[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

178 / OTTOBRE 2022 (CCIX)


turismo storico

Storia del comune di Gaiole in Chianti
Il centro del Chianti
di Francesco Giannetti
 

Tracce di insediamenti umani nel Chianti le troviamo sin dalla più lontana preistoria, più evidenti certamente quelle di Cetona, dove nelle grotte dell’antichissimo vulcano si sono rinvenuti reperti importantissimi dell’epoca paleozoica, con moltissimi manufatti dell’era preistorica; ma non è da meno quanto si è scoperto nella cava di lignite di Bossi, per la strada che conduce a San Felice, ai limiti dell’antichissimo lago del Miocene. Qui forse esisteva una palude residua nelle cui prossimità, come dimostrano i rudimentali strumenti trovati misti alle scaglie della lignite estrattiva, c’era un antichissimo villaggio.

 

Le viti fossili inserite nelle falde di travertino di San Vivaldo, secondo i geologi, risalgono a un’era immediatamente precedente a quella in cui apparve l’uomo sulla Terra, ma si tratta di vitis vinifera, che ritroveremo in fossili più recenti del Paleolitico superiore; ciò conferma come già nella più tarda antichità questa pianta esistesse, se non addirittura già coltivata dai primi agricoltori.

 

Epoca Etrusca e Romana

 

Reperti di civiltà più recente, quella etrusca, si ricordano fino dal XVI secolo, quando nel 1500 fu scoperto casualmente un sepolcreto nei pressi di Castellina in Chianti. L’ipogeo di Castellina risale al VII secolo a.C. ma non è il solo, perché altri sepolcreti etruschi sono stati trovati in tempi recenti a Brolio, a San Marcellino, a Cacchiano e in numerose altre località e dimostrano come gli etruschi abitarono quasi in ogni parte della zona del Chianti. Ma a queste località, già conosciute in passato, se ne sono aggiunte recentemente molte altre che hanno contribuito a una conoscenza più vasta corrispondente al periodo storico della civiltà arcaica, come quella di Cetamura del Chianti.

 

“Valle del Chianti”, così nel Medioevo veniva chiamato l’ampio bacino del torrente Massellone, il corso d’acqua che scaturisce dal poggio di Montegrossi, bagna Gaiole e scorre poi sino a confluire nell’Arbia al ponte alle Granchiaie, in prossimità del castello di Tornano. La vallata del Massellone copre gran parte dell’attuale territorio del comune di Gaiole, dove non a caso, sono ubicate le località per le quali possediamo le prime attestazioni documentarie che fanno menzione del territorio “Chianti”. La più antica di esse risale all’ultimo decennio del XII secolo: si tratta di un documento dell’Archivio dell’Abbazia di Coltibuono nel quale, riferendosi a un non meglio precisato castello, si dice che esso è posto “in Clanti…anteposto Montegrosso”. Fanno poi egualmente riferimento località situate nella valle del Massellone documenti di natura fiscale o amministrativa del XIII secolo che, ai fini di una migliore identificazione dei luoghi, imputano gli stessi a una più vasta entità territoriale, a un comprensorio, il Chianti appunto.

 

Sulla base di ciò si può ipotizzare che originariamente “Chianti” sia stato il nome del torrente Massellone ed abbia così fatto nascere l’espressione “valle del Chianti”. I nomi dei corsi d’acqua, infatti, sono quelli che più tenacemente si conservano, tanto che non pochi fiumi e torrenti otscani sono riconducibili a etimi etruschi o a basi mediterranee. E Chianti, è altamente probabile e verosimile che risalga alla base “-CLAN”, tipica di una serie di idromi particolarmente concentrati nella zona aretina e fiorentina. Si comprende quindi perché nella valle del Massellone o del Chianti che dir si voglia, abbondino le testimonianze archeologiche e toponomastiche attestanti l’antichità di insediamento nella zona, nonché la stabilità dei punti insediativi. Per i nomi di luogo ad esempio, è particolarmente presente la stratificazione linguistica etrusca, con i vari Rietine, Rufena, Vertine, Spaltenna, Perano, Rentennano ecc.; e notevole è anche la diffusione dei toponimi derivati da personali latini, con la caratteristica terminazione “prediale” in “-ANO”: Bricciano, Buriano, Cacchiano, Lucignano, Metrano, Nebbiano.

 

Circa i ritrovamenti archeologici, non è un caso che proprio all’inizio della vallata del Massellone, a Cetamura, sia stata appurata l’esistenza del più importante stanziamento etrusco-romano della regione chiantigiana. Individuati nel 1964b da Alvaro Tracchi, i resti dell’abitato si trovano all’inizio dello sperone che dalla dorsale principale dei monti del Chianti si dirige verso Castellina. La prima grande fioritura è databile intorno al III secolo a.C., epoca alla quale risalgono i resti di una fornace di laterizi individuata nella zona nord dell’abitato. Nata come sito di altura, evidentemente con intenti difensivi, Cetamura in età romana assunse un ruolo di centro commerciale, trovandosi all’incrocio del percorso di crinale che collegava il Chianti con Volterra, con l’antico itinerario svolgentesi lungo tutto lo sviluppo della catena chiantigiana, che conduceva da Chiusi a Marzabotto, attraverso Pistoia e il valico Porretta.

 

Del periodo romano di Cetamura si ha la testimonianza di una villa eretta sulla cima dell’ “arce”, messa in evidenza dagli scavi diretti dalla dottoressa Nancy Thomson de Grummond della Florida State University, nel corso dei quali è stato individuato, tra l’altro, un impianto termale del II secolo d.C.; con tanto di tepidarium e di calidarium. L’archeologia ha inoltre confermato la frequentazione del sito di Cetamura per buona parte dell’età medievale, come del resto è attestato da documenti del XII secolo che ricordano la località come sede di un “castrum”.

Tra gli altri ritrovamenti archeologici avvenuti nella valle del Massellone emergono per la loro importanza quelli pertinenti a una villa romana “alquanto estesa e lussuosa”, che doveva sorgere presso la pieve di San Marcellino. La chiesa stessa, seppur ricostruita ex-novo nell’Ottocento, dimostra di aver riutilizzato colonne di marmo pregiato e capitelli corinzi di marmo bianco provenienti dalla villa. Altri capitelli e colonne erratiche sono poi conservati nella canonica, mentre fabbricati annessi alla chiesa provengono due cippi con iscrizioni databili intorno al I-II secolo d.C.

 

Il Medioevo

 

La continuità degli insediamenti dall’antichità all’alto medioevo è testimoniata dalle prime fonti scritte, essendo documentata l’esistenza nel territorio di pievi, cioè di chiese che funsero da poli aggregativi della popolazione rurale, adeguandosi alla tipologia insediativa altomedievale imperniata sul villaggio, piccolo agglomerato formato da poche modestissime case, nel quale vivevano i coltivatori. L’organizzazione ecclesiastica del territorio, andò infatti costellando la campagna di pievi, cioè di chiese rurali che per lo più sorsero, non in corrispondenza del villaggio demograficamente più consistente, bensì di quello più agevolmente raggiungibile dalle popolazioni dei villaggi all’intorno, in quanto posto sulla principale via di comunicazione transitante per il territorio sottoposto al governo religioso della pieve.

 

Nella campagna gaiolese si costituirono in età altomedievale cinque chiese plebane: San Vincenti, San Marcellino, San Pietro in Avenano, San Polo in Rosso e San Giusto in Salcio. Già nel 715 troviamo infatti menzionata la pieve di San Vincenti, mentre risalgono alla seconda metà del X secolo i documenti che ricordano per la prima volta le pievi di San Marcellino e San Pietro in Avenano. Sono successive al Mille le prime notizie riguardo alle altre due chiese plebane, sebbene non sia improbabile una loro maggiore antichità.

 

A eccezione della pieve si San Marcellino, che come abbiamo accennato fu radicalmente ricostruita nell’Ottocento, tutte le altre chiese si presentano oggi nella veste loro conferita dal generale rinnovamento che a partire dall’XI-XII secolo interessò anche il Chianti l’edilizia religiosa. Tutte le pievi ricordate sono così accomunate dal possedere un identico impianto basilicale, a tre navate, divise da pilastri e concluse da una o tre absidi. Comune è anche il tipo di copertura lignea, fatta eccezione per la pieve di San Polo in Rosso, che nella seconda metà del Trecento sostituì le capriate con ogivali volte a crociera che conferirono all’edificio un aspetto romanico-gotico. Con ogni probabilità nella stessa occasione a San Polo in Rosso fu realizzata, un ciclo di affreschi con scede della vita di Cristo e della sua Passione, che mostrano assonanze con la pittura di Bartolo di Fedi e di Luca di Tommè.

 

In tutte le pievi è rilevabile una notevole accuratezza dei rivestimenti murari, sempre realizzati a regolari filaretti di bozze di alberese ben scalpellinate. L’assenza di motivi decorativi fa sì che la preziosità del paramento murario costituisca l’unica forma di ornamentazione. Anche i campanili hanno caratteri non dissimili nelle varie chiese, essendo sempre costituiti da semplici torri, naturalmente sempre rivestite accuratamente a filaretti di alberese, la bella pietra calcarea locale, con cella per le campane alla sommità. Eccezionalmente conservate sono le torri campanarie delle pievi di Spaltenna e di San Polo in Rosso. Quest’ultima tra l’altro, si trovò a fungere da cassero castellano quando nel Quattrocento la pieve fu inserita entro una fortificazione che fece assumere al complesso l’aspetto di un vero e proprio fortilizio.

 

Il territorio gaiolese si distingue per aver conservato più di altre zone del Chianti, una diffusa testimonianza dell’insediamento rurale tipico dell’età pre-comunale. Numerosi villaggi, infatti, ancora punteggiano la campagna, alternandosi alle case coloniche isolate, frutto della successiva evoluzione della struttura agraria. Ama, Adine, Casa Nuova di Ama, Galenda, San Marcellino, San Sano, Rietine, Fietri, Linari, Nusenna, Starda, ancora conservano la modesta consistenza urbana del piccolo villaggio medievale e talvolta anche case-torri o costruzioni due-trecentesche di notevole rilievo come a San Sano e a Galenda.

 

I villaggi ci permettono anche di verificare la capillarità della diffusione delle manifestazioni del rinnovamento dell’edilizia religiosa nel periodo romanico, e di constatare come essa avvenne ovunque con le stesse modalità, di alto livello qualitativo. Non di rado ci è dato infatti di scoprire all’interno dei villaggi che abbiamo menzionato le primitive chiesette rurali, dipendenti dalle pievi. Si tratta di piccoli edifici ad aula absidata che si caratterizzano anch’essi per la perfetta esecuzione delle varie componenti architettoniche. Esempi giunti a noi perfettamente integri sono rilevabili ad Adine, a San Sano, a San Marcellino, e ad Ama.

 

A Casanuova di Ama si conserva anche una quattrocentesca cappella stradale affrescata con un ciclo pittorico rappresentante una “Maestà” che per la grandiosità della composizione e i caratteri del disegno, si richiama alla pittura fiorentina del primo Rinascimento. Sulla parete di fondo si staglia la figura della Madonna col Bambino in trono, con ai lati due angeli, San Michele Arcangelo e San Francesco, mentre lungo le pareti laterali è raffigurata tutta una serie di Santi scelti in ordine ai bisogni religiosi della popolazione contadina: Sant’Antonio Abate con ai piedi un maialino cintato, Santa Lucia con i simboli del martirio, San Giovanni Battista, San Pietro, l’Evangelista Luca e Santa Maria Maddalena.

 

A partire dall’XI secolo, accanto ai piccoli villaggi rurali fecero la loro comparsa nuove realtà insediative: i castelli. Essi nacquero per lo più in corrispondenza dei centri della proprietà agraria signorile e si caratterizzarono per essere dotati di un apparato difensivo costituito da cinte murarie rafforzate da torri. Già nella prima dell’XI secolo sono ricordati come sedi castellane Brolio, Montegrossi, Vertine, Barbischio e Lucignano; in seguito si aggiungeranno Tornano, Castagnoli, Cacchiano, Campi, Monteluco di Lecchi, Monteluco della Berardenga, Montecastelli e Stielle.

 

Seppur espressione della piccola aristocrazia rurale, i castelli in questione nel XII secolo facevano in qualche modo capo alle grandi famiglie comitali dei Guidi, degli Alberti e dei Berardenghi, o ai locali e potentati come la consorteria dei Firidolfi, nella quale è da collocare l’origine dei Ricasoli. Ma nel corso dello stesso secolo la crescita dei Comuni di Firenze e di Siena, con la sconfitta del feudalesimo determinò la sottomissione dei “signori di castello” chiantigiani, e gli stessi Firidolfi, da fieri oppositori, divennero i principali alleati della Repubblica fiorentina.

 

All’inizio del Duecento, con il “Lodo di Poggibonsi”, il formarsi nel Chianti di una precisa linea di confine tra gli stati fiorentino e senese, fece sì che non pochi dei castelli ricordati divennero i punti forti dell’organizzazione difensiva gigliata nel Chianti. La successione dei fortilizi fiorentini iniziava da Brolio e per Montecastelli, Rentennano, Cacchiano, Tornano e Monteluco a Lecchi, giungeva sino alla pieve di San Polo in Rosso, fronteggiando le fortezze senesi di Aiola, Selvole, Cerreto, Sesta e Cetamura.

 

Seppur rimaneggiati in più epoche per motivo dei danneggiamenti subiti nel corso delle ricorrenti guerre tra Firenze e Siena o per successivi cambiamenti di destinazione, la maggior parte dei castelli del territorio gaiolese ancora conserva consistenti strutture degli apparati difensivi medievali. Sempre, comunque le murature superstiti sono cronologicamente collocabili nel Due-Trecento e in alcuni casi, a un’epoca ancora più tarda.

 

Fa eccezione il fortilizio di Montegrossi che, per essere stato, a partire dalla seconda metà del XII secolo, uno dei punti di appoggio dell’autorità imperiale in Toscana, anche se ridotto allo stato di rudere, denuncia nei suoi caratteri stilistici e nell’imponenza delle sue strutture, una maggiore antichità e una qualità architettonica decisamente superiore, quale si conveniva a un edificio che costituiva un emblema del potere dell’Imperatore.

 

Di alcuni castelli non rimangono che pochi, suggestivi ruderi: vedi Monteluco della Berardenga, e Montecastelli. Altre volte le strutture superstiti sono modeste: vedi Barbischio, Campi e Lucignano. In tutti questi casi per ricostruire, anche se con larga approssimazione, i caratteri delle antiche fortificazioni, non possiamo che rifarci alla preziosa testimonianza iconografica delle cinquecentesche “Mappe di Popoli e Strade” della Magistratura fiorentina dei Capitani di Parte Guelfa. Ma vi sono anche castelli che hanno conservato consistenti residui dell’antico apparato fortificatorio: Vertine, Castagnoli, Monteluco di Lecchi, Tornano, Cacchiano ancora posseggono, in maggiore o minore misura, le cinte murarie che richiudevano gli abitati, le torri di difesa e i poderosi casseri in cui si ritiravano i difensori quando gli assedianti fossero riusciti a forzare le mura. Vertine, in particolar modo, mostra ancora nel suo impianto approssimativamente ovale, la struttura urbana originaria, con il tessuto abitativo due-trecentesco, anche di notevole qualità, disposto attorno a un anello interno di strade e di slarghi. Lo stesso può dirsi di Castagnoli e di Monteluco di Lecchi, anche se minore è la consistenza urbana dei due abitati, entrambi ugualmente racchiusi entro un circuito murario presso a poco ellittico.

 

Ancora diverso è il caso di Meleto, che non fu propriamente un castello, bensì una residenza padronale fortificata di pertinenza dei Ricasoli. Siamo stavolta difronte a un insediamento che più di qualunque altro nel Chianti evoca una struttura castellana, presentandosi come una grande costruzione quadrilatera dalle alte muraglie rafforzate agli angoli da torri cilindriche o da ballatoi sporgenti sostenuti da mensole. Ma a un attento esame delle murature ci si rende conto come il complesso sia il frutto di una serie di successivi ingrandimenti che portarono la primitiva casa-torre duecentesca, ora all’interno del quadrilatero, a dotarsi di cinte murarie sempre più ampie e nel Quattrocento all’aggiunta delle torri cilindriche e dei ballatoi.

 

Infine, Brolio, senza dubbio il più famoso castello chiantigiano, anch’esso appartenente ai Ricasoli. Per la sua posizione strategica, ai margini del contado fiorentino e a solo poche miglia da Siena, Brolio fu particolarmente munito dalla repubblica gigliata che, sul finire del Quattrocento, ne fece una delle prime fortezze bastionate della Toscana, all’interno delle quali furono accolte le primitive fortificazioni duecentesche. È rimasto pressoché integro con il suo grandioso circuito murario scarpato, a forma di pentagono irregolare rinforzato agli angoli da cinque bastioni: le mura hanno uno sviluppo di ben 450 metri e un’altezza variabile tra i 14 e i 16 metri.

 

Per completare il quadro degli insediamenti medievali del nostro territorio rimane da accennare a quelli relativi a due altri tipi di enti ecclesiastici, entrambi legati alla presenza di comunità di religiosi: le chiese monastiche e le chiese canonicali. A parte il piccolo cenobio femminile di San Giusto a Rentennano, sul cui sito sorge oggi una fattoria la cui costruzione ha inglobato i pochi resti del monastero, l’unico complesso monastico esistente nel territorio di Gaiole è rappresentato da San Lorenzo a Coltibuono, che fu una delle principali abbazie della congregazione vallombrosana. Soppresso nel 1810 e successivamente trasformato in fattoria, il cenobio ha però conservato i caratteri dell’insediamento monastico, con il chiostro e i diversi ambienti che un tempo ospitavano i monaci. Gli accrescimenti e gli abbellimenti frutto delle ristrutturazioni susseguitosi nel corso dei secoli nascondono quasi ovunque le strutture medievali, che invece sono ancora ben visibili nella chiesa, una bella costruzione romanica a un’unica navata, con pianta a croce latina e transetto absidato. All’incrocio della navata con il corpo trasversale della chiesa si eleva una cupola, sormontata da un tiburio quadrangolare con una singolare copertura a pagoda. Una possente torre campanaria si eleva tra il braccio sinistro del transetto e la navata: le sue eccezionali dimensioni l’assimilano piuttosto a un cassero e all’occorrenza, è assai probabile dovesse svolgere funzioni difensive.

 

Assai più modesta è in genere la consistente dimensionale delle chiese che in epoca medievale ospitarono delle piccole comunità canonicali. Si tratta di edifici religiosi che per grandezza, non si discostano molto dalle chiesette dei villaggi: vedi le canoniche di Mello, Sereto e Monteluco a Campi, edifici ad aula che hanno sostanzialmente conservato gli originali caratteri romanici solo parzialmente modificati dai successivi rimaneggiamenti. Fa eccezione la canonica di San Pietro in Avenano, già pieve come abbiamo visto, che possiede una struttura basilicale a tre navate. La chiesa presenta poi un’altra particolarità: sebbene ricostruita nei primi decenni del XVI secolo, ha caratteri gotici nella successione dei pilastri ottagoni che la spartiscono in tre navate e nella copertura, realizzata mediante ogivali volte a crociera.

 

Sino a tutto il XII secolo il toponimo “Gaiole” costituiva un semplice “luogo detto”, un modesto agglomerato rurale situato alla confluenza del Borro Grande con il torrente Massellone. Il villaggio nel corso del Duecento acquistò sempre più importanza: trovandosi in posizione baricentrica nei confronti dei castelli che punteggiavano le colline intorno (Barbischio, Vertine, Castagnoli, Montegrossi) vi furono infatti trasferiti i mercati che sin dal 1077 è documentato si tenevano presso il castello di Barbischio. Poi a partire dai primi anni del XVI secolo, la crescita fu ulteriormente favorita dalla costruzione della “Lega del Chianti”, nella quale Gaiole sarebbe divenuto capoluogo di “Terziere”.

 

Gaiole nacque quindi come luogo di mercato e dovette la sua fortuna al fatto di trovarsi in un punto particolarmente felice, in un’area cioè ad ampio respiro, sulla strada che risaliva la dorsale chiantigiana per poi digradare nel Valdarno superiore, all’incrocio con le vie che conducevano ai principali abitati dell’ampia valle del torrente Massellone.

 

Già nel 1215 sembra attestata la presenza di un mercato a Gaiole, in una pergamena dell’abbazia di Coltibuono la località trovandosi menzionata quale sede di “forum”, mentre nella seconda metà del Duecento è documentata la sorveglianza del mercato gaiolese da parte del Comune di Firenze, come provano le “Consulte della repubblica”, che contengono atti del Governo fiorentino riguardanti l’assegnazione della gestione del mercato stesso.

 

Ancor oggi Gaiole, disteso lungo la strada che porta al Valdarno, ha un abitato che si apre a formare una grande piazza centrale a forma di imbuto, con ciò denunciando chiaramente di essersi strutturato sull’area di un mercatale. Questa caratteristica conformazione urbana è testimoniata alla fine del Cinquecento dalle “Mappe di Popoli e Strade” dei Capitani di Parte Guelfa, che rappresentano il borgo di Gaiole con la configurazione tipica dei mercatali, evidenziata dalla oblunga piazza centrale e dai dettagli delle stesse unità abitative, molte delle quali sono raffigurate con le aperture degli sporti delle botteghe in facciata.

 

Un’attenta lettura della planimetria dell’abitato, specie nella versione offerta dalla mappa catastale del 1832 consente di individuare nel tessuto urbano di Gaiole addirittura due aree destinate a un mercato: una sulla sinistra del Massellone, è rappresentata dalla grande piazza che ancor oggi costituisce il fulcro dell’insediamento; l’altra anch’essa grossolanamente imbutiforme, è ubicata più a monte, sulla destra del torrente. Quest’ultima costituisce il primitivo mercatale, come attestano i caratteri architettonici due-trecenteschi di molti edifici di questa parte dell’abitato che mostrano elementi tecnico-decorativi d’impronta medievale, del tutto assenti invece nelle costruzioni che si affacciano sull’altra piazza, evidentemente più recente.

 

La mappa ottocentesca, se raffrontata con la situazione odierna, testimonia anche dello sviluppo urbano che ha interessato Gaiole, specie dopo la seconda guerra mondiale, determinando la dilatazione del tessuto abitativo, grazie al quale il paese si è arricchito anche di edifici pubblici nonché della neoromanica chiesa parrocchiale di San Sigismondo, eretta nei primi anni del Novecento con il concorso di tutto il popolo gaiolese.

 

Età Moderna

 

Con l’affermarsi della struttura agraria moderna a base poderile, la rete degli insediamenti andò modificandosi per il diffondersi delle case isolate, “su podere”. Già a partire dal Due-Trecento, il territorio gaiolese andò punteggiandosi di “case da padrone” e “case da lavoratore”, che si aggiunsero ai villaggi rurali e ai castelli, talvolta sostituendosi a essi. Esempi di turrite case padronali del medioevo, successivamente declassate a case coloniche, sono a Monteluco di Lecchi, Cancelli, Le Morelline, Monte Lodoli, Tarci, Le Selve, Camporata; ma tracce di costruzioni signorili due-trecentesche sono riconoscibili anche altrove, inglobate in edifici che hanno riutilizzato le loro strutture.

 

La successiva trasformazione del sistema poderile in sistema fattoria, per l’accentuarsi delle componenti capitalistiche della struttura agraria, porterà alla sostituzione delle case-torri padronali con costruzioni più ed articolate, a sviluppo prevalentemente orizzontale. Negli esempi più antichi, come il grande edificio di San Pietrino presso Avenano, verrà conservato l’elemento turrito, ma in seguito, a partire dal XVI secolo, le case da padrone abbandoneranno ogni riferimento all’edilizia medievale e daranno vita a costruzioni a impianto quadrangolare, con tetti a padiglione e con le facciate scandite dall’ordinata disposizione delle aperture, secondo moduli stilistici d’impronta chiaramente rinascimentale.

 

Nasceranno così grossi complessi che in taluni casi occuperanno i siti già occupati da castelli e villaggi: i manieri di Cacchiano e di Brolio ospiteranno così le omonime fattorie, entrambe dei Ricasoli, trasformando e integrando le strutture medievali degli antichi fortilizi. Nel caso di Brolio poi si avrà l’ulteriore intervento ottocentesco, a opera di Bettino Ricasoli, che stravolgerà completamente la preesistente casa di fattoria facendola divenire un castello neo-gotico, peraltro di pregevole fattura, su progetto dell’architetto Pietro Marchetti. A San Donato in Perano e a Vistarenni, entrambi documentati come villaggetti ancora all’inizio del Quattrocento, i modesti edifici che componevano i due piccoli agglomerati rurali saranno sostituiti da due grandi fattorie. Nelle “Mappe di Popoli e di Strade” dei Capitani di Parte Guelfa, alla fine del Cinquecento, in corrispondenza di San Donato in Perano è già raffigurata una costruzione signorile, indicata come “Palazzo de GiouaniStrozi”, nucleo più antico della grandiosa casa di fattoria che nel XVII secolo ingloberà anche la chiesetta e gli altri edifici a essa contermini. Lo stesso accadde a Vistarenni, dove in luogo del villaggio sorgerà un grande edificio quadrilatero, probabilmente a opera della famiglia chiantigiana dei Pianigiani, che nel 1714 ne acquisì la proprietà. Poi nei primi del Novecento, la casa di fattoria venne “ammodernata” dai nuovi proprietari, i Sonnino, che aggiunsero la scenografica facciata dal ricco apparato decorativo.

 

A Meleto le trasformazioni della grande casa padronale fortificata riguardarono soprattutto l’interno e l’organizzazione dell’ambiente tutto intorno. Ma qui più che l’aggiunta di locali funzionali all’attività produttiva, si badò ad arricchire la dimora signorile, realizzando tutta una serie di sale con decorazioni in stucco ed affreschi e costruendo addirittura un piccolo teatro. Il proprietario Giovan Francesco Ricasoli, progettò egli stesso nel 1738 la trasformazione che fece del turrito maniero di Meleto una “villa di delizia”.

 

Ma non mancarono i casi in cui si preferì costruire ex-novo gli edifici: è quello che avvenne ad esempio, a Castagnoli dove nel Settecento i Tempi, la facoltosa famiglia fiorentina che ne era proprietaria, realizzò l’abitazione padronale a lato dell’antico castello, dirottando nei locali di quest’ultimo gli ambienti e le attrezzature per la trasformazione e conservazione dei prodotti. Un altro esempio di fattoria che non nacque sovrapponendosi a un insediamento preesistente è offerto da “La Torricella”. Anche se successivamente declassata a casa colonica, l’edificio ha conservato il regolare impianto geometrico delle costruzioni signorili del Cinquecento, con l’ordinata disposizione delle aperture dotate delle caratteristiche membrature in arenaria, così come del resto appare nelle “Mappe di Popoli e Strade” dei Capitani di Parte Guelfa. Rifacimenti che implicarono la realizzazione di nuove costruzioni si ebbero anche nelle case di fattoria che, a partire dal XVII secolo, si costituirono ad Ama dove, a opera dei Ricucci nel Settecento, e dei Pianigiani e dei Montigiani, nel secolo successivo, vennero a esistenza tre ville-fattorie che nella loro sobri eleganza formale si rifanno alla tradizione architettonica toscana, ripetendo moduli ormai entrati a far parte della coscienza artistica anche delle più modeste maestranze provinciali.

 

Con l’assestarsi del sistema di fattoria andò prendendo consistenza anche il patrimonio edilizio delle case coloniche “su podere”, per l’innanzi prevalentemente costruito da edifici precari, quali erano le cosiddette “case di terra” e le dimore realizzate in materiali vegetali. Il modello a cui ci si rifece nel costruire case per “lavoratori” fu offerto dalle “case del padrone” due-trecentesche declassate: si avranno così costruzioni che nel loro impianto plano-volumetrico ripeteranno, a grandi linee e con scala ridotta, lo schema delle case-torri. Su tale nucleo originario si aggiungeranno in seguito altri ambienti, in relazione al mutare delle esigenze produttive o all’accrescersi dei membri della famiglia colonica, tanto che gli edifici assumeranno i caratteri delle costruzioni definite “a crescita continua”. Queste case coloniche all’impianto “organico”, frutto del sommarsi delle aggiunte e degli adattamenti, sono il più diffuso: in esse la libera distribuzione delle masse, che si giustappongono e s’intersecano, crea spesso gradevoli effetti pittoreschi.

 

L’edilizia rurale riceverà un ulteriore impulso a partire dalla seconda metà del Settecento, con il rilancio dell’agricoltura, particolarmente favorita dalla politica dei Lorena. Furono gli anni in cui quei “buoni possessori grossi”, particolarmente elogiati dal granduca Pietro Leopoldo in occasione della sua visita nel Chianti nel 1773, si impegnarono a rinnovare le loro case coloniche, secondo i tipi elaborati dalla cultura architettonica ufficiale. Nasceranno così edifici dalle forme regolari e volumetricamente definite: masse compatte spesso sormontate da un a torretta, con uno schema che varierà solo per le diverse soluzioni di superficie nel prospetto principale, a seconda della disposizione delle finestre e dei loggiati. Siamo di fronte a una produzione edilizia che denuncia chiaramente di essere stata realizzata sulla base di una progettazione preliminare, del tutto assente in precedenza. I Tempi di Castagnoli furono tra i più solerti nell’opera di rinnovamento, come ancora attestano le case coloniche della loro fattoria, che non di rado recano ancorai cartigli con scolpita la data della loro costruzione.

 

Nell’Ottocento proseguirà l’attività edilizia, specie da parte delle maggiori fattorie: l’agricoltura chiantigiana cominciò infatti a risentire della “rivoluzione agraria” in atto in tutta Europa e la struttura produttiva, pur rimanendo ancora alla mezzadria, tese a trasformarsi ancor in più in senso capitalistico. Non a caso proprio in questo periodo nacque il moderno vino Chianti, a opera del barone Bettino Ricasoli, e vennero ulteriormente promossi i commerci su larga scala. Di qui i consistenti investimenti di capitali nell’agricoltura, che porteranno a nuovi dissodamenti e appoderamenti, nonché alla realizzazione di piantagioni di viti e olivi, per lo più con sistemazioni del terreno mediante quei costosissimi terrazzamenti che riplasmarono i dorsi di intere colline con grandiose opere quasi del tutto distrutte recentemente per far posti ai moderni vigneti.

 

Naturalmente gli investimenti comportarono anche il prosieguo del rinnovamento dell’edilizia rurale, secondo le stesse modalità architettoniche affermatesi nel Settecento, come è ampiamente documentato ad esempio, dalle case coloniche delle fattorie di Brolio e di Coltibuono.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

G. RIGHI PARENTI, La storia del Chianti, Edizioni Polistampa, 2005.

Centro di Studi Storici Chiantigiani, Chianti. Storia e origine di un nome, 1988. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]