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N. 99 - Marzo 2016 (CXXX)

Il ghetto di Venezia: la CONVIVENZA E la SEPARAZIONE

Parte i - Le origini a Venezia e in Terraferma
di Giuseppe Tramontana

 

“Li Giudei debbano tutti abitar unidi in la Corte de Case, che sono in Ghetto appreso San Girolamo; ed acciocché non vadino tutta la notte attorno: Sia preso che dalla banda del Ghetto Vecchio dov’è un Ponteselo piccolo, e similmente dall’altra banda del Ponte siano fatte due Porte cioè una per cadauno di detti due luoghi, qual Porte se debbino aprir la mattina alla Marangona, e la sera siano serrate a ore 24 per quattro Custodi Cristiani a ciò deputati e pagati da loro Giudei a quel prezzo che parerà conveniente al Collegio Nostro...”.

 

Con questo decreto, datato 29 marzo 1516, il governo della Serenissima Repubblica  istituì il primo ghetto, detto Ghetto Nuovo, nella parrocchia di San Girolamo. Fu il primo ghetto d’Europa. Il suo nome, secondo la tradizione, derivò dalla parola veneta “geto”, usata per indicare il luogo dove si fondevano i metalli, termine reso con la “g” dura forse dalla pronuncia degli ebrei tedeschi che per primi vi si stabilirono.

 

Ma quanti erano gli ebrei presenti a Venezia? Da dove provenivano? Che cosa facevano? E come si arrivò a questa decisione? La comunità ebraica veneziana, composta – secondo le stime di Sergio Della Pergola – da circa settecento persone, era presente a Venezia già da alcuni secoli.

 

Secondo Pier Cesare Ioly Zorattini, risalgono alla fine del X secolo le prime notizie di rapporti tra Venezia e gli ebrei. Sono questi gli anni in cui si assiste al consolidarsi della potenza veneziana nell’Adriatico e alla sua espansione nell’area mediterranea favorita dalla felice posizione geografica della città, punto naturale d’incontro tra le vie d’acqua e quelle di terra, grazie ad un sistema di canali che la collegava con la valle padana e alla prossimità di bassi valichi alpini che rendevano agevoli i trasporti verso i paesi dell’Europa centrale e settentrionale. Attorno al primitivo nucleo di Rialto, Venezia sia andava ormai affermando come emporio di traffici marittimi e terrestri tra il Levante e le altre regioni d’Europa, favorendo quel clima di dinamica tensione commerciale che attrasse, insieme ai mercanti stranieri, gli Ebrei.

 

Quindi a partire dal X secolo si intensificarono i rapporti tra Venezia ed i mercanti Ebrei, rapporti peraltro spesso contrassegnati da un diffuso atteggiamento antiebraico, dettato, tuttavia, non da odio religioso o xenofobo, ma dal timore di una possibile concorrenza alla nascente potenza commerciale veneziana.

 

In questo senso, quindi, andrebbe interpretato il più antico documento pervenutoci, un ducale del 932, opera del doge Pietro Candiano, in cui lo stesso doge si rivolgeva al re di Germania Enrico I chiedendogli di far battezzare tutti gli Ebrei del suo regno, pena la cacciata dai suoi territori. Come pretesto il doge adduceva l’esito di una disputa religiosa tenutasi a Gerusalemme tra Cristiani ed Ebrei vinta da questi ultimi con l’inganno. Per questo avrebbero dovuto essere puniti. In realtà, i motivi di tale livore sono da ricercare nella preoccupazione dei Veneziani di una possibile concorrenza nei traffici con l’Oriente con cui Venezia andava saldando vincoli commerciali sempre più stretti. “Un’analoga finalità protezionistica – scrive lo stesso Ioly Zorattini – anima, questa volta più chiaramente, una disposizione del giugno del 960  in cui, nel rinnovare il divieto del commercio degli schiavi, si proibiva ai ‘nauclerii’ di accogliere a bordo delle navi veneziane qualsiasi ‘hominem negotiatem vel judeum’.

 

Una delle fonti cui numerosi studiosi si sono riferiti è l’opera di Giovan Battista Galliccioli, Storia e memorie venete profane ed ecclesiastiche, pubblicata in otto volumi a Venezia nel 1795. L’autore, parlando del ruolo attivo degli ebrei nel commercio della Serenissima,  riferisce che in un manoscritto di Pietro Vanzi è riportato un censimento del 1152 riguardante il numero di ben milletrecento ebrei di stanza a Venezia. In realtà tuttavia, pare che la data vada corretta all’anno 1552, allorché, in effetti, si ebbe il numero di persone suindicato. Tuttavia, ciò denota come essi non avesse alcuna difficoltà a risiedere nel cuore della città. Come ricorda Cecil Roth, essi “dovevano depositare le loro mercanzie ed esercitare i loro traffici nell’isola di Sinalunga. Il luogo – a quel tempo area paludosa intersecata da numerosi canali – finì collo avere, a causa dei suoi abitanti infedeli, il nome di Giudecca, che conserva tuttora. Il nome si incontra per la prima volta in un documento del 1252”.

 

Nel 1290 l’importanza dei mercanti ebrei fu riconosciuta ufficialmente con un decreto con il quale si disponeva che, per tutte le mercanzie importate o esportate, si dovesse procedere al prelievo di  un’imposta pari al  5%.

 

Nel corso del XIII e XIV secolo, giunse a conclusione il lungo processo di strutturazione del sistema feudale che comportò, nei fatti, l’esclusione degli ebrei dalla professione agricola. A ciò, si aggiungeva la rigida organizzazione delle corporazioni di mestiere che riaveva allontanati anche dall’artigianato, salvo casi eccezionali. Questa politica fortemente escludente era stata, per molti versi, agevolata e giustificata dalle prese di posizione della Chiesa. Nei Concili Lateranensi del 1179 e del 1215 la Chiesa predispose la sua linea intransigente nei confronti degli ebrei, corredata da una legislazione destinata ad avere vasta eco in tutto il mondo occidentale. Uno degli effetti più immediati fu il divieto di esercitare molti dei mestieri collegati all’artigianato, al commercio ed all’agricoltura. Parve allora che una sola professione fosse loro aperta: quella di prestatori di denaro. Ed anche in questo caso dovettero sfidare gli strali ecclesiastici, ma non i relativi interdetti legislativi giacché essi ricadeva all’esterno della giurisdizione della Chiesa. Come ricorda Roth, in tutta Europa gli italiani aveva fama di usurai, “la cui rapacità fece spesso rimpiangere profondamente ai cristiani la partenza dei concorrenti ebrei.” In Italia, poi, i toscani erano famosi per la loro attività feneratizia, mentre i padovani meritarono la primazia nel girone riservato agli usurai nell’Inferno dantesco.

 

Di solito, allorché ci si rendeva conto che a causa della carenza di liquidità  l’economia incominciava a boccheggiare, i governanti delle città invitavano i prestatori ebrei ad aprire dei ‘banchi’ allo scopo di prestare denaro ai cittadini. L’importo degli interessi richiedibili era stabilito in modo preciso. Nel contempo venivano assicurate l’immunità da eventuali persecuzioni e lo svolgimento della pratica religiosa. “Gli ebrei dal canto loro – scrive Roth – dovevano impegnarsi a fornire un certo capitale minimo, ad osservare certe norme nei rispetti della vendita dei pegni e a dimostrare di apprezzare i privilegi loro concessi versando una cospicua somma al tesoro civico.” Veniva stipulato un vero e proprio contratto bilaterale, chiamato condotta, valido per un numero determinato di anni, per lo più tre, cinque o dieci. Alla fine del periodo prestabilito, decadeva, ma era rinnovabile.

 

Sicuramente, nel 1356, all’indomani di una congiuntura particolarmente negativa determinata dalla peste nera e dalla quasi contemporanea guerra contro Genova (1350-1355), il Gran Consiglio si occupò della grave situazione finanziaria in cui versava la Repubblica. Fu in tale occasione che venne discussa la proposta di permettere ai prestatori su pegno di entrare in città. La Quarantia non approvò. Tuttavia il problema rimase all’ordine del giorno, tanto che  dieci anni dopo, nel 1366, il Gran Consiglio autorizzò il podestà veneziano a Mestre a trattare – in alternativa ai banchieri di Mestre che esigevano un interesse del 25% annuo –con “altre persone” disposte ad accontentarsi del tasso del 20%. In realtà, non è provato che ci si riferisse agli ebrei, tuttavia sia Roberto Cessi che Brian Pullan assumono come data di partenza certa della presenza ebraica a Venezia il 1366. Infatti, il 28 giugno di quell’anno fu concluso un accordo coi pretori di denaro di Mestre, che permise a costoro l’ingresso a  Venezia per esercitarvi la loro attività. I patti di questa antica condotta non sono pervenuti fino a noi. Si sa, per certo, che durò sette anni e venne rinnovata nel 1373, nel 1378 e nel 1385, per cinque, sette e dieci anni rispettivamente. L’ultima volta la comunità nascente venne posta sotto la sorveglianza dei Sopraconsoli, ai quali doveva far pervenire una lista coi nomi dei banchieri ebrei. Avevano il diritto di  gestire tre banchi e, per poterlo fare, dovevano versare una tassa di quattromila ducati annui. In cambio, venivano esentati da tutte le altre tasse, eccetto i dazi di importazione ed esportazione. Il saggio di interesse era originariamente limitato al 4%. Però, in breve tempo venne aumentato dapprima all’8 e poi al 10, su pegno, e al 12, senza pegno.

 

La maggior parte degli Ebrei di questa comunità erano sopravvissuti ai massacri seguiti alla peste nera di metà Trecento. Come ricorda Ariel Toaff, molti decisero di seguire “i pionieri che nell’Italia dei comuni, soprattutto in Friuli, in Istria e in Veneto settentrionale, già da tempo avevano trovato, insieme con un’esistenza più tranquilla, la possibilità di mettere a frutto i loro capitali e la loro esperienza in campo economico.” In tal modo la corrente discendete degli ebrei askenaziti, già presente in alcune città del Nord come Cividale, Mestre, Pavia e Treviso, si saldava con quella  di provenienza romana e levantina, rafforzando i nuovi insediamenti della Pianura Padana, nei Comuni e nelle Signorie dell’Emilia, del Veneto e della Lombardia.

 

Risale, infatti, al 1369 la presenza dei primi Ebrei a Padova. Costoro erano soprattutto prestatori e feneratori provenienti dalle città dello Stato Pontificio, da Rimini e da Ancona. A Padova, secondo Antonio Ciscato, applicavano un tasso di interessi “enormissimo” giacché fluttuava “dal 15 al 30 e anche, benché eccezionalmente, al 40 per cento.” Padova, grazie al grande sviluppo delle manifatture tessili e all’atteggiamento tollerante dei Carraresi, rappresentava una piazza ambita dai feneratori ebrei che vi presero dimora “dapprima affiancandosi, e poi gradatamente sostituendosi, ai cristiani che, ufficialmente (campsores) o sottobanco, avevano tenuto il monopolio dell’attività usuraria”. Comunque, nel 1432 i feneratori Ebrei di Padova gestivano sette istituti di credito. E,  negli anni seguenti, segnatamente quelli del ventennio 1430-1450 “contribuirono ad alleggerire il compito del fisco, sia versando essi stessi rilevanti prestiti obbligati, sia anticipando il denaro ai cittadini, in modo che fossero in grado, a loro volta, di pagare le tasse.” Nella città patavina, tra l’altro, sorse una delle più famose yeshivòt, o accademie rabbiniche, fondata da Yehudà Minz, frequentata da dotti italiani e stranieri, che divenne un centro di grande prestigio della cultura rabbinica e talmudica dell’Italia settentrionale.

 

Altri importanti centri del Padovano interessati, più o meno massicciamente, dalla presenza ebraica furono inoltre Cittadella, Camposampiero, Montagnana, Piove di Sacco, Bovolenta, Spasano, Pozzoveggiani, Urbana, Sant’Urbano, Este, Galzignano e varie località della Saccisica e della Sculdascia.

 

Ufficialmente il Comune di Verona invitò gli Ebrei tedeschi in città nel 1408, sperando di riuscire a ridurre gli interessi esorbitanti imposti dagli usurari cristiani. Tuttavia, come hanno messo ben in rilievo Gian Maria Varanini e Giorgio Borelli, i rapporti tra la città scaligera e gli Ebrei si incrinarono nel giro di un secolo. Sicché nel 1547 si pervenne all’espulsione (o meglio al mancato rinnovo della condotta) dalla città. Ufficialmente, come nota Borelli, i motivi che determinarono questa scelta erano legati “alli danni et inconvenienti che nascono in questa Città et territorio dal fenerar delli hebrei.” Gli ebrei venivano accusati di essere “avarissimi”, autori di “perniciosissime usure et estorsioni”, in quanto impositori di tassi di interesse troppo elevati.

 

Per quanto riguarda Vicenza, alcuni ebrei dell’Italia centrale vi giunsero probabilmente nella seconda metà del Trecento. Sembra che i primi ad arrivare, precedendo i banchieri, siano stati i piccoli commercianti, ma nel 1425 ed ancora dieci anni più tardi, il Comune si accordò con banchieri ebrei provenienti da Modena e Ancona, anche se – come ricorda Pullan – nei patti stipulati nel 1435 uno dei banchieri, Giacobbe figlio di Mosè, di Ancona, veniva definito in realtà “fenerator Padue”, segno che dalla città patavina di era trasferito a Vicenza.

 

Discorso a parte merita Treviso, dove, come si è già ricordato, esisteva una folta comunità ebraica. Qui già alla fine del Duecento vi erano operanti alcuni prestatori di origine tedesca e un secolo dopo, in seguito alla forte immigrazione soprattutto dalla Svevia e dalla Baviera, la comunità ebraica locale si fece sempre più consistente. Nel 1398, come ricorda Ariel Toaff, erano già operanti in città cinque banchi ebraici, “e il numeroso nucleo askenazita aveva aperto una sinagoga nel quartiere di San Giovanni Bruciato, possedeva un cimitero in località Quaranta Santi, e forniva servizi di macelleria ai suoi membri. Più tardi, dai responsi del rabbino Yehudàh Minz di Padova, alla fine del Quattrocento, sappiamo della costruzione di una seconda sinagoga e di un nuovo bagno rituale, la cui ubicazione aveva fatto nascere qualche problema nei rapporti tra la comunità ebraica e l’ambiente cristiano circostante.” Peraltro un documento del 1425 fornisce un elenco delle famiglie ebree residenti in città, accompagnato dalla qualifica professionale dei suoi membri. Sono quasi tutti prestatori e commercianti.  E sono soprattutto di origine tedesca, sicché si può facilmente dedurre che quella trevigiana era la comunità ebraica askenazita più numerosa dell’Italia settentrionale.

 

Da Treviso poi molti si mossero alla volta di Cividale, in Friuli, Conegliano, dove si costituì una notevole comunità, Crema, Cremona, Padova e Mestre.

 

Nel 1426 i veneziani conquistarono, strappandola ai Visconti, la città lombarda di Brescia. Naturalmente, essendo usciti da una guerra, immediatamente si pose il problema della rivitalizzazione dell’economia e della connessa circolazione monetaria. Ciò comportava, ovviamente, anche una riflessione sui prestiti, spesso il motore più efficace per far girare il modo economico-finanziario. Come sottolinea il Pullan, un partito in seno al Consiglio Comunale era favorevole ad un accordo con gli Ebrei, ufficialmente per liberare i cristiani dall’incombente peccato mortale dell’usura, in realtà perché , mentre i prestiti operati dai cristiani recavano un tasso variabile tra il 60 e l’80%, gli ebrei applicavano tassi introno al 20-25%. Il dibattito venne ripreso più volte nel 1434, nel 1441 e nel 1444, finché nel 1463 il Consiglio dei Dieci ratificò alcune concessioni. Ed il fatto di questa ratifica a posteriori, evidenzia come a quella data ci fossero già degli ebrei che operavano in città.



 

 

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