosia (in Basilicata) e di Pompei. Per portare avanti l’insurrezione, la Lega si diede un carattere politicamente unitario, dotandosi di una capitale dove fu insediato il Senato. La scelta cadde su Corfinium, in Abruzzo, ribattezzata con l’emblematico nome di Italica. Gli alleati iniziarono inoltre a coniare una propria moneta, dove si riscontra la prima testimonianza scritta della parola “Italia” e in cui era presente la provocatoria immagine del toro, simbolo sannita, nell’atto di incornare la lupa capitolina. Per quanto riguarda le forze armate, la Lega era pronta a combattere il potere di Roma con un esercito di oltre 100.000 uomini. La dichiarazione di guerra arrivò nel 91 a.C. con un documento firmato da delegati Marsi, motivo per cui la Guerra Sociale sarà anche detta “Marsica”. Al fianco di Roma rimasero l’Umbria, l’Etruria, le colonie greche del Sud e alcuni importanti centri come Napoli, Nola, Taranto e Reggio. La miccia esplose una sera del 90 a.C. ad Ascoli, quando, durante un’insurrezione popolare, tutti i cittadini romani presenti furono uccisi. La cosa scatenò ovviamente l’ira dell’Urbe, e la guerra dei socii ebbe di fatto inizio.


In guerra

 

I confederati italici schierarono le loro armate su due principali aree della penisola, una a settentrione (tra Piceno e Marsica), capeggiata dal generale marsico Poppedio Silone, l’altra a meridione (tra Sannio e Campania), con alla testa il sannita Papio Mutilo. «Roma, in preda all’incredulità, fu così costretta a battersi su due fronti contro un organismo modellato in tutto e per tutto a sua immagine, non solo nell’apparato militare, ma anche nelle strutture politiche», riprende Brizzi. La Repubblica, che oltre a schierare i veterani dovette ricorrere all’arruolamento di nuove leve, si avvalse di abili generali del calibro di Pompeo Strabone, Caio Mario e soprattutto Lucio Cornelio Silla, attivo sul fronte meridionale. L’andamento del conflitto fu alterno e molto violento, e nel corso dei primi quattro mesi le forze italiche prevalsero su quelle romane. Tale circostanza fece tentennare alcune comunità fino a quel momento rimaste neutrali o vicine all’Urbe, le quali rischiavano adesso di essere trascinate nel gorgo dell’insurrezione. Per evitare quindi che i ribelli si moltiplicassero, nel 90 a.C. – nel bel mezzo del conflitto – il console Lucio Giulio Cesare propose la Lex Iulia, con la quale si concedeva la piena cittadinanza a tutti coloro che fossero rimasti fedeli a Roma.


Vittoria morale

 

«Con tali concessioni, Roma aveva bloccato il possibile estendersi della rivolta», sottolinea Brizzi, «ma non bastava ancora». Erano necessarie ulteriori espedienti che sfaldassero definitivamente la lega ribelle. Roma aveva capito come ribaltare le cose a suo favore: così all’inizio del 89 a.C. fu varata la Lex Plautia Papiria, che concedeva la cittadinanza a tutti i domiciliati a sud del Po, a patto che ne facessero formale richiesta. Poi arrivò anche la Lex Pompeia, riguardante le comunità dell’Italia transpadana. «Era davvero la fine: tale misura provocò infatti un’emorragia tra le fila degli insorti, anche se alcune bande di ribelli proveranno a tenere viva la resistenza sui monti del Sannio e della Lucania», riprende l’esperto. Lo scontro volgeva adesso favore dei romani. In seguito a queste mosse politiche, furono molte le città italiche ad arrendersi, e il resto lo fecero le armi: nell’arco di un anno ogni focolaio di rivolta poté dirsi soppresso. Gli ultimi irriducibili furono i Sanniti, che avevano presieduto la rivolta in tutto il Sud del paese, ma nell’88 a.C. anch’essi cedettero all’abilità e alla ferocia del generale Silla, la cui mossa decisiva fu l’assedio di Nola. Si concluse così la guerra dei socii, il cui esito fu di fatto una vittoria “morale” per gli italici, che ottennero ciò che volevano, cioè diventare romani. Ma fu ancor più un trionfo per Roma, che seppe fare di un casus belli, la concessione della cittadinanza, un nuovo strumento per ottenere consenso e consolidare il proprio potere.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]