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N. 24 - Maggio 2007

IL GHETTO DI BETLEMME

Impressioni da un pellegrinaggio in Terra Santa

di Arturo Capasso

 

Sono appena tornato da un viaggio in Israele. La sosta-anche se per pochi attimi- sul Sepolcro di Gesù è piena di intensa commozione e vorresti sostare a lungo, per ricordare tutti i tuoi cari.

Ma la gioia di essere in un Paese pregno di spiritualità per tutte le tre religioni monoteiste, finisce ben presto, quando vado a Betlemme. Sorge a 765 metri sul livello del mare e nel 2005 contava ventiseimila abitanti. E’ una città della Cisgiordania palestinese e dista appena dieci chilometri da Gerusalemme. Per la prima volta, da millenni, queste due città sante sono separate. Israele vi ha costruito tutto intorno un muro alto otto metri e per entrarvi ci sono posti di blocco severissimi.

Tutti quelli che andavano a lavorare a Gerusalemme hanno perso il proprio lavoro. I rapporti sono ridotti al lumicino, la città non ha più flusso di danaro neppure dal turismo, che di fatto si è bloccato. Gli abitanti sono avviliti, calpestati.

Il visitatore turista pellegrino che viene da queste parti, cosa deve fare? Ha il dovere d’informare, una volta che è tornato a casa. Anzi, deve gridare fare sentire lo sdegno provato, anche a costo di essere inserito in una lista nera e non rivedere più Israele.

Giustamente il poeta ucraino Vasilij Simonenko, morto di cancro a soli ventotto anni, ha scritto: “Perdere il proprio coraggio significa perdere la propria dignità” A contatto con quella gente, sono andato lontano nel tempo, quando visitavo i Paesi dell’Est e la libertà era semplicemente un sogno.

Proprio gli Ebrei, quando si riunivano, dicevano: “L’anno prossimo a Gerusalemme” In quella frase c’erano la speranza , l’auspicio, la preghiera. Moltissimi non ce la fecero, molti ci riuscirono.

Hanno dimenticato quelle sofferenze, hanno dimenticato che cosa era stata la loro vita per secoli e secoli, obbligati a vivere nel ghetto. E’ opportuno un breve aggancio storico.

Per alcuni la parola ghetto deriva dal talmudico ghet, che significa “reclusione”, oppure dall’antica parola “ghetta”, sinonimo di “fonderia”, perché proprio un quartiere vicino ad una fonderia nel 1516 venne chiuso con mura e cancelli riservandolo solamente all’insediamento di Ebrei. Per altri, invece, potrebbe essere una contrazione di “borghetto” o una manipolazione di “guetto”, “guitto”, oppure del tedesco bitter, cioè barriera. Altro nome usato era quello di Giudecca.

C’era una sola entrata; le porte venivano chiuse al tramonto ed erano custodite da un cristiano. Erano obbligati ad entrare prima di notte e il cancello si riapriva soltanto all’alba. Nel 1555 Paolo IV con la bolla Cum nimis absurdum indicò le regole da seguire.

Erano veri arresti domiciliari, che diventavano più gravosi durante la Settimana santa, quando anche di giorno gli abitanti dovevano rimanere dentro il ghetto; l’apice della costrizione cadeva il venerdì: bisognava tenere chiuse porte e finestre, erano severamente vietati ricevimenti, balli e suoni.

Cari amici figli d’Israele, perché da ghettizzati siete passati a ghettizzatori? Questi muri alti otto metri offendono voi e tutto il mondo civile. Potrei elencare risoluzioni internazionali che stigmatizzano in modo perentorio il vostro comportamento. Abbattete quei muri. Essi non sono alti otto metri, ma vanno su, su, fino al cielo.

Gesù quando fu per l’ultima volta nella parte alta di Gerusalemme, pianse. . Luca (19,41-44) ricorda le Sue parole: “Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte, abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te, e non lasceranno in te pietra su pietra”

Lo sapete molto bene, la città è stata assediata 50 volte, conquistata 26 e distrutta 18 volte. Non fatelo più arrabbiare, abbattete quel muro della vergogna. Per voi.

La costruzione del muro viola il diritto internazionale anche secondo la Corte Internazionale di Giustizia, che così si è espressa il 9 luglio 2004, con 14 voti favorevoli ed uno contrario, quello dell’americano Thomas Buerghenthal.

Nell’articolo 153 si legge che “Israele è tenuto a restituire le terre, i vigneti, gli oliveti, e gli altri immobili sottratti a ogni persona fisica o morale al fine della costruzione del muro sul territorio palestinese occupato”

E più avanti, all’articolo 163, si ribadisce che “Israele è obbligato a riparare tutti i danni causati con la costruzione del muro nel territorio palestinese occupato, ivi compreso all’interno e sui confini di Gerusalemme Est”

Bisogna notare che la Corte ha affermato all’unanimità la propria competenza a rispondere alla domanda di parere consultivo, ma sulle decisioni da adottare c’è costantemente il parere negativo del già citato giudice.

E’ giusto ricordare a questo punto gli altri quattordici membri: Shi, presidente; Radeva, vicepresidente; Guillaume, Koroma, Veresl, Higgins, Parra-Aranguren, Koojimans, Rezek, Al-Khasawneh, Elaraby, Owada, Tomka, giudici.

 

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