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N. 26 - Febbraio 2010 (LVII)

Gerusalemme, Gerusalemme…
culla perduta della Cristianità?

di Lawrence M.F. Sudbury

 

Gerusalemme, duemila anni di storia e, tra essi, sommando periodi diversi, forse meno di tre secoli di vera pace, nonostante il suo nome, da “Ur –Shalaim”, significhi letteralmente “Città della Pace”…

 

Gerusalemme sacra, città di David e del Tempio, città del Calvario e della Resurrezione, città del volo notturno del Profeta e della sua Ascesa ai cieli, Gerusalemme mistica, tanto che per gli Arabi è solo “Al Quds”, “La Santa”, tanto che la sua voglia di Dio spunta ad ogni angolo, anche tra il vociare dei suk e tra i mitra dei soldati, nei negozi di oggetti sacri, nei discorsi della gente comune, negli abiti di migliaia di religiosi di forse troppe Fedi e Denominazioni diverse, nelle Sinagoghe, Moschee e Chiese che punteggiano ogni angolo della Città Vecchia …

Gerusalemme contesa, capitale di due Popoli che non possono rinunciare a lei …

 

Chi tiene Gerusalemme tiene il Medio Oriente” scrisse molti anni fa il Generale Allenby prima di prendere la città e aveva ragione: è lei, microcosmo a sé, antiche case di pietra e alti palazzi in cemento armato, folle che si accalcano e angoli dal silenzio quasi eremitico, ad essere la chiave, la pietra angolare della stabilità e la leva dell’instabilità di tutta l’area.

 

Ma la domanda è proprio questa: “Chi tiene Gerusalemme?”

Politicamente la risposta è facile.

In città basta guardarsi attorno: su ogni collina, bandiere con la “Stella di David”, in ogni strada, pattuglie di militari con la kippah, nipoti e pronipoti di Sefarditi olivastri, di Askenaziti dagli occhi azzurri, di Felasha dalla pelle nera, di Yemeniti così uguali agli Arabi.

E intorno, i nipoti e i pronipoti di uomini e donne scacciati dalla Spagna, ghettizzati in tutta Europa e in Africa, sfuggiti ai “pogrom” cosacchi, scampati dalla follia nazista e ora intenzionati a difendere senza tregua e senza pietà quella striscia di terra tra Mediterraneo e Giordano che è costata già il sangue versato in tre guerre, la paura quotidiana di prendere un autobus e non tornare mai più a casa e l’odio di chi è qui forse da prima di loro e certamente ora con loro, ma che, finalmente, è la loro terra, dove non sono più ospiti spesso mal sopportati, ma “padroni”.

 

Tenere Gerusalemme politicamente, però, non significa poi molto: la storia l’ha insegnato e tanti, dai Greci ai Romani, dai Crociati ai Turchi e agli Inglesi, hanno dovuto capirlo.

Il fatto è che Gerusalemme ha un’anima a sé, un cuore che non si fa imbrigliare dalle armi, siano esse lance e spade  o carri armati e fucili mitragliatori.

E, al centro di questo cuore, c’è la Città Vecchia, la “vera”, eterna, millenaria Gerusalemme, laddove il suono dello Shofar ha lo stesso peso del richiamo dei Muezzin, i lunghi boccoli dei Chassidim si contano nello stesso numero dei capelli neri dei ragazzini palestinesi e la parola di un Rabbi o di un Rebe ha lo stesso seguito di quella di uno Sheik.

Da qui nasce tutto, da questa capitale di una terra “troppo promessa” o troppo perduta per essere condivisa: da qui  nasce l’odio, da qui nascono le bombe dei “martiri”, le carceri piene di “quasi bambini” armati di pietre, la paura di andare anche solo a fare la spesa, gli appelli degli altri, di chi sta fuori, gli accordi sperati, firmati e mai messi in pratica, quella tensione che aleggia continuamente, come un cumulo di nubi all’orizzonte anche nelle giornate più serene, che le guardi e pensi che forse oggi non pioverà, ma sai che la tempesta potrebbe arrivare da un momento all’altro in tutta la sua violenza.

Da qui, dunque, nascono i due grandi schieramenti, gli Ebrei da una parte, con il loro diritto ad avere una terra, i Palestinesi dall’altra, con il loro diritto uguale e contrario ad avere una terra; da qui nascono le notizie che da decenni, con frequenza maggiore o minore a seconda dei periodi, riempiono i giornali di tutto il mondo.

 

E poi ci sono loro, i Cristiani di Terra Santa, lì in mezzo.

Loro non riempiono i giornali internazionali, se non quando si vuole dare un tocco di colore, quando si vogliono stupire (“Eh, hai visto i Preti che predicano tanto e poi …”) o indignare (“Eh, hai visto a che punto è arrivata la Chiesa …”) i lettori mostrando una quindicina di Monaci che si picchiano al Santo Sepolcro per una questione di precedenze in un Rito: come se i Monaci non fossero anch’essi esseri umani, come se quei Riti millenari non fossero per loro così importanti da valere ben più del denaro o del potere per cui i “laici progrediti” si scannano ogni giorno …

Loro … loro sono troppo pochi e, allo stesso tempo, troppi per avere un peso nelle vicende del Medio Oriente: troppo pochi con quell’1-2% della popolazione che non è sufficiente a dare alcuna visibilità politica, troppi con quelle tredici Chiese ufficialmente riconosciute dal governo (a cui se ne devono assommare almeno un’altra quindicina minori, eccessivamente “piccole” o “nuove” per ricevere riconoscimento), che solo da poco cercano, in qualche occasione, di far sentire la loro voce congiuntamente ma che raramente possono dimenticare secoli di rivalità e finiscono per dividersi su questioni liturgiche minime, su questioni dottrinali ormai in gran parte altrove risolte o sul possesso di questa o quella Cappella o di questa o quella Chiesa tra le tante che punteggiano ogni angolo della Terra Santa come “segnaposti” di qualunque capitolo della vita terrena di Gesù.

 

Eppure ci sono, questi Cristiani, e sono lì, in mezzo a tutti gli altri, in mezzo a quelli che si odiano e spesso parte di quelli che si odiano. E non sono lì solo perché sono arrivati da Roma o da Atene, da Alessandria o da Axum, da Mosca o da Londra: sono lì perché ci sono da sempre, dall’inizio, da 2000 anni fa … E non sono lì perché sono parte delle migliaia di pellegrini che ad ogni Natale (ad ognuno dei tre Natali celebrati lì) e ad ogni Pasqua (sia a quella cattolica che a quella ortodossa) affollano la Via Dolorosa, estatici per quella “Sindrome di Gerusalemme” che finisce per colpire un po’ tutti (fortunatamente, nella maggior parte dei casi, senza assumere tratti patologici) e innervositi per le continue insistenze a comprare dei negozianti dei suk, ma perché vivono lì, lavorano lì, ogni giorno, con i problemi di chiunque e, in più, con quelli tipici di questa zona, dalla pressione del “muro” del West Bank al traffico congestionato in stradine costruite originariamente per muli e carretti, dagli affitti alle stelle alla disoccupazione sempre più dilagante.

 

Ma di loro non si parla in Occidente, loro non contano e se, a Gerusalemme, la loro presenza è resa almeno evidente dai molti Patriarcati, a volte grandi palazzi con scaloni di marmo e soffitti affrescati, a volte miseri condomini popolari riadattati a conventi con annessi ostelli per pellegrini, e dal “possesso”, storico quanto nominale, di due dei quattro Quartieri della Città Vecchia (il Quartiere Cristiano ed il Quartiere Armeno, mentre gli altri due sono il Quartiere Mussulmano ed il quartiere Ebraico), per tutto il resto del mondo potrebbero quasi non esistere, non fosse che ogni tanto qualcuno si ricorda che questi “Cristiani di Gerusalemme” sono coloro che vivono nel luogo in cui è nata la Fede praticata da oltre due miliardi di persone sparse in tutto il pianeta.

A volte sembrerebbe che, nella mente di tanti fedeli, Gerusalemme sia stata persa alla Cristianità con la caduta del Regno Latino o con quella di Bisanzio, ma non è così: i Cristiani ci sono, come minoranza, estrema minoranza, ma ci sono e tengono viva una memoria così fondamentale, così costitutiva che senza essi forse tutte le Gerarchie Ecclesiastiche di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Canterbury, etc. perderebbero parte del loro stesso senso di esistere, le loro radici fondative.

Eppure sappiamo così poco di loro, di questi “Cristiani di Gerusalemme” venuti da lontano o nati e cresciti lì che siano.

Se siamo interessati alle questioni religiose, al massimo, di tanto in tanto, riceviamo notizie frammentarie su qualche rivista specializzata o su qualche sito internet: i Cristiani in Terra Santa sono sempre meno …; i Capi delle Chiese Cristiane di Gerusalemme hanno sottoscritto un documento comune …; le Chiese Cristiane si sono fatte promotrici di una iniziativa a favore della pace …; questa Denominazione è in lotta con quest’altra per tale ragione, mentre quella Denominazione è in lotta con quell’altra per tal’altra ragione …

 

Niente di più …

Eppure, la Religione di oltre due miliardi di esseri umani è legata inscindibilmente a questo luogo, ne è quasi intrinsecamente connaturata.

Per comprenderlo, per comprendere che se Roma, Costantinopoli, Canterbury o Axum sono alcune delle molte teste di un Cristianesimo diviso, per tutti esiste un solo cuore, che sta proprio a Gerusalemme, basta anche solo uno sguardo veloce alla “storia cristiana” della città.

 

Secondo il Nuovo Testamento, Gerusalemme fu la città in cui Gesù venne portato da bambino per essere presentato al Tempio e per partecipare ad una festività pasquale, fu la città in cui Egli predicò e guarì, in cui scacciò i mercanti dal Tempio, in cui celebrò l’Ultima Cena, in cui fu arrestato, condannato e crocifisso sul Golgota, in cui fu sepolto, resuscitò, ascese al cielo e in cui ritornerà per il Giudizio Finale.

La tradizione più diffusa (ma, come molte altre riguardanti la localizzazione dei vari edifici legati alla vita del Cristo, non universalmente condivisa da tutte le Denominazioni) vuole che il Cenacolo sia in una camera al secondo piano di un edificio sul Monte Sion, proprio sopra la Tomba di David, che il Getsemani sia vicino all’odierna “Chiesa di Tutte le Nazioni” sul Monte degli Ulivi, che il processo sia avvenuto alla Fortezza Antonia, a nord dell’area del Tempio, nel luogo in cui oggi sorge il Convento delle Sorelle di Sion (o, secondo un’altra versione, nel palazzo di Erode, sul Monte Sion). La Via Dolorosa è, tradizionalmente, il cammino percorso da Cristo verso il luogo della sua crocifissione, su cui oggi sorge l’imponente edificio della Chiesa del Santo Sepolcro, costruita originariamente da Costantino nel 336 d.C. e che include anche la Sua Tomba (sebbene alcuni, tra i quali Charles Gordon, ritengano che il vero Golgota fosse sul monte Sion, nei pressi della Porta di Damasco, dove ora si trova la Tomba del Giardino).

Tutto ciò fa di Gerusalemme, ovviamente, il luogo più santo della Cristianità.

 

Gli Atti degli Apostoli e le Epistole Paoline indicano Giacomo il Giusto, “fratello” di Gesù, come il primo Vescovo della Chiesa gerosolimitana: lui e i suoi successori rappresentarono il punto focale dei Cristiani ebrei fino alla distruzione della città da parte dell’imperatore Adriano nel 135 d.C.. Quando gli Ebrei vennero cacciati dalla “nuova” Aelia Capitolina, i Vescovi “gentili” che seguirono furono nominati sotto l’autorità dei Metropoliti di Cesarea e, soprattutto, sotto quella dei Patriarchi di Antiochia.

Solo con il “Canone VII” del Concilio di Nicea, nel 325 d.C., Gerusalemme ricevette uno speciale riconoscimento della sua importanza ma, ugualmente, non fu eretta a sede metropolitana. Di fatto, comunque, l’imperatore Costantino e sua madre Elena arricchirono la città di Chiese e luoghi sacri, rendendola una dei più importanti centri di pellegrinaggio della Cristianità.

Così, al Concilio di Calcedonia del 451 d.C., il Vescovo di Gerusalemme fu elevato al rango di Metropolita, andando a formare, con Roma, Costantinopoli, Alessandria e Antiochia, la cosiddetta “Pentarchia”. In effetti, ciò significò, per la Chiesa gerosolimitana, semplicemente passare dalla giurisdizione siriaca di Antiochia a quella greca di Costantinopoli che, per secoli, dominerà la vita spirituale cristiana di Gerusalemme, nonostante le pretese suprematiste del Papato romano.

 

Quando, nel 638 d.C., Sofronio, Patriarca di Gerusalemme, consegnò le chiavi della città alle forze mussulmane del califfo Umar, iniziò il periodo più buio per i Cristiani della Città Santa, protetti sì come “popolo del Libro” ma considerati sudditi di serie B e forzati a pagare ingenti tasse. La situazione peggiorò ulteriormente con l’appressarsi delle truppe della Prima Crociata: i Mussulmani, temendo che i Cristiani Orientali, che, dopo il Grande Scisma del 1054 erano rimasti nella zona d’influenza dell’Ortodossia (anche se la situazione non fu ben chiara e definita fino al 1517, con l’occupazione ottomana), avessero cospirato con i “Franchi”, uccisero gran parte della popolazione cristiana, gettando la città nel terrore. In effetti, l’accusa, sebbene i crociati fossero intenzionati, rispondendo all’appello dell’imperatore bizantino Alessio I Comneno, a proteggere i pellegrini cristiani e a salvaguardare i Luoghi Santi, profanati e distrutti dal folle califfo al-Hakim, era molto probabilmente infondata, soprattutto per gli scarsissimi contatti tra la Cristianità locale e quella latina.

Il 15 luglio 1099, le armate crociate presero Gerusalemme e fecero seguire a ciò un bagno di sangue dei residenti, dal quale solo i Cristiani Orientali si salvarono, pur venendo esiliati (in quanto considerati di nuovo colpevoli di cospirazione, questa volta a favore dei Mussulmani).

Gerusalemme divenne così la capitale del Regno Latino, con una Chiesa Latina (dipendente cioè direttamente dal Papa) e Clero occidentale. Dopo la morte di Goffredo di Buglione e l’intronamento di suo fratello Baldovino, nel 1115 il nuovo re offrì una sezione di Gerusalemme ai Cristiani Ortodossi di Transgiordania, soggetti a frequentissimi attacchi da parte dei Mussulmani e quando, nel 1187, Saladino riprese la città, il Santo Sepolcro e molte altre Chiese ritornarono sotto il controllo dell’Ortodossia.

 

Tra il XVII e il XIX secolo, numerose Nazioni cattoliche europee richiesero all’Impero Ottomano che i Luoghi Santi passassero definitivamente sotto il controllo dei Francescani, tradizionali Custodi di Terra Santa, ma tale controllo totale non venne mai accordato e venne sempre condiviso, non senza aspre dispute, tra Chiesa occidentali e Chiese orientali, finché, nel 1852, il sultano Abd-ul-Mejid I (1839–1861), con un “firman” della Sublime Porta, non stabilì definitivamente le competenze delle singole Denominazioni (in particolare per quanto riguardava Santo Sepolcro e Basilica della Natività a Betlemme), modificando parzialmente un precedente firman del 1767 in cui la custodia era affidata congiuntamente a Greco-Ortodossi (che facevano la parte del leone), Cattolici e Armeni Apostolici. In questo documento, ancora in vigore e conosciuto come “Status Quo”, oltre che alle suddette Denominazioni, anche ai Copto-Ortodossi, agli Etiopico-Ortodossi e ai Siriaco-Ortodossi vengono riconosciute responsabilità minori sui Luoghi Santi e le aree limitrofe e vengono dettagliatamente stabilite regole per i tempi e le aree di culto. Ciò, in ogni caso, non ha interrotto le dispute che, sino a tempi recentissimi, hanno coinvolto più o meno tutte le Denominazioni e soprattutto, stabilendo il firman che nessuna parte delle zone comuni possa essere toccata senza il consenso di tutte le comunità interessate, ha fatto sì che alcune aree non ricevessero per decenni, per il disaccordo di questa o quella Denominazione, i necessari restauri.

 

Allo stato attuale, tra Israele, Giordania (che, essendo per molte Denominazioni sottoposta al Patriarcato di Gerusalemme, viene inclusa nei computi statistici con i suoi 40.000 Cristiani) e zone sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, i Cristiani in Terra Santa si aggirano intorno ai 150-160.000 (circa 1,7% della popolazione, in netto calo rispetto al 2,1% del 2006), di cui circa 15.000 vivono a Gerusalemme.

 

Dei 120.000 Cristiani sotto il controllo diretto di Israele, circa 93.000 sono Cattolici, divisi nelle varie Denominazioni latina e cattolico-orientali. Nell’intera area il gruppo preponderante è quello dei Greco-Cattolici (noti come Melchiti), con circa 60.000 fedeli, stanziati in particolare in Galilea ma poco presenti a Gerusalemme. Seguono la Chiesa Cattolica Latina con circa 27.000 fedeli, quella Maronita, con 5.500 fedeli, quella Armeno-Cattolica con 400 fedeli, quella Siriaco-Cattolica con 300 e quella Copto-Cattolica, con un centinaio di aderenti.

Gli Ortodossi, divisi tra Ortodossi Bizantini (Greco-Ortodossi e Russo-Ortodossi) e Ortodossi Monofisiti o Orientali (tutte le altre Denominazioni) sono circa 13.000, suddivisi in 8.000 Ortodossi Bizantini (con una netta preponderanza di ecclesiastici greci), 2.000 Armeni Apostolici e 2.000 Siriaco-Ortodossi (particolarmente presenti a Betlemme), 700 Copto-Ortodossi e circa 100 (o poco più) Etiopico-Ortodossi.

I Protestanti, giunti  in Palestina solo nel XIX, assommano, tra Luterani e Anglicani, a circa 3.700.

Queste sono le Confessioni cosiddette “riconosciute” (fin dai tempi dell’Impero Ottomano). Ad esse vanno aggiunte una miriade di Chiese minori, per lo più nate dalla Riforma, che hanno rappresentanze numericamente piuttosto esigue (sebbene in crescita) e che non figurano nei dati ufficiali.

 

Dal punto di vista legale, l’attitudine formale al pluralismo religioso dello Stato d’Israele trova espressione già nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1948, in cui si trova: “Lo Stato d’Israele […] sarà basato sulla libertà, la giustizia e la pace, così come previsto dai Profeti d’Israele; assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti, indipendentemente dalla loro religione, dalla loro razza e dal loro sesso; garantirà libertà di religione, coscienza, lingua, educazione e cultura …”

Su questa base, la legislazione di Stato ha garantito formalmente la libertà di Fede, di scelta di festività religiose, di giorni di riposo settimanali e di amministrazione degli affari interni a tutti i Culti. Con una legge del 1967, inoltre, detta Legge di Protezione dei Luoghi Santi, si stabilisce che: “I Luoghi Santi saranno protetti da ogni dissacrazione o altra violazione e da qualunque atto possa violare la libertà di accesso dei membri delle varie religioni a luoghi che sono per loro sacri o che possa colpire i loro sentimenti riguardo a tali luoghi.”

Per quanto riguarda nello specifico i Cristiani, essi hanno rappresentanza presso il governo israeliano attraverso il “Dipartimento Ministeriale per le Comunità Cristiane”, responsabile del mantenimento dei rapporti tra tali comunità ed Esecutivo. All’interno della Knesset, inoltre, esiste una Commissione (la “Israel Knesset Christian Allies Caucus”) creata nel 2004 con l’intento di migliorare le relazioni tra Cristiani ed Ebrei e di promuovere la reciproca conoscenza tra i membri delle due Religioni.

Infine, in tutto il Paese è garantita la piena autonomia di ogni Comunità, autonomia di cui le varie Denominazioni cristiane hanno sempre largamente usufruito, anche se, ultimamente, si è registrata una sempre maggiore tendenza da parte dei Cristiani ad integrare le loro strutture sociali, mediche ed educative con le istituzioni statali.

 

Il quadro sembrerebbe, dunque, piuttosto idilliaco per i Cristiani (certamente migliore che in molte realtà mediorientali o che, per quanto riguarda il West Bank, durante il periodo di dominazione giordana) ma, in realtà, le cose non sempre funzionano in questi termini.

Il problema, in particolare, riguarda il fatto che circa il 70% dei Cristiani presenti in Terra Santa sia Palestinese. I Cristiani, al momento, rappresentano circa il 6,5% del Popolo Palestinese (sebbene il 56% di loro vivano all’estero, soprattutto dopo il grande esodo di rifugiati a seguito della guerra del 1948) e sono divisi in almeno 15 diverse Denominazioni, delle quali la Greco-Ortodossa (51%) e la Cattolica Latina (32%) risultano nettamente maggioritarie. Tale situazione è frutto dell’impegno missionario cristiano europeo del XIX secolo, che trovò terreno fertile soprattutto nella media-borghesia araba, attirata anche dalle possibilità educative offerte dalle varie Confessioni cristiane.

Come per ogni altro gruppo palestinese, le guerre del 1948 e del 1967 sono state assolutamente devastanti per i Cristiani palestinesi, con una diaspora enorme, che ha riempito i 60 campi profughi dislocati nei Paesi adiacenti e che ha portato ad una massiccia emigrazione verso l’Europa e il Nord America, deprivando Israele di una fetta consistente della sua popolazione cristiana (circa 12.000 unità hanno lasciato Gerusalemme Est, il West Bank e Gaza solo tra il 1967 ed il 1993). Al di là di questo, però, la comunità cristiano-palestinese, proprio per il suo background borghese, si è dimostrata particolarmente sensibile al clima di instabilità e incertezza che ha accompagnato la presenza militare israeliana. Conseguenza di ciò è stata la massiccia partecipazione della comunità all’Intifada del dicembre 1987, con numerosi arresti e fughe dalle zone di maggiore tensione e con una riorganizzazione interna susseguente gli “Accordi di Oslo”.

A tale riorganizzazione i Cristiani, normalmente con un livello di scolarizzazione più alto rispetto ai Mussulmani (sebbene il dislivello si stia notevolmente riducendo) e una maggiore presenza urbana, hanno partecipato attivamente, spesso ponendosi in contrasto diretto con le autorità israeliane.

Il rallentamento del processo di pace ed il mancato ottenimento da parte di molti delle condizioni socio-economiche sperate ha portato ad una ulteriore insorgenza del fenomeno migratorio (e un recente sondaggio, che ha indicato come il 65% della popolazione cristiana del West Bank sarebbe pronto a emigrare in altre Nazioni ha dimostrato che tale fenomeno resta in espansione). Ciò, naturalmente, comporta una continua emorragia di Cristiani dalla Terra Santa, con picchi che riguardano in particolare Armeni Apostolici, Siriaco-Ortodossi e Greco-Ortodossi, e, conseguentemente, un sempre minor peso sociale della comunità.

 

Gerusalemme appare, poi, particolarmente colpita in questo senso, con una popolazione cristiana che, con le sue 15.000 unità (di cui, all’incirca, 4.500 Cattolici, 3.500 Greco-Ortodossi, 1.500 Armeni Apostolici e 850 Luterani e Anglicani, a cui vanno aggiunti 2.600 Ecclesiastici stranieri) raggiunge solo il 35,5% della sua consistenza nel 1944 e con Chiese che rischiano seriamente di non avere più rappresentanza di fedeli nella Città Santa.

Anche per questo le Comunità cristiane appaiono essere tra le più attive sostenitrici del processo di pace: l’obiettivo non è solo quello di una vita più pacifica, ma anche quello di raggiungere una situazione di stabilità politica che riporti i livelli economici (si pensi solo alle mancate entrate legate al turismo e al commercio nei periodi più “caldi” dell’infinito contrasto arabo-israeliano) a situazioni accettabili  e tali da non dover obbligare la popolazione ad una migrazione praticamente forzata.

Allo stato attuale, comunque, le tensioni restano, in particolare riguardo allo status di Gerusalemme: gran parte della popolazione Cristiana sembra orientata verso la soluzione di una “capitale condivisa” tra Stato d’Israele e futuro Stato Palestinese, ma si tratta, allo “stato dell’arte”, di una strada che appare ben poco percorribile e, di conseguenza, il pessimismo risulta sempre più dilagante, nonostante i tentativi di rassicurazione di gran parte dei leader religiosi che, pur rendendosi conto dei problemi dei loro fedeli, sono particolarmente preoccupati del progressivo assottigliamento delle loro file.

 

Per altro, un ulteriore grave problema delle diverse Denominazioni cristiane risulta essere il mancato raggiungimento, nonostante le proprietà acquisite sia a Gerusalemme che in tutta la Terra Santa,  di una vera autosufficienza economica: tutte le Chiese Cristiane presenti in Israele sono, al momento, dipendenti da altre Diocesi in Paesi stranieri e, ovviamente, il sempre minor numero di fedeli sta progressivamente aggravando la situazione, rendendo molti Patriarcati di fatto “Missioni” sovvenzionate dalle strutture centrali delle loro Denominazioni.

In conclusione, forse il maggior problema dei Cristiani è che, come affermato dal professor Salim Munayer del “Bethlehem Biblical College”, anche tenendo conto del minor tasso di incremento demografico dei Cristiani rispetto ai Mussulmani, i Cristiani nella Città Santa dovrebbero essere, ad un livello di crescita naturale, il doppio rispetto a quelli odierni. Purtroppo se, soprattutto per i Cristiano-Palestinesi, continueranno a sussistere la condizioni attuali di bassissima natalità, di problemi economici e sociali (indubbiamente aggravati dalla barriera di sicurezza che divide Gerusalemme dai Territori dell’Autorità Palestinese e da Betlemme), di mancanza di alloggi e, a Gerusalemme Est, di un sistema educativo insufficiente, i Cristiani rischieranno concretamente di sparire dal luogo natale della loro Religione.

 

Spesso, come accennato, i Cristiani occidentali e la stampa, impegnata a relazionare sulle crisi tra Mussulmani ed Ebrei, tendono a dimenticare questa realtà, senza tener conto del fatto che i Cristiani di Terra Santa, a prescindere dalle loro differenti Denominazioni (che, per altro, sembrano tutte impegnate, quale più quale meno, in un dialogo ecumenico che porti ad azioni comuni verso obiettivi condivisi) potrebbero assumere, se adeguatamente sostenuti, un ruolo di mediazione tra le parti che per loro non è unicamente un imperativo morale (comunque proprio di ogni Cristiano) di cammino verso la pace e il riconoscimento della dignità umana di chiunque, ma anche una vera e propria condizione di sopravvivenza.

 

Forse, se qualcuno di noi è andato a passare le ultime festività natalizie o deciderà di trascorrere la prossima Pasqua nella “speciale atmosfera” che si respira nel centro della Cristianità, è bene che si ricordi che per i Cristiani di Gerusalemme ci sono altre 50 settimane in anno in cui sicuramente non dovrebbero essere dimenticati…

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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