[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 208 / APRILE 2025 (CCXXXIX)


contemporanea

Il Grande Gatsby
Il sogno americano 100 anni dopo, tra illusioni e ceneri

di Riccardo Renzi

 

Il 10 aprile scorso sono ricorsi 100 anni dalla pubblicazione di uno dei più grandi capolavori della letteratura americana, che più di ogni altro ha segnato un’epoca: Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Nonostante una prima ricezione tiepida da parte di pubblico e critica, l'opera si è imposta nel corso del tempo come uno dei classici indiscussi della letteratura mondiale, un romanzo che continua a vendere ogni anno oltre 500.000 copie, superando di quattro volte la somma delle vendite di tutte le altre opere di Fitzgerald. Un risultato che certifica la sua influenza culturale e simbolica: Gatsby è ormai più di un libro, è un archetipo. Lo testimonia anche l'ingresso nel linguaggio comune di termini come “Gatsby” e “Gatsbyesque”, associati a un’idea di romanticismo ostinato, di sfarzo decadente, di bellezza perduta.

 

Ma da dove nasce Gatsby? Quale genealogia letteraria lo precede e lo plasma?

 

Per comprendere la complessità del personaggio di Jay Gatsby, è utile volgere lo sguardo al passato classico, in particolare alla figura di Trimalchione, il ricco liberto protagonista della Cena Trimalchionis, il passo più celebre del Satyricon di Petronio. Lo stesso Fitzgerald inizialmente intitolò il suo romanzo Trimalchio in West Egg, segno di un legame profondo tra il suo eroe e la tradizione latina.

 

Entrambi, Trimalchione e Gatsby, sono uomini “dal nulla”, outsider assetati di riscatto, che si reinventano e si circondano di ricchezze ostentate, banchetti e spettacolo. Ma se il personaggio di Petronio è una figura grottesca e caricaturale, simbolo di un vuoto morale colmato solo da orpelli e volgarità, Gatsby è un essere tragico, poetico, profondamente romantico. Trimalchione incarna la caduta del gusto e la degenerazione della società imperiale romana; Gatsby, invece, è l’eroe dolente di una modernità frammentata, che insegue un sogno impossibile: Daisy, il passato, sé stesso.

 

Petronio, il cui Satyricon si colloca tra le opere più enigmatiche e originali dell'antichità, fu una delle figure più affascinanti della corte neroniana, descritto da Tacito come elegantiae arbiter, giudice supremo del gusto. La sua morte — un suicidio orchestrato come una rappresentazione teatrale, tra banchetti e versi poetici — è il compimento perfetto di una vita vissuta all’insegna dell’estetica.

 

Nel Satyricon, e in particolare nella Cena Trimalchionis, Petronio mette in scena una Roma grottesca, abitata da liberti arricchiti e privi di cultura, specchio fedele di una società corrotta, dominata da appetiti, ignoranza e ostentazione. Proprio come Fitzgerald, Petronio denuncia il mondo che descrive, ma al tempo stesso ne è affascinato, sedotto dai suoi eccessi. In entrambi gli autori, la critica sociale si mescola all’estetismo più raffinato, creando una tensione insolubile tra bellezza e decadenza.

 

In questa luce, Il Grande Gatsby appare come il Satyricon della Jazz Age. I banchetti di Gatsby, le feste sfrenate di West Egg, i costumi sfarzosi, la musica, l’alcol, le conversazioni brillanti e vuote: tutto sembra una riscrittura moderna della Cena Trimalchionis. Eppure, sotto il luccichio superficiale, c’è una malinconia profonda, un senso di perdita che attraversa ogni pagina.

 

Il sogno americano, quello della self-made man che può “farsi da solo”, viene messo in scena da Fitzgerald non come un successo, ma come una tragedia. Gatsby costruisce la sua fortuna nell’illegalità, plasma un’identità fittizia, inventa sé stesso come un’opera d’arte. Ma il fine ultimo non è la ricchezza in sé, bensì la riconquista di Daisy — o meglio, dell’idea di Daisy. In questo senso, Gatsby è il più puro degli idealisti, vittima del suo stesso sogno.

 

Il narratore Nick Carraway, testimone incerto e disilluso, diventa la lente deformante attraverso cui il lettore osserva la realtà. La struttura narrativa frammentaria, il gioco continuo tra apparenza e verità, il mistero attorno alla figura di Gatsby: tutto contribuisce a creare un romanzo elusivo, ambiguo, sospeso tra desiderio e fallimento.

 

Uno degli aspetti più suggestivi dell’opera è l’uso magistrale dei colori: il giallo dell’oro, simbolo di corruzione e materialismo; il blu della malinconia e del sogno; il grigio della Valle delle Ceneri, luogo di disperazione e morte spirituale. In questo paesaggio simbolico, Fitzgerald costruisce un’allegoria del sogno americano e della sua inevitabile rovina.

 

Come nella Roma di Petronio, anche nell’America degli anni Venti il denaro ha sostituito i valori, la morale si dissolve in favore del piacere, e l’individuo si perde in un mondo di apparenze. Eppure, come nel Satyricon, non manca l’ironia, lo sguardo obliquo che smaschera, ma non giudica; che racconta, ma non condanna.

 

Nel 2021, Parul Sehgal ha scagliato una critica feroce contro Il Grande Gatsby, definendolo un’opera mediocre, un’espressione narcisistica della frustrazione sociale di Fitzgerald. La sua lettura, filtrata da una lente psicoanalitica rigidamente freudiana, riduce il romanzo a sintomo, l’autore a paziente. È un approccio che scambia l’arte con l’anamnesi, dimenticando — come ricorda Massimo Recalcati — che un’opera non è mai riducibile all’autore, e tanto meno ai suoi traumi.

 

Ma Il Grande Gatsby resiste. Resiste perché non offre risposte semplici, perché è instabile, ambiguo, irrisolto. È proprio questa sua indeterminatezza che lo ha reso immortale. Come scrisse T. S. Eliot, il romanzo rappresenta “il primo passo avanti della narrativa americana dopo Henry James”. Non per la trama, non per la perfezione, ma per la sua capacità di far vibrare il vuoto, di costruire un’intera mitologia attorno all’assenza.

 

A cent’anni dalla sua pubblicazione, Il Grande Gatsby resta una delle opere più rilevanti della modernità. Parla di sogni, fallimenti, illusioni. Parla del prezzo del desiderio e della fragilità della memoria. Parla di noi, oggi come ieri.

 

Come il Satyricon, il romanzo di Fitzgerald è un monumento alla decadenza che sa farsi arte. È il racconto di un uomo che ha tutto e non ha nulla, che costruisce castelli d’oro sulla sabbia del tempo. Gatsby guarda la luce verde all’orizzonte e vi proietta tutto il suo passato, tutto il suo amore, tutto il suo sogno. Ed è proprio in quel sogno che, ancora oggi, continuiamo a riconoscerci. Non per ciò che siamo, ma per ciò che vorremmo essere. E che forse non saremo mai.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]