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filosofia & religione


N. 123 - Marzo 2018 (CLIV)

RICORDANDO GIORDANO BRUNO

IN MEMORIA DI UN FILOSOFO FINITO SUL ROGO
di Umberto Vitiello

 

Nel 1862, un anno dopo l’Unità d’Italia, venne inaugurata a Nola, nell’odierna piazza Giordano Bruno, una statua dello scultore Raffaele De Crescenzo raffigurante il grande filosofo e monaco domenicano nato nella cittadina campana tre secoli prima, nel gennaio 1548.

 

Ogni anno, in occasione delle ricorrenza della morte di Giordano Bruno (arso vivo il 17 febbraio 1600 in Campo de’ Fiori, a Roma), nonché quando si tiene a Nola un convegno dedicato a tale personaggio, organizzato dal comune, dal liceo o dal circolo che porta il suo nome, davanti alla suddetta statua viene deposta una corona di alloro.

 

Più nota e con una storia ben più complessa e travagliata è invece la statua di bronzo dello scultore Ettore Ferrari in Campo de’ Fiori a Roma, nel luogo dove Giordano Bruno fu arso vivo il 17 febbraio del 1600, inaugurata il 9 giugno 1889, vari anni dopo la breccia di Porta Pia e la conquista di Roma, avvenuta il 20 settembre del 1870.

 

La statua è posta su di un basamento di granito ricoperto da otto medaglioni di bronzo coi ritratti di liberi pensatori e da tre riquadri con gli episodi più significativi della vita del filosofo di Nola. Giordano Bruno vi è raffigurato in un atteggiamento di profonda riflessione, le mani incrociate su un libro e lo sguardo fisso davanti a sé.

 

Una statua era già stata eretta durante la Repubblica Romana del 1849, ma fu fatta distruggere da Pio IX subito dopo la restaurazione dello Stato Pontificio. L’idea di realizzare di nuovo una statua di Giordano Bruno ed erigerla in Campo de’ Fiori a Roma, piazza famosa per le esecuzioni capitali ordinate dai tribunali della Chiesa, fu inizialmente di studenti universitari romani, ai quali presto si unirono studenti universitari di Napoli, Pisa e altre città conquistati dal significato di libertà e di laicismo che Giordano Bruno aveva assunto durante il Risorgimento, in particolar modo a partire dalla Repubblica Romana del 1849 e rafforzatosi con la diffusione delle idee di Mazzini.

 

I gruppi di studenti universitari si trasformarono con gli anni in due comitati universitari internazionali, sorti rispettivamente nel 1876 e nel 1884 che, per raccogliere la somma necessaria alla realizzazione del monumento, formarono un comitato promotore, al quale aderirono illustri politici e uomini di cultura italiani ed europei, tra cui Antonio Labriola, Francesco De Sanctis, Giuseppe Garibaldi, Giovanni Bovio, il russo Michail Bakunin, il norvegese Henrik Ibsen, il britannico Herbert Spencer, i francesi Victor Hugo e l’avvocato e giornalista socialista Armand Lévy, fuggito da Parigi e rifugiatosi a Roma dopo la caduta della “Commune” del 1871.

 

Il comitato promotore fu in tal modo particolarmente rinvigorito e ottenne presto maggiore ascolto e attenzione da parte delle autorità statali insediatesi a Roma, divenuta la nuova e definitiva capitale dell’Italia unita. E con le proprie pressioni contribuì a far dimettere il consiglio comunale romano a maggioranza filoclericale, sostituito con l’elezione di un nuovo consiglio a maggioranza del tutto diversa.

 

Come è noto, dopo la breccia di Porta Pia e la conquista di Roma del 20 settembre 1870 il papa Pio IX non aveva accettato la Legge delle Guarentigie del 13 maggio del 1871 con cui il governo italiano gli riconosceva onori sovrani, la facoltà di disporre di forze armate, l’extra-territorialità dei palazzi del Vaticano, del Laterano e del Castel Gandolfo, una dotazione annua di tre milioni di lire e la piena autonomia della Chiesa, nel rispetto della sua separazione dallo Stato. Pio IX aveva risposto con un rifiuto e scomunicando i Savoia, mentre nel 1874 emanò la bolla papale “Non expedit” con la quale invitava i cattolici a non partecipare alla vita politica dello Stato Italiano. Quattro anni dopo Pio IX morì e al suo posto il conclave elesse Leone XIII, ma la situazione non cambiò affatto.

 

Con la rimozione verso la fine del 1887 da parte del governo Crispi del sindaco di Roma Leopoldo Torlonia, rivelatosi troppo legato alla Chiesa, e dopo varie manifestazioni studentesche e popolari durante le quali i favorevoli alla statua si scontravano con coloro che erano contrari, manifestazioni che si concludevano quasi sempre con arresti e feriti, il 9 giugno del 1889 fu finalmente inaugurato il Monumento a Giordano Bruno in Campo de’ Fiori a Roma. Mentre Leone XIII, contrario alla realizzazione dell’opera, rimase per tutto il giorno in ginocchio a pregare davanti alla statua di San Pietro, chiedendo la sua intercessione con Dio per sconfiggere “la lotta ad oltranza contro la religione cattolica”.

 

L’anno dopo, il 17 febbraio, giorno in cui nel 1600 Giordano Bruno fu arso vivo, molti si radunarono in Campo de’ Fiori accanto alla sua statua, divenuta simbolo del libero pensiero che, come libero arbitro, è il concetto filosofico e teologico secondo il quale ogni persona ha il potere di scegliere da sé gli scopi del proprio pensare ed agire.

 

La manifestazione del 17 febbraio si ripeté poi ogni anno, fino all’avvento del fascismo e ai Patti Lateranensi tra il Regno d’Italia e la Santa Sede, firmati l’11 febbraio 1929 da Benito Mussolini e il cardinale Segretario di Stato Pietro Gasparri. Dall’anno dopo Mussolini vietò questa manifestazione e fece istituire un mercato rionale a Campo de’ Fiori con bancarelle che nascondessero almeno in parte la statua del filosofo di Nola.

 

Dopo la caduta del fascismo e il ritorno dell’Italia alla democrazia, mentre il mercato rionale nessuno è mai riuscito a trasferirlo altrove, la manifestazione dei liberi pensatori davanti alla statua di Giordano Bruno del 17 febbraio è stata presto ripristinata dall’Associazione Nazionale del Libero Pensiero “Giordano Bruno”, alla quale prendono parte anche non pochi cattolici, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II del 1962–1965, iniziato con un discorso di Giovanni XXIII, il papa che l’ha voluto, di cui sono ben significative queste parole: «Oggi la sposa di Cristo [la chiesa] preferisce ricorrere al rimedio della misericordia piuttosto che brandire le armi della severità», e dopo che il papa polacco Giovanni Paolo II, che da giovane cardinale aveva preso parte attiva al Concilio Vaticano II, il 12 marzo dell’anno santo 2000, prima domenica di quaresima, durante una solenne celebrazione eucaristica in San Pietro ha chiesto perdono al Signore per i peccati passati e presenti commessi dalla Chiesa Cattolica facendo ricorso a metodi non evangelici, in particolar modo nelle crociate, iniziate nel 1096, nella crociata indetta dal papa Innocenzo III contro i pacifici albigesi in Francia nella prima metà del 13° secolo, nelle tante Guerre di Religione tra cristiani (l’ultima delle quali, quella tra cattolici e protestanti nel Nord Irlanda, è terminata solo alla fine degli anni novanta del XX secolo) e nelle sentenze di morte della Santa Inquisizione.

 

Fondata dalla Santa Sede tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo per reprimere le eresie, come quella dei Catari o Albigesi in Francia, la Santa Inquisizione era stata trasformata nel 1564 da Paolo III e chiamata Sant’Ufficio, ovvero “Suprema Congregazione del Sant’Ufficio”, per combattere la riforma luterana nata nel 1517 e diffusasi in pochi anni in varie regioni europee. La Suprema Congregazione del Sant’Ufficio fu poi più volte rimodellata, in particolar modo dopo il Concilio di Trento del 1545-1563, e infine riformata radicalmente da Pio VI cambiandone la denominazione in “Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede” il 7 dicembre 1965, il giorno prima della chiusura del Concilio Vaticano II.

 

L’occupazione nazista del suo Paese, iniziata nel settembre del 1939, quando aveva compiuto da poco 19 anni, e l’arrivo delle armate rosse nel novembre dello stesso anno, che trasformarono la Polonia in uno Stato satellite dell’Unione Sovietica, resero Karol Józef Wojtyła, il futuro papa polacco Giovanni Paolo II, ben consapevole di cosa comporta nella realtà di un regime dittatoriale di destra come di sinistra il divieto del libero arbitrio e l’imposizione del pensiero unico con la condanna al confino, al campo di concentramento o alla morte di chi non vi si attiene. Per cui una volta divenuto vicario di Cristo non poté non riflettere sulla storia della Chiesa dei secoli bui dell’Inquisizione con le sue tremende sentenze, che spesso comportavano l’esecuzione capitale più atroce per un essere umano: la condanna ad essere arso vivo.

 

Nel nuovo catechismo della Chiesa Cattolica, approvato il 15 agosto 1997 dallo stesso papa Giovanni Paolo II, non a caso all’articolo 3, intitolato “La libertà dell’uomo”, viene ribadito che Dio ha creato l’uomo ragionevole conferendogli la dignità di una persona dotata dell’iniziativa e della padronanza dei suoi atti. «Dio volle, infatti, lasciare l’uomo "in balia del suo proprio volere" (Sir 15,14) perché così esso cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, con l’adesione a lui, alla piena e beata perfezione ». « L’uomo è dotato di ragione, e in questo è simile a Dio, creato libero nel suo arbitrio e potere ». Da cui ne deriva la libertà di religione e il rispetto per chiunque pratichi una religione diversa da quella cattolica.

 

Conseguentemente il 12 febbraio 2001 la pena di morte viene abolita nello Stato della Città del Vaticano con la revisione della “Legge Fondamentale”, l’equivalente della nostra Costituzione, firmata anch’essa dal papa polacco Giovanni Polo II.

 

Oggi dunque Giordano Bruno non sarebbe potuto essere condannato a morte, ma neppure essere processato dalla Santa Sede, poiché aveva rinunciato alla vita di monaco abbandonando l’abito domenicano, e ritornato alla vita laicale aveva ripreso il suo nome di battesimo.

 

Giordano Bruno nacque a Nola, città a pochi chilometri da Napoli, nel gennaio del 1548 e il suo nome era Filippo, ch’egli cambiò in Bruno una volta iniziata la propria vita monastica nel convento napoletano di San Domenico Maggiore, casa madre dei domenicani dell’intero Vicereame spagnolo con Napoli capitale. Il 15 giugno 1565 fu nominato novizio e il 16 giugno dell’anno dopo, a 18 anni, divenne professo con la solenne promessa di obbedire al Maestro Generale secondo la Regola di San’Agostino e le Costituzioni dell’Ordine.

 

Di spirito profondamente perlustrativo e meditativo, non passarono che pochi anni quando cominciò ad avere alcune perplessità teologiche, in particolar modo sulla dottrina trinitaria e su quella dell’incarnazione.

 

Confidandoli ai confratelli, i suoi dubbi vennero presto a conoscenza anche dei superiori che, rivelatisi vani i loro tentativi di fargli accettare senza riserve quelli che per loro erano dogmi indiscussi della fede, cercarono di intimorirlo informandolo che se non cambiava atteggiamento rimettendosi ai loro consigli avrebbero dovuto accusarlo di eresia e denunciarlo alla Santa Inquisizione.

 

E lui, non avendo nessuna intenzione di rinunciare alla libertà di pensiero e di ricerca personale della verità, decise di allontanarsi dal convento e da Napoli e si trasferì a Roma, nel convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva. Dove un giorno apprese che a Napoli stavano istruendo contro di lui un processo per eresia. Decise allora di togliersi l’abito bianco e il mantello nero, abbandonò la vita monastica e riprese il suo nome di battesimo, Filippo.

 

Era il 1576, aveva 28 anni e non tardò a capire che, ritornato alla vita laicale senza averne ottenuta l’autorizzazione, a Roma era più in pericolo che a Napoli. E nel mese di aprile dello stesso 1576 se me andò a Genova, da dove si trasferì poco dopo a Noli, dove per alcuni mesi insegnò grammatica ai bambini e cosmografia agli adulti.

 

L’anno dopo è a Savona, da dove si spinge fino a Torino e a Venezia. Qui nel 1578 gli stampano il suo primo libro: “De’ segni de’ tempi”, opera di cui non si è finora riusciti a ritrovarne neppure una copia. Per la peste che incombe nella città lagunare facendo migliaia di morti, se ne va a Padova, dove consigliato da alcuni domenicani indossa di nuovo l’abito di monaco e si trasferisce nel convento domenicano di Brescia.

 

Da qui, nell’estate dello stesso anno, parte per andarsene in Francia, dove trascorre pochi mesi nel convento domenicano di Chambéry in Savoia e verso la fine dell’anno si trasferisce a Ginevra. In questa città svizzera abbandona di nuovo l’abito domenicano e abbraccia per alcuni mesi la fede calvinista, come diversi italiani che vi si erano da tempo rifugiati. Il marchese napoletano Galeazzo Caracciolo ventisei anni prima a Ginevra aveva fondato una comunità evangelica italiana.

 

Se ne andò poi a Tolosa e da Tolosa si trasferì a Parigi, dove godette della protezione del re Enrico III. Nella capitale della Francia nel 1582 pubblicò “De umbris idearum” (Le ombre delle idee), un libro in latino che conteneva anche “Ars memoriae (L’arte della memoria) , un trattato di mnemotecnica dedicato al re di Francia che l’aveva voluto a corte come membro del collegio dei lettori reali allo scopo di avere la dimostrazione delle sue capacità mnemoniche.

 

Nello stesso anno a Parigi pubblicò anche il “Candelaio”, una commedia di cinque atti concepita già nel 1576, l’anno in cui Giordano Bruno abbandonò per la prima volta la vita monastica. Ambientata a Napoli nei pressi di San Domenico Maggiore, la chiesa col monastero domenicano dove Giordano Bruno aveva trascorso più di dieci anni, è una satira mordace sulle passioni che indeboliscono e talvolta addirittura sconvolgono la ragione umana.

 

Nell’aprile del 1583, se ne andò in Inghilterra, dove rimase fino al 1585 e dove insegnò per alcuni mesi a Oxford. A Londra nel 1584 pubblicò in lingua italiana il suo primo dialogo filosofico: la “Cena de le ceneri”, dedicata a Michel de Casteinau, l’ambasciatore francese che l’ospitava. La cena sembra che si sia svolta realmente la sera delle Ceneri, primo giorno di quaresima del 1584, tenutasi nell’abitazione del poeta, drammaturgo e politico inglese Fulke Greville. Giordano Bruno vi sarebbe stato invitato per esporvi il suo pensiero sull’eliocentrismo.

 

L’opera collegandosi alla teoria copernicana descrive un universo infinito nel quale il divino è onnipresente e la materia eterna è in continua trasformazione. Nello stesso anno 1584 Giordano Bruno pubblicò a Londra anche “De la causa principio et uno”, opera anch’essa in italiano e dedicata all’ambasciatore di Francia, in cui proseguendo l’esposizione iniziata con la “Cena de le ceneri” spiega la sua concezione della realtà. Dio, liberato da ogni trascendenza, vi viene presentato come la stessa natura, una potenzialità infinita e una infinita attualità, “vera essenza de l’essere tutto”.

 

Per cui una è la sostanza che genera ogni aspetto della realtà e uno è lo Spirito artefice, principio di ogni cosa e infinita forza vitale. L’Essere non è soltanto in sé, ma è anche in quanto conosciuto e moralmente valutato per divenire il Vero nella conoscenza e il Bene nella valutazione morale, generando nell’uomo che lo contempla "eccellenza della propria umanitate".

 

L’opera “De l’infinito universo et mundi” con le due precedenti opere forma la trilogia dei grandi dialoghi filosofici in lingua italiana pubblicati a Londra nel 1784, anche se sul frontespizio di questa è scritto Venezia. Il mondo chiuso, gerarchico e rassicurante di Aristotele e della Bibbia, capovolto da Copernico, diventa in questo saggio di Giordano Bruno uno dei tanti infiniti mondi. Tutto si relativizza. Ogni cosa, anche la più piccola e la più umile, è al centro del proprio mondo, ma in un universo senza centro e senza confini. Una convinzione che nasce e si sviluppa non solo dalle nuove conoscenze astronomiche, ma anche e in particolar modo da argomentazioni metafisiche: la realtà, creatura di Dio, è infinita perché infinita è la sua causa.

 

A Londra Giordano Bruno pubblicò anche “Spaccio della bestia trionfante” e “Degli eroici furori”, entrambi in lingua italiana, detti “dialoghi londinesi” come i tre saggi precedenti. “Spaccio della bestia trionfante”, stampato nella tipografia di John Charlewood nel 1584 anche se sul frontespizio è detto stampato a Parigi, è un saggio di tre dialoghi che sollecita una riforma morale contro chi “spaccia” simboli e culti negativi che devastano l’animo umano, riforma innestata in una storia mitologica in cui per liberare i cieli dallE bestie che hanno dato nome alle costellazioni, simboli delle false virtù, Giove convoca gli dei per ricordargli che i culti sono stati da loro istituiti per far vivere gli uomini in pace, per cui non esistono religioni vere e religioni false, ma religioni utili e religioni dannose.

 

Le religioni vanno dunque giudicate per gli effetti che producono nella società degli uomini. E tale operazione è possibile solo se il culto religioso che ha per scopo la pace tra gli uomini è al servizio dello Stato. Mentre “Degli eroici furori”, pubblicato a Londra nel 1585 e suddiviso in due parti di cinque dialoghi ciascuno, è un saggio filosofico con uso di emblemi e poesia, in cui vengono descritti tre “furori”: 1) l’amore per la vita dedita al piacere, 2) l’amore per la vita attiva, 3) l’amore per la vita contemplativa. I primi due sarebbero per gli uomini “di barbaro ingegno”, mentre il terzo è un “furore eroico”, avendo come scopo finale la contemplazione della bellezza divina che si manifesta in un universo infinito, animato da un divino onnipresente irraggiungibile. “Furore eroico” anche perché l’uomo, che ha come fine più alto la conoscenza della verità, è mosso da una passione impetuosa che lo spinge sempre più avanti.

 

Nel mese di aprile del 1588 Giordano Bruno si trasferisce a Praga, allora città sede del Sacro Romano Impero, e vi pubblica in un unico volume “De lulliano specie rum scrutino“ e “De lampade combinatoria Raymundi Lullii”. Nel mese di agosto dello stesso anno 1588 se ne va in Germania e a Francoforte sul Meno nel 1590 pubblica i poemi latini “De minimo” (formato da cinque libri in cui “minimo” significa essere indivisibile e viene distinto in tre tipi: il minimo fisico, l’atomo, che è alla base della scienza della fisica, il minimo geometrico, il punto, che è alla base della geometria, e il minimo metafisico, o monade, che è alla base della metafisica), “De monade” (un richiamo alle tradizioni pitagoriche secondo le quali ogni movimento trasforma le cose per la presenza di principi interni, numerici e geometrici) e “De immenso et innumerabilibus” ( nei cui otto libri Giordano Bruno ripropone la propria teoria cosmologica che approva la teoria copernicana eliocentrica, ma rifiuta l’esistenza delle sfere cristalline e degli epicicli col ribadire la concezione dell’infinità e della molteplicità dei mondi).

 

Nel 1591 Giordano Bruno pubblica poi “De triplici minimo et mensura” (l’esposizione della sua concezione atomistica della realtà) e l’ultima opera la cui pubblicazione fu curata da lui: il De imaginum, signorum et idearum compositione” (punto d’arrivo di tutta la riflessione mnemotecnica di Giordano Bruno con uno stupefacente uso delle immagini, che ripropone in termini nuovi e originali il problema del rapporto fra mente, figura e parola).

 

Nel 1591 il libraio Giambattista Ciotti venuto alla fiera del libro, che allora come oggi si teneva a Francoforte, consegna a Giordano Bruno una lettera del nobile e uomo politico Giovanni Francesco Moncenigo con la quale lo invita a soggiornare a Venezia in casa sua e insegnargli i segreti della memoria e “li altri che egli professa”. Giordano Bruno accetta e si reca da lui a Venezia in quello stesso anno 1591, non imprudentemente – come dichiarano alcuni storici – ma forse convinto che la Santa Inquisizione in quella città fosse talmente limitata nei propri poteri da risultare quasi inesistente. E l’anno dopo deve suo malgrado ricredersi.

 

Quando decide di tornarsene a Francoforte in Germania per stampare altri suoi scritti, Mocenigo cerca di convincerlo di non allontanarsi da Venezia, ma non riuscendovi la notte del 22 maggio 1592 lo fa rinchiudere dai suoi servi in un solaio. E il giorno dopo lo denuncia come eretico al tribunale veneziano della Santa Inquisizione, che lo fa immediatamente arrestare e, dopo averlo processato, il 27 febbraio 1593 lo fa trasferire nelle carceri dell’Inquisizione di Roma. E qui viene sottoposto a nuovo processo, che si conclude dopo quasi sette anni con la sua condanna ad essere arso vivo, condanna che viene eseguita il 17 febbraio 1600 in Campo de’ Fiori.

 

Il silenzio della Chiesa Cattolica sul caso Giordano Bruno viene rotto solo il 17 febbraio 2000, a 400 anni dalla sua morte, con la lettera firmata dal cardinale Segretario di Stato Angelo Sodano che il papa polacco Giovanni Paolo II invia al summit degli storici e teologi che si tiene a Napoli.

 

In questa lettera viene espresso dispiacere per la morte brutale sul rogo, definito: “un triste episodio della storia cristiana che provoca profondo rammarico”. Una condanna indubbia della pena di morte inflittagli e non affatto una riabilitazione del pensiero di Giordano Bruno, come invece era avvenuto per Galileo Galilei con il riconoscimento della sua “grandezza” da parte del papa polacco durante la sua visita a Pisa del 22 settembre 1989.



 

 

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