[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

168 / DICEMBRE 2021 (CXCIX)


moderna

DA GUASTALLA ALL’ASSIETTA

LE FORZE ITALIANE E LE GUERRE DI SUCCESSIONE EUROPEE

di Lorenzo Lena

 

Le forze armate piemontesi e quelle unitarie loro eredi non hanno grande fama nella storiografia militare. Una rappresentazione in parte immeritata dovuta alle prestazioni sul campo e, soprattutto, alle impostazioni politico-strategiche a monte. È facile richiamare la disastrosa partecipazione alla Seconda guerra mondiale e le spallate carsiche della Prima, il disastro africano di Adua e quelli nostrani di Custoza e Lissa. Prove di una grave mancanza di pianificazione e organizzazione, punteggiata di isolate imprese eroiche ormai sospese tra totale oblio e nostalgismo.

 

Le prime fondamenta di alcuni problemi portati fino al Novecento possono intravedersi negli albori della storia regia, dopo quel 1720 in cui ai duchi di Torino venne consegnata la corona di Sardegna, quando furono combattute due battaglie testimoni delle qualità, raramente espresse a fondo, di un piccolo e solido esercito, ben guidato sul terreno.

 

Guastalla (1734) e l’Assietta (1747) sono anche prova della diplomazia sabauda, mai attestata in stabili alleanze, specie con l’ingombrante vicino francese, ma di volta in volta alla ricerca dell’equilibrio nella regione per conservare quella libertà di iniziativa che, al culmine sotto Carlo Emanuele III, andrà calando in cinquant’anni di staticità fino alla tempesta napoleonica, apripista di un Risorgimento imperfetto condotto da un imperfetto apparato militare.

 

Il contesto: le successioni ai troni europei

 

La cornice in cui si mosse l’Armata sarda fu quella delle guerre di successione del Settecento, quella polacca (1733-1738) e quella austriaca (1740-1748). Meno conosciute della precedente guerra di successione spagnola (1701-1713), che aveva visto l’allora ducato protagonista durante gli assedi di Torino, ne rispecchiarono i medesimi ideali e gli stessi strumenti militari tipici di quello che sarà spregiativamente chiamato Ancien Regime.

 

Nel 1733 il trono di Polonia venne conteso tra Federico Augusto III, figlio del defunto sovrano, e Stanislaw Leczynski, sostenuto dalla Francia. L’erede trovò l’appoggio di Russia e Austria. Il fatto che il regno di Sardegna, fino al 1720 regno di Sicilia e prima ducato di Savoia, fosse corteggiato da questi giganti evidenzia la portata europea del conflitto, sembra destino della Polonia scatenare guerre continentali, e il valore strategico del nord-ovest italiano, tra Spagna, Francia e Impero.

 

La vittoria del candidato austriaco fu magra consolazione per una redistribuzione territoriale che, in particolare nella penisola, vide aumentare l’influenza franco-sabauda. La nuova alleanza (trent’anni prima i Savoia erano alleati all’Impero e i francesi assediavano Torino) occupò l’intera Lombardia ma venne fatta ritirare per timore di un’egemonia piemontese nel nord Italia.

 

Leczynski ottenne la Lorena il cui signore, Francesco d’Asburgo, fu ricompensato con la Toscana. Il regno di Napoli passò ai Borbone di Spagna. Per l’Austria un disastro. Per il regno di Sardegna la certificata statura militare e, in prospettiva, i primi guai sul terreno diplomatico (dovettero passare 120 anni per riavere Milano).

 

Due anni dopo, morto l’imperatore Carlo VI, sua figlia Maria Teresa divenne imperatrice sulla base della Prammatica sanzione, scatenando le pretese di altri candidati e le mire di Federico II di Prussia sulla regione mineraria della Slesia. Anche Francia, Spagna e Napoli approfittarono della debolezza imperiale, minacciando Torino in una morsa borbonica da ogni direzione.

 

Per questo motivo Carlo Emanuele III rovesciò ancora una volta le alleanze e la Francia, nemica a inizio secolo e alleata due anni prima, tornò avversaria e iniziò l’invasione del Piemonte, prima inarrestabile e poi ricacciata dalla controffensiva piemontese-imperiale.

 

Dopo otto anni, la guerra si concluse con un’Austria stremata, al pari della Francia, e un odio perpetuo tra Maria Teresa e Federico di Prussia. Parigi e Vienna, entrambe concentrate sul nascente dinamismo militare di Berlino, decisero di congelare il fronte italiano con una serie di trattati in cui sarà legata anche la Spagna (Aquisgrana e Aranjuez) e che si vedranno avere un disastroso effetto sullo sviluppo del regno di Sardegna come potenza politica e militare.

 

Quale esercito, quali battaglie

 

Gli eserciti del Settecento europeo presentavano caratteristiche simili per tattica e composizione. Suddivisi in battaglioni di fanteria e reggimenti di cavalleria, a volte istituiti su iniziativa degli stessi nobili che ne assumevano il comando, formati da soldati professionisti rafforzati da un certo numero di mercenari, coordinati con reparti d’artiglieria e sostenuti dal genio militare. Il comando veniva affidato per estrazione sociale, ma non per questo mancarono personalità di spessore e autentiche leggende come Eugenio di Savoia, arrivato al vertice assoluto delle armate imperiali.

 

Le armi standard erano il moschetto a pietra focaia, più affidabile della versione a miccia, sciabola e pistola per i cavalieri. La tattica più efficace prevedeva il movimento in colonna, per una maggiore rapidità di spostamento, poi lo schieramento in linea per sviluppare il massimo volume di fuoco in combattimento. Manovre complesse, portate ai massimi livelli dall’esercito prussiano e variamente impiegate negli altri paesi. All’Assietta, la scelta francese di attaccare in colonna diede alla difesa piemontese un vantaggio decisivo.

 

L’esercito sardo era il più piccolo tra le potenze europee ma, come nel Risorgimento, il più solido nello scenario italiano. All’attivo portava esperienze positive, la partecipazione alla guerra di successione spagnola, e negative nella guerra di Sicilia (1717-1720) occupata dagli spagnoli, riconquistata dagli inglesi e tolta ai Savoia in cambio della Sardegna. Non esistevano i reparti più noti in seguito, carabinieri e bersaglieri, costituiti nell’Ottocento, né quei reparti leggeri comunemente usati per infastidire e disperdere le formazioni avversarie, che all’epoca iniziavano appena a comparire e in Italia furono comunque visti con un misto di sospetto e disprezzo, preferendo la rassicurante regolarità delle formazioni inquadrate.

 

La guerra del Settecento era fondamentalmente rigida, impostata su schemi all’apparenza immutabili. Fu con queste caratteristiche che le forze piemontesi si presentarono ai due conflitti continentali e diedero prova di sé a Guastalla e tredici anni dopo sull’Assietta.

 

Nel primo caso a guidare l’esercito si trovò Carlo Emanuele in persona, una tradizione di sovrano combattente che nel Settecento avrebbe iniziato a scemare. Il contesto era quello dell’avanzata franco-piemontese in territorio lombardo, che portò in poco tempo all’occupazione di Milano con la cacciata degli imperiali. Dopo una serie di scontri interlocutori, gli alleati si attestarono a Guastalla vicino al Po (oggi in Emilia-Romagna) e subirono la controffensiva asburgica respingendola con successo. Nello scontro, molto cruento, trovò la morte alla testa della cavalleria imperiale il principe Luigi del Wurttemberg. Lo scenario nord italiano non subì ulteriori modifiche, con il conflitto a proseguire stancamente nel meridione e in territorio tedesco.

 

La conclusiva risistemazione di cui già si è detto lasciò scontenti i piemontesi, il cui peso diplomatico non fu proporzionale alla prestazione bellica, che si videro sottrarre le conquiste più rilevanti in nome della stabilità europea, a dispetto degli accordi francesi di inizio conflitto. La prestazione delle armi sabaude, nel limitato scenario in cui furono impiegate, impose a ogni modo Torino come perno strategico nella regione, in grado di giostrarsi tra le grandi potenze da cui era attorniata.

 

Una situazione analoga si presentò due anni dopo, quando l’intera Europa si coalizzò contro Vienna, cui andò l’appoggio indiretto delle sole Inghilterra e Olanda. Il rischio di vedersi circondare dai Borbone su ogni fronte spinse i Savoia a quei cambi di alleanze che li hanno contraddistinti, ma che in effetti si impongono a ogni piccola potenza in scenari troppo più ampi delle risorse disponibili.

 

A quasi quattro anni dall’inizio del conflitto Carlo Emanuele si schierò a fianco dell’Austria, subendo l’inevitabile e immediata invasione francese trasformatasi in tre anni di guerra sul territorio del regno di Sardegna, con le maggiori città perse e riconquistate dalle armate austro-piemontesi. Nell’estate 1747, una seconda offensiva francese puntò direttamente su Torino per spingere i Savoia fuori dalla guerra. Il comandante francese, conte di Belleisle, poté schierare un esercito più numeroso, circa trentamila uomini, muovendolo sulle creste d’alta quota per aggirare le fortificazioni a valle.

 

Il comandante piemontese, Giovanbattista Cacherano di Bricherasio, schierò i suoi sei o settemila tra sabaudi e austriaci su linee progressive in posizione sopraelevata, per sterilizzare l’inferiorità numerica. Lo scontro, che per casualità fu l’ultima grande vittoria di un esercito italiano fino alla conquista di Gorizia nel 1916, è stato glorificato in epoca risorgimentale ma fu effettivamente una piena vittoria ottenuta anche, come detto, per gli errori nella manovra francese, che offrirono ottimi bersagli ai difensori. Belleisle morì in battaglia, guidando una carica. La guerra si concluse l’anno dopo, ancora con il regno di Sardegna tra i vincitori ma, ancora, incapace di dare sbocco diplomatico ai successi militari. Questa volta con conseguenze, in prospettiva, disastrose.

 

Conseguenze

 

Con la stabilizzazione degli anni Cinquanta del XVIII secolo, il contesto italiano perse di rilevanza. Il regno di Napoli rimase ai Borbone di Spagna, il ramo napoletano acquisì in seguito autonomia, lo Stato pontificio si mantenne neutrale tra potenze cattoliche distanti dai suoi confini, il territorio dalla Toscana alla Lombardia al Veneto rimase saldamente austriaco, mentre il piccolo Piemonte si ritrovò intrappolato tra le massime potenze continentali.

 

Esattamente lo scenario che si era cercato di evitare combattendo al fianco di Vienna, per mantenere dinamico il contesto dell’Italia settentrionale in cui i Savoia miravano a ricoprire ruoli determinanti. Il fulcro europeo, da un punto di vista politico e militare, era definitivamente passato sul Reno con l’emergere del militarismo prussiano come forza dominante. Nei successivi due secoli, fino al 1945, la combattività franco-prussiana avrebbe scatenato quattro guerre, senza contare i conflitti interni all’epoca napoleonica. Nel 1756, all’inizio della guerra dei sette anni, il territorio italiano non venne coinvolto e i Savoia rimasero tagliati fuori da ogni riequilibrio di potenza, senza che la loro diplomazia potesse esprimersi.

 

In cinquant’anni di forzata neutralità, i soldati piemontesi rimasero inerti spettatori dell’evoluzione militare europea accumulando un ritardo devastante verso le potenze più dinamiche, fino a essere spazzati via dalla campagna napoleonica del 1796, dopo la quale la penisola rimase in orbita francese per vent’anni. Dopo il Congresso di Vienna, i migliori soldati degli eserciti italiani si individuarono tra quanti avevano militato sotto Napoleone e ne avevano interiorizzato le innovazioni, ma essi vennero brutalmente sradicati in nome della Restaurazione (l’ultimo esponente fu Gioacchino Murat, fucilato dopo una fallita invasione nel 1815), tornando al modello settecentesco di esercito regio ormai totalmente superato.

 

Fu questo esercito, concettualmente simile a quello dell’Assietta ma centouno anni dopo, a scendere in campo contro l’Austria nella prima guerra di indipendenza, uscendone completamente battuto. Un percorso analogo, per concludere, all’avversario esercito borbonico, ancor più dei piemontesi ridotto a retrograda forza di polizia interna e difatti sfasciatosi con tutto il regno davanti ai garibaldini. I restanti eserciti preunitari, quantitativamente solo una frazione delle forze sabaude e borboniche, non giocarono alcun ruolo. Anche da qui il sotterraneo scontro tra i due Risorgimenti, quello regio e regolare, fondamentalmente antiquato e inefficace, e quello volontaristico e dinamico, guardato con preoccupazione.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Del Negro P., Guerra ed eserciti da Machiavelli a Napoleone, Laterza, Roma-Bari 2013.

Maurino M., Maurino L., “Una vittoria impossibile”, Guerre e Guerrieri n. 13, 2017 Oliva G., I Savoia, Mondadori, Milano 1998.

Scardigli M., Le grandi battaglie del Risorgimento, Rizzoli, Milano 2011.

Visani P., Storia della guerra dall’antichità al Novecento, Oaks editrice, Sesto San Giovanni (Mi) 2018.

Zotti N., Combattere in linea. Tattiche militari, Guerre e Guerrieri n. 9, 2016.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]