Il Grande Gatsby
Il sogno americano 100 anni dopo,
tra illusioni e ceneri
di Riccardo
Renzi
Il 10 aprile scorso sono ricorsi 100
anni dalla pubblicazione di uno dei
più grandi capolavori della
letteratura americana, che più di
ogni altro ha segnato un’epoca:
Il Grande Gatsby di Francis
Scott Fitzgerald. Nonostante una
prima ricezione tiepida da parte di
pubblico e critica, l'opera si è
imposta nel corso del tempo come uno
dei classici indiscussi della
letteratura mondiale, un romanzo che
continua a vendere ogni anno oltre
500.000 copie, superando di quattro
volte la somma delle vendite di
tutte le altre opere di Fitzgerald.
Un risultato che certifica la sua
influenza culturale e simbolica:
Gatsby è ormai più di un libro,
è un archetipo. Lo testimonia anche
l'ingresso nel linguaggio comune di
termini come “Gatsby” e “Gatsbyesque”,
associati a un’idea di romanticismo
ostinato, di sfarzo decadente, di
bellezza perduta.
Ma da dove nasce Gatsby? Quale
genealogia letteraria lo precede e
lo plasma?
Per comprendere la complessità del
personaggio di Jay Gatsby, è utile
volgere lo sguardo al passato
classico, in particolare alla figura
di Trimalchione, il ricco liberto
protagonista della Cena
Trimalchionis, il passo più
celebre del Satyricon di
Petronio. Lo stesso Fitzgerald
inizialmente intitolò il suo romanzo
Trimalchio in West Egg, segno
di un legame profondo tra il suo
eroe e la tradizione latina.
Entrambi, Trimalchione e Gatsby,
sono uomini “dal nulla”, outsider
assetati di riscatto, che si
reinventano e si circondano di
ricchezze ostentate, banchetti e
spettacolo. Ma se il personaggio di
Petronio è una figura grottesca e
caricaturale, simbolo di un vuoto
morale colmato solo da orpelli e
volgarità, Gatsby è un essere
tragico, poetico, profondamente
romantico. Trimalchione incarna la
caduta del gusto e la degenerazione
della società imperiale romana;
Gatsby, invece, è l’eroe dolente di
una modernità frammentata, che
insegue un sogno impossibile: Daisy,
il passato, sé stesso.
Petronio, il cui Satyricon si
colloca tra le opere più enigmatiche
e originali dell'antichità, fu una
delle figure più affascinanti della
corte neroniana, descritto da Tacito
come elegantiae arbiter,
giudice supremo del gusto. La sua
morte — un suicidio orchestrato come
una rappresentazione teatrale, tra
banchetti e versi poetici — è il
compimento perfetto di una vita
vissuta all’insegna dell’estetica.
Nel Satyricon, e in
particolare nella Cena
Trimalchionis, Petronio mette in
scena una Roma grottesca, abitata da
liberti arricchiti e privi di
cultura, specchio fedele di una
società corrotta, dominata da
appetiti, ignoranza e ostentazione.
Proprio come Fitzgerald, Petronio
denuncia il mondo che descrive, ma
al tempo stesso ne è affascinato,
sedotto dai suoi eccessi. In
entrambi gli autori, la critica
sociale si mescola all’estetismo più
raffinato, creando una tensione
insolubile tra bellezza e decadenza.
In questa luce, Il Grande Gatsby
appare come il Satyricon
della Jazz Age. I banchetti di
Gatsby, le feste sfrenate di West
Egg, i costumi sfarzosi, la musica,
l’alcol, le conversazioni brillanti
e vuote: tutto sembra una
riscrittura moderna della Cena
Trimalchionis. Eppure, sotto il
luccichio superficiale, c’è una
malinconia profonda, un senso di
perdita che attraversa ogni pagina.
Il sogno americano, quello della
self-made man che può “farsi da
solo”, viene messo in scena da
Fitzgerald non come un successo, ma
come una tragedia. Gatsby costruisce
la sua fortuna nell’illegalità,
plasma un’identità fittizia, inventa
sé stesso come un’opera d’arte. Ma
il fine ultimo non è la ricchezza in
sé, bensì la riconquista di Daisy —
o meglio, dell’idea di Daisy. In
questo senso, Gatsby è il più puro
degli idealisti, vittima del suo
stesso sogno.
Il narratore Nick Carraway,
testimone incerto e disilluso,
diventa la lente deformante
attraverso cui il lettore osserva la
realtà. La struttura narrativa
frammentaria, il gioco continuo tra
apparenza e verità, il mistero
attorno alla figura di Gatsby: tutto
contribuisce a creare un romanzo
elusivo, ambiguo, sospeso tra
desiderio e fallimento.
Uno degli aspetti più suggestivi
dell’opera è l’uso magistrale dei
colori: il giallo dell’oro, simbolo
di corruzione e materialismo; il blu
della malinconia e del sogno; il
grigio della Valle delle Ceneri,
luogo di disperazione e morte
spirituale. In questo paesaggio
simbolico, Fitzgerald costruisce
un’allegoria del sogno americano e
della sua inevitabile rovina.
Come nella Roma di Petronio, anche
nell’America degli anni Venti il
denaro ha sostituito i valori, la
morale si dissolve in favore del
piacere, e l’individuo si perde in
un mondo di apparenze. Eppure, come
nel Satyricon, non manca
l’ironia, lo sguardo obliquo che
smaschera, ma non giudica; che
racconta, ma non condanna.
Nel 2021, Parul Sehgal ha scagliato
una critica feroce contro Il
Grande Gatsby, definendolo
un’opera mediocre, un’espressione
narcisistica della frustrazione
sociale di Fitzgerald. La sua
lettura, filtrata da una lente
psicoanalitica rigidamente
freudiana, riduce il romanzo a
sintomo, l’autore a paziente. È un
approccio che scambia l’arte con
l’anamnesi, dimenticando — come
ricorda Massimo Recalcati — che
un’opera non è mai riducibile
all’autore, e tanto meno ai suoi
traumi.
Ma Il Grande Gatsby resiste.
Resiste perché non offre risposte
semplici, perché è instabile,
ambiguo, irrisolto. È proprio questa
sua indeterminatezza che lo ha reso
immortale. Come scrisse T. S. Eliot,
il romanzo rappresenta “il primo
passo avanti della narrativa
americana dopo Henry James”. Non per
la trama, non per la perfezione, ma
per la sua capacità di far vibrare
il vuoto, di costruire un’intera
mitologia attorno all’assenza.
A cent’anni dalla sua pubblicazione,
Il Grande Gatsby resta una
delle opere più rilevanti della
modernità. Parla di sogni,
fallimenti, illusioni. Parla del
prezzo del desiderio e della
fragilità della memoria. Parla di
noi, oggi come ieri.
Come il Satyricon, il romanzo
di Fitzgerald è un monumento alla
decadenza che sa farsi arte. È il
racconto di un uomo che ha tutto e
non ha nulla, che costruisce
castelli d’oro sulla sabbia del
tempo. Gatsby guarda la luce verde
all’orizzonte e vi proietta tutto il
suo passato, tutto il suo amore,
tutto il suo sogno. Ed è proprio in
quel sogno che, ancora oggi,
continuiamo a riconoscerci. Non per
ciò che siamo, ma per ciò che
vorremmo essere. E che forse non
saremo mai.