Più volte nella storia delle scienze pensatori 
						innovativi e geniali sono stati attaccati da più parti 
						ed in modo molto violento: senza arrivare agli eccessi 
						di Bruno o di Galilei, basti pensare all’ostruzionismo 
						dei “baroni” dell’epoca nei confronti della teoria della 
						relatività di Einstein o del modello quantistico, allora 
						ritenuti obbrobi fisici e divenuti invece in breve tempo 
						l’ortodossia nel campo della fisica teorica. 
						
						
						Georg Ferdinand Ludwig Philipp Cantor (più semplicemente 
						Georg Cantor), matematico tedesco nato in Russia nel 
						1845, fu avversato per tutta la vita del suo ex maestro 
						Kronecker e da buona parte dei matematici finitisti a 
						causa delle sue straordinarie scoperte nel campo 
						dell’insiemistica, che hanno aperto la strada ad una 
						branca della matematica oggi considerata fondamentale. 
						
						
						Cantor si occupò per buona parte della sua vita di 
						infinito,o meglio di infiniti, e per la prima volta più 
						matematicamente che metafisicamente. Per trattare 
						l’argomento e fornire un’idea chiara di quale sia stato 
						il suo apporto alla matematica e alla filosofia 
						occidentali è necessaria una breve introduzione per 
						chiarire meglio il concetto stesso di infinito.
						
						
						L’idea di infinito è stata sempre presente nella mente 
						umana, ma ad un livello che potremmo definire 
						“subconscio”, ovvero come intuizione, speranza, 
						aspettativa, pensiero che ci attraversa guardando un 
						cielo di notte (“il cielo stellato sopra di me, la legge 
						morale dentro di me”, vi ricorda qualcosa?); ma in pochi 
						hanno avuto l’ardire di occuparsene seriamente, 
						“scientificamente”. 
						
						
						Ovviamente l’infinito è storicamente l’attributo di una 
						entità superiore, qualitativamente diversa e 
						trascendente l’uomo, un’entità che probabilmente ha 
						creato il finito che ci circonda, che lo permea e che lo 
						controlla: in una parola l’infinito è appannaggio di 
						Dio, a prescindere dal nome che gli si attribuisce o dal 
						luogo in cui lo si adora. 
						
						 
						
						A Dio (o agli Dei) è da sempre attribuito il carattere 
						infinito nello spazio, nel tempo o nella potenza; ed era 
						perciò assimilabile all’eresia il voler spiegare o 
						“giustificare” il concetto di infinito, per sua natura 
						inconoscibile dall’uomo. 
						
						
						Ciononostante, presto o tardi gli studiosi si 
						scontrarono con questa barriera che sembrava 
						insormontabile, sia che si occupassero di teologia sia 
						di matematica, di astronomia o di fisica, e una qualche 
						spiegazione la dovettero fornire. 
						
						 
						
						è questo 
						il caso del più grande “tuttologo” dell’antichità: 
						Aristotele. Per sua natura il grande filosofo (greco di 
						nascita e di cultura) era restio ad ammettere 
						l’esistenza dell’infinito, così come quella del concetto 
						di zero (il nulla, così come il tutto, rischiava di 
						minare alla base il sistema logico greco): perciò, la 
						sua trattazione si basa sulla distinzione tra infiniti 
						“attuali”, cioè esistenti, e “potenziali”, dunque mai 
						esistenti, “in divenire”. 
						
						 
						
						Aristotele ritenne che l’infinito esistesse solo in 
						potenza, e negava l’esistenza di un infinito “in atto”. 
						Secondo il filosofo greco l’infinito potenziale è un 
						processo, che in teoria potrebbe andare avanti per 
						sempre, senza giungere mai alla fine. 
						
						 
						
						Pensiamo alla successione dei numeri naturali 
						(1,2,3,4,5... e così via): non esiste un numero più 
						grande di tutti (potrò sempre aggiungere un’unità al 
						precedente e andare avanti), e dunque è un perfetto 
						esempio di infinito potenziale, essendo una successione 
						senza fine, un conteggio continuo senza un punto di 
						arrivo, e mai “attuale”. 
						
						 
						
						Aristotele ammetteva che si potesse tagliare un pezzo di 
						legno infinite volte, ma ovviamente ci sarebbe stato 
						bisogno di un periodo di tempo infinito e di una serie 
						infinita di azioni per farlo. 
						
						
						Ma Aristotele ci sorprende ancora: nella sua trattazione 
						l’infinito non viene considerato un “tutto”, un 
						contenitore onnicomprensivo, come si era pensato fino ad 
						allora, bensì qualcosa di “monco”: è “l’uno”, il 
						singolo, l’intero ad essere completo, mentre al di fuori 
						dell’infinito, per sua stessa natura, deve esserci 
						qualcosa, che lo rende imperfetto, incompleto. 
						
						 
						
						L’idea di infinito viene così rovesciata: non è più ciò 
						al di fuori del quale non vi è nulla, bensì ciò al di 
						fuori di cui c’è sempre qualcosa. 
						
						 
						
						Ogni singolo pezzo di materia è divisibile 
						indefinitamente: l’infinito è dunque immanente alla 
						materia stessa, fa parte della sua natura ultima e, 
						proprio per questo, è inconoscibile dall’uomo. 
						
						
						è 
						necessario, a questo punto, ricordare che per Aristotele 
						qualunque cosa aveva uno scopo, una “causa finale”, che 
						la rendeva esistente, conoscibile e le assegnava un 
						significato, quantunque futuro; l’infinito trascendeva 
						da questo schema, non potendo avere uno scopo e un 
						significato in un periodo finito di tempo, e non poteva 
						essere conosciuto: dunque, per ciò stesso, doveva essere 
						inesistente in atto. 
						
						
						Diverso era il discorso aristotelico per quanto 
						riguardava il tempo: il filosofo era dispostissimo ad 
						ammettere che la Terra, e tutto l’universo, esistessero 
						da un tempo infinito. 
						
						 
						
						Con una precisazione, però: innanzitutto, anziché 
						“infinito” usa la parola “illimitato” (differenza 
						sottile ma, soprattutto in geometria, fondamentale); 
						inoltre egli riteneva che il tempo esistesse come misura 
						del mutamento solo ed esclusivamente nel momento in cui 
						esso fosse in atto e qualcuno potesse registrarlo: gli 
						esseri senzienti e finiti non creano il tempo, ma esso 
						non poteva esistere se non accadeva nulla o se non c’era 
						una mente che ne registrasse lo scorrimento. 
						
						
						L’inconoscibilità e la trascendenza dell’infinito 
						rispetto alle questioni umane è rimasto un “dogma” del 
						pensiero occidentale per secoli, anche a causa di alcune 
						posizioni religiose (voler studiare l’infinito, 
						attributo di Dio, è forse voler studiare Dio stesso).
						
						 
						
						Ciononostante, nella seconda metà dell’ ‘800 Cantor si 
						dedicò con passione a questo argomento, grazie alla 
						condizione mediamente agiata che gli permise di studiare 
						in scuole private - a Francoforte - e di iscriversi poi 
						all’Università di Berlino, il centro della matematica 
						del tempo. Dopo la laurea e il dottorato, ottenne un 
						posto all’università di Halle (a metà strada tra Berlino 
						e Gottinga), città dalla quale, nonostante tutti i suoi 
						sforzi, non riuscirà ad “evadere”: a causa 
						dell’ostracismo dei suoi vecchi professori per le idee 
						innovative che andava professando gli fu sempre negata 
						una cattedra in un’università più prestigiosa, e fu 
						costretto a rimanere in una piccolo centro di provincia, 
						circondato da colleghi di modesto livello, fino alle 
						malattie nervose e ai periodi di ricovero in clinica 
						(dovuti probabilmente alla frustrazione per le 
						ingiustizie subìte). 
						
						
						Nel 1831 Karl Gauss, il massimo matematico dell’epoca, 
						aveva ribadito pubblicamente la sua convinzione in base 
						alla quale, in matematica, hanno senso unicamente gli 
						infiniti “potenziali”, e mai quelli “attuali”, perchè 
						ogni operazione matematica, per essere tale, doveva 
						essere portata a termine in un numero finito di passi e 
						dare un risultato preciso. E’ ovvio che, in questo 
						ambiente già elitario, ricoprire il ruolo di “voce fuori 
						dal coro” equivaleva a condannarsi alla solitudine e, in 
						larga misura, ad un’irriducibile ostilità manifestata 
						con qualunque arma a disposizione, finanche gli attacchi 
						personali (Kronecker, infatti, definì Cantor “un 
						corruttore della gioventù”). 
						
						
						Cantor, nell’avvicinarsi al mondo degli infiniti, si 
						pose una domanda cruciale: è possibile numerare un 
						numero infinito? Questo apparente paradosso logico e la 
						sua geniale soluzione furono il contributo più 
						importante di Cantor alla matematica: egli distinse vari 
						“tipi” di insiemi infiniti e li “catalogò”, aprendo così 
						una nuova branca della matematica, che vide estendersi 
						le sue possibilità d’azione a campi ancora inesplorati.
						
						 
						
						Galileo, secoli prima, si era già chiesto quale, tra due 
						elenchi di numeri infiniti, fosse il più grande: 
						mettendo in relazione biunivoca delle serie di numeri, 
						ad es. ogni numero e il suo quadrato (1-1, 2-4, 3-9, 
						4-16, 5-25 etc.), ottengo due elenchi infiniti: ma è 
						possibile dire quale dei due sia il “maggiore”, e 
						avrebbe senso dirlo? 
						
						 
						
						Lo stesso discorso si può fare mettendo in relazione la 
						successione dei numeri naturali con quella dei numeri 
						pari:
						
						
						1 ------ 2
						2 ------ 4
						3 ------ 6
						4 ------ 8
						5 ------ 10
						
						 
						e così via, all’infinito. 
						
						
						Cantor ritenne che ogni insieme infinito di numeri che 
						si possa mettere in corrispondenza biunivoca con 
						l’ordine dei numeri naturali abbia la stessa 
						“dimensione”. Chiamò questi insiemi “numerabili”, e li 
						denotò con la prima lettera dell’alfabeto ebraico, И0,
						aleph con zero. 
						
						 
						
						Per inciso, Cantor scoprì che anche le frazioni ottenute 
						dividendo un numero intero per un altro sono un infinito 
						numerabile: è bastato (si fa per dire!) trovare un modo 
						di elencarle tutte: 
						
						
						1/1; 
						2/1, 1/2;
						3/1, 2/2, 1/3;
						4/1, 2/3, 3/2, 1/4;
						
						
						E così via..
						
						
						Elencando le frazioni in modo che in ogni riga la somma 
						di numeratore e denominatore dia sempre uno stesso 
						numero (prima riga 2, seconda 3, etc.) Cantor riuscì ad 
						elencare tutte le frazioni, in modo da poter dimostrare 
						che esse sono, secondo la sua denominazione, un insieme 
						“numerabile”. 
						
						 
						
						Dimostrò così che tutti gli infiniti presi in 
						considerazione dai matematici e dai filosofi fino ad 
						allora esistiti sono “numerabili”. Ma ne esistono altri, 
						allora? 
						
						
						Scoprì che esistevano degli insiemi di numeri che non 
						possono essere messi in relazione biunivoca con 
						l’insieme dei numeri naturali, e li denominò infiniti 
						“non numerabili”. 
						
						 
						
						Per dimostrare l’esistenza di questo particolare tipo di 
						insiemi Cantor eseguì una dimostrazione insieme facile 
						ed acuta utilizzando i numeri reali (decimali razionali, 
						con un numero finito o periodico di cifre dopo la 
						virgola, e irrazionali, con un numero infinito e non 
						periodico di cifre dopo la virgola, ad es. π). 
						
						 
						
						Si procede per assurdo: come ipotesi assurda postuliamo 
						che sia possibile mettere in corrispondenza biunivoca 
						l’elenco dei numeri naturali e di quelli reali compresi 
						tra 0 e 1, e lo schema che ci viene fuori sarebbe 
						pressappoco così: 
						
						
						1 <------> 0,3427678564...
						2 <------> 0,496247863...
						3 <------> 0,3875647865...
						4 <------> 0,029357975...
						
						
						E così via, all’infinito.
						
						
						A questo punto ci è però possibile “costruire” un numero 
						decimale compreso tra 0 e 1 che non sia compreso nella 
						nostra lista; prendiamo la prima cifra decimale del 
						primo numero: se è uguale a 1 scriviamo 2, se è diverso 
						da 1 scriviamo 1; prendiamo poi la seconda cifra 
						decimale del secondo numero facendo lo stesso, e 
						continuiamo il procedimento all’infinito: otterremo un 
						numero decimale che non può esistere nel nostro schema 
						precedente. 
						
						 
						
						Ecco dunque la prova matematica che esistono 
						effettivamente degli infiniti “non numerabili”. 
						
						 
						
						Cantor li chiamò И1, aleph con uno, e i decimali 
						sono solo uno degli esempi che si potrebbero portare; 
						pensava inoltre che non potessero esistere infiniti 
						minori di И1 e maggiori di И0, ma non riuscì mai a 
						dimostrarlo. 
						
						
						Ciò che invece lo occupò ancora e che portò forse alla 
						sua scoperta (matematicamente parlando) più 
						spettacolare, era la ricerca di un insieme infinitamente 
						più grande dei precedenti (si potrebbe dire 
						qualitativamente più grande), un insieme che li 
						contenesse tutti, in due parole un “insieme assoluto”. 
						
						
						Si potrebbe pensare che sia sufficiente aggiungere dei 
						“corpi estranei” agli infiniti precedenti per ottenerne 
						di più grandi (ad es. aggiungere un # ogni 2 numeri 
						nell’elenco dei numeri naturali), ma questo procedimento 
						non muta la natura numerabile dell’insieme. 
						
						 
						
						Cantor invece riuscì a dimostrare che, dato un qualsiasi 
						insieme infinito, si può ottenerne uno infinitamente più 
						grande tramite i suoi sottoinsiemi. 
						
						 
						
						Prendiamo un insieme finito di 3 elementi {A;B;C} 
						possiamo creare un certo numero di sottoinsiemi tra i 
						suoi elementi: {A};{B};{C};{A,B};{B,C};{A,C};{A,B,C} 
						
						
						Partendo da un insieme infinito di elementi il numero di 
						sottoinsiemi risultanti sarà ovviamente infinito, e al 
						contempo infinitamente maggiore dell’insieme di 
						partenza.
						
						 
						
						Questo è il concetto degli “insiemi potenza”: ad es. 
						l’insieme potenza risultante dal gruppo dei numeri 
						naturali risulterà essere P[И0]. 
						
						 
						
						è 
						ovviamente possibile sviluppare un “insieme potenza” di 
						qualsivoglia insieme, anche di uno che sia già a sua 
						volta un “insieme potenza” di un altro gruppo, in una 
						escalation, neanche a dirlo, infinita. 
						
						
						Ma qui Cantor ammise invece l’esistenza di un “infinito 
						degli infiniti”, il cosiddetto infinito assoluto, 
						inconoscibile ed inarrivabile (torniamo al punto di 
						partenza?) al culmine della “torre degli infiniti” che 
						lui stesso aveva, con il suo lavoro spesso ingrato e 
						sminuito, contribuito ad innalzare, combattendo contro 
						idee e uomini troppo arretrati rispetto alle capacità 
						visionarie ed innovative di questo grande matematico, 
						troppo a lungo ignorato.