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N. 112 - Aprile 2017 (CXLIII)

Giovenale e la poetica dell’indignatio
Riflessioni sul genere satirico a Roma - Parte IiI

di Paola Scollo

 

Nel corso dei secoli la critica ha cercato di comprendere se la Satira VI di Giovenale sia un’invettiva contro le donne o, più in generale, contro il matrimonio. Questo interrogativo non appare del tutto ingiustificato, in quanto il tema misogino e quello misogamico attraversano l’intero componimento, spesso sovrapponendosi.

 

Secondo Anderson, il tema matrimoniale sarebbe limitato solo alla prima parte della satira (21 - 258) e introdotto da un proprio proemio (21 - 37);  di contro, il prologo generale (1 - 20) avrebbe valore di introduzione a tutta la satira, che quindi sarebbe dedicata alla corruzione della donna romana. Questa teoria è stata respinta, tra gli altri, da Braund secondo cui il tema matrimoniale è dominante in tutta la satira, anche quando sembra apparentemente assottigliarsi. Così pure Bellandi.

 

A una prima, anche epidermica, lettura della satira emerge un chiaro interesse da parte di Giovenale per l’istituto matrimoniale e, di necessità, per tre categorie di donne: la matrona, che vanta uno status sociale elevato e giuridicamente protetto; la virgo, che aspira a raggiungere lo status di uxor;  la vidua, che dal passato matrimoniale trae la sua determinazione sociale.

 

Nell’antica Roma il matrimonio era riservato solo alle classi sociali più elevate, a cui era destinato lo ius concubii allo scopo di procreare cittadini legittimi, liberorum pro-creaundum o quaerendorum causa, e di regolare la trasmissione patrimoniale attraverso la successione ereditaria. Inoltre, erano vigenti norme, come per esempio le leggi Giulie, che regolavano tale istituto fra le varie classi sociali. A quelle inferiori, per esempio, era riservata una forma di relazione fissa di minore impegno cui veniva dato il nome di concubinato. In base alla logica patrimoniale presente nell’Urbe, lo schiavo non poteva contrarre matrimonio. Dunque, la questione relativa alla ricerca di una donna da sposare aveva un senso concreto e socialmente determinato.

 

Nella tradizione letteraria latina il tema nuziale era al centro di uno specifico genere letterario: in poesia vi era l’epitalamio lirico, di cui ricorrono esempi in Catullo e in altri neoteroi, ed epico- lirico, in Stazio; in prosa, invece, è da ricordare l’encomio. Tale tema era stato coltivato soprattutto da retori e filosofi sotto forma di riflessioni morali svolte, però, in prospettiva spiccatamente concreta e quotidiana.

 

Per quanto riguarda il genere satirico, l’unico esempio è in Lucilio che, probabilmente, scrisse una satira specificatamente anti-matrimoniale in polemica con l’orazione De prole augenda di Quinto Cecilio Metello Macedonico. Dopo il fondatore della satira, il tema delle nozze non venne più trattato, per cui alcuni critici hanno posto anche una motivazione di carattere letterario all’origine della decisione di Giovenale di affrontare questo argomento. In tempi recenti la Satira VI è stata pertanto definita un epitalamio alla rovescia, poiché propone un ribaltamento dei tradizionali temi dell’epitalamio, quali l’esaltazione della bona Venus e del bonus amor. Sul filo di questo ragionamento, la Satira VI non può che esser considerata una satira anti-matrimoniale, anzi una suasoria anti-nuziale in versi. Ma c’è di più.

 

La scelta di trattare il tema nuziale scaturisce in Giovenale dal desiderio di rispondere al quesito: «Esiste una donna che Postumo debba sposare?». Di qui l’invito all’amico a desistere dalla decisione di sposarsi. Il primo riferimento a Postumo, destinatario della satira che l’autore cerca di dissuadere dall’insano progetto di contrarre matrimonio, è al verso 21. È proprio a partire da questo verso che Giovenale introduce l’elemento destinato a divenire la vera e propria cornice del componimento.

 

Nella Satira VI dietro la figura di Postumo si cela in realtà l’uomo medio, ossia un cittadino romano libero, un cliens di ceto- medio basso, per cui ben presto il discorso dal particolare giunge al generale. La quaestio non consiste nel chiedersi se debba essere il più saggio a prendere moglie ma, piuttosto, se sia assennato” per l’uomo, privo di pretese di sapientia, contrarre matrimonio. Sul piano dei contenuti, la satira appare nel complesso come una denuncia, dai toni fortemente indignati, sull’impossibilità di contrarre matrimoni a causa dell’eccessivo potere assunto dalle mogli. A conferma di ciò, i versi del prologo in cui la donna è presa come bersaglio dell’invettiva anche attraverso il richiamo alla Pudicitia.

 

In effetti, il richiamo alla dea Puditicia nella sezione incipitaria del componimento induce a pensare che Giovenale abbia voluto occuparsi proprio della fedeltà coniugale della donna. Del resto la raffigurazione idilliaca di una coppia dell’età dell’oro e l’insistenza sui termini “moglie” e “marito”, spesso posti in modo simmetrico tra di loro, sarebbe una prova evidente. È bene tuttavia ricordare che su questo tema Giovenale innesta poi altri spunti provenienti da molteplici direzioni e, soprattutto, da generi letterari diversi.

 

Infatti, il tema anti-matrimoniale si frantuma ben presto. Basti pensare che, a partire dal verso 38, Postumo esce di scena per poi riemergere solo ai versi 377 e 378. Al tema principale si accompagna dunque quello della trasgressione femminile di cui viene visto, in particolar modo, l’adulterium come infrazione alla pudicitia che dovrebbe costituire la virtù fondante della matrona. Pertanto, l’attacco di Giovenale non è rivolto a una donna in particolare, ma alla donna romana in generale.

 

Da queste constatazioni si può dedurre che ulteriore tema della satira è la corruzione della matrona destinato, a sua volta, a intrecciarsi con quello della legittimità dei figli qui considerati solo quali potenziali heredes. In tale contesto, Giovenale insiste poi sul tema della impudicitia delle uxores, colpevoli di venir meno al loro dovere più sacro: quello di garantire la trasmissione incontaminata del sangue della stirpe.

 

Di contro, non viene trattato il tema, presente per esempio in Plauto e in Lucilio, dei fastidi derivanti al padre dall’allevamento della prole. Con ogni probabilità, ciò avrebbe significato per Giovenale un allontanamento dalla prospettiva misogina che più gli stava a cuore. Di qui la scelta di adottare solo un atteggiamento accusatorio verso le donne colpevoli di voler evitare figli. Saranno poi i cristiani a insistere sui fastidi del parto e dell’allevamento per la donna, ma solo al fine di invitarla alla scelta della verginità o, almeno, al rifiuto delle seconde nozze.



 

 

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