[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

182 / FEBBRAIO 2023 (CCXIII)


arte

LA FOTOGRAFIA DI MODA

Le prime mostre dedicate alla fotografia di moda / PARTE II

di Alessandra Olivares

 

La fotografia di moda, dunque, ha subìto molti preconcetti poiché è il frutto di una stretta collaborazione del fotografo con i soggetti coinvolti nel sistema commerciale: redattori, modelli, truccatori e stylist. È giusto ricordare che, anche se oggi le mostre di questo genere di fotografia sono sempre più frequenti, si tratta di un fenomeno abbastanza recente dal momento che anche il Moma di New York, uno dei primi musei a istituire dipartimenti dedicati alla fotografia e che ha sempre esposto fotografie di moda, evidenziando il prezioso contributo che queste offrono alla cultura visiva contemporanea, solo nel 2004 ha organizzato la prima mostra dedicata esclusivamente alla fotografia di moda.
 
Fashioning Fiction in Photography since 1990, ha documentato la sfida che la fotografia di moda affronta quotidianamente muovendosi tra business, arte e società. In particolare la mostra esplorava due tendenze della fotografia contemporanea: lo stile narrativo e cinematografico di autori come Cedric Buchet e Cindy Sherman e l’estetica snapshot di artisti come Nan Goldin e Juergen Teller, mostrando il seducente intreccio tra moda e fotografia, oltreai cambiamenti del concetto di fashion shoot sempre più teso alla rappresentazione di lifestyle e della cultura giovanile.
 
Solo un anno dopo, nel 2005, in Italia fu pubblicato il primo libro con conseguente mostra/installazione con il preciso scopo di riflettere sul rapporto tra fotografia e moda e sul ruolo di questi due linguaggi nel definire il nostro sguardo sul mondo. Nato dalla collaborazione tra la Fondazione Pitti Immagine Discovery e la DARC - Direzione generale per l’architettura e l’arte contemporanea, Lo sguardo italiano. Fotografie italiane di moda dal 1951 a oggi, è il titolo di questo lavoro prezioso per il nostro Paese che più degli altri ha confinato la fotografia di moda in rigide e preconcette gabbie ideologiche a causa degliscopi commerciali e di mercato cui essa è legata, negandole a lungo il diritto di essere riconosciuta come una forma d’arte. Infatti, «in questo allestimento i materiali del volume, frutto di una ricerca frammentata in luoghi e città differenti, trovavano forma, organizzazione e soprattutto visibilità nella struttura dell’archivio. Le immagini, organizzate secondo temi, dati, dimensioni e autori, erano montate su supporti facilmente maneggevoli e volutamente “poco aulici” e potevano essere toccate, girate, scoperte e richiuse in cassettiere, rastrelliere, catalogatori e scaffalature».
 
Il progetto ha avuto il merito di porre le basi per una riflessione consapevole sul valore artistico e culturale di una delle espressioni più significative della visualità contemporanea, evidenziando allo stesso tempo i limiti della storiografia d’argomento.

 

 

Come ha sottolineato James Sherwood, dei circa settanta fotografi cui era dedicato il lavoro soltanto quindici hanno una certa notorietà e solo cinque possono essere considerati maestri di questo genere, Paolo Roversi, Mario Sorrenti, Franco Rubartelli, Oliviero Toscani e Aldo Fallai. Paradossalmente, i lavori considerati migliori in questa mostra erano quelli che più si distaccavano dall’oggetto/soggetto moda o che offrivano uno sguardo inedito su di esso. Questo non fa che confermare che una fotografia di moda, oltre a essere un oggetto commerciale, «è anche il lavoro di un autore che riesce a trascendere l’abito e con le sue immagini a riassumere moda, stile e carattere del proprio tempo».

Pertanto, la rivista di moda offre a questi artisti una vetrina del proprio talento, ma spesso offusca le qualità originali delle immagini. Un servizio di moda, infatti, è un lavoro di squadra, in cui intervengono diverse professionalità. Gli art director che si occupano dell’impaginazione di un servizio fotografico, decidono in che modo ordinare e ritagliare le immagini affinché la connessione tra i vari servizi sia appropriata.

Esistono, quindi, vincoli non trascurabili rispetto al modo in cui un’immagine di moda viene presentata su una rivista, perché come ha dichiarato Franca Sozzani: «il fotografo può suggerire delle soluzioni ma la rivista ha un suo ritmo e la decisione finale spetta comunque a noi». Nei musei, invece, si espongono le stampe originali e questo fa sì che il vero talento possa avere lo spazio che merita.

Fashion. Un secolo di straordinarie fotografie di moda dagli archivi Condè Nast è una mostra curata da Nathalie Herschdorfer che, dopo un’esposizione a Berlino negli spazi del Postfuhramt della fondazione C/O Berlin e una a Zurigo al museo Bellerive nel 2012, giunse anche in Italia nel 2013, organizzata dalla Fondazione Forma di Milano. Tra i nomi in mostra figuravano artisti che hanno scritto la storia di questo genere di fotografia, tra cui Man Ray, Edward Steichen, Diane Arbus, Helmut Newton, Peter Lindberg e Mario Testino. Essa esponeva 160 stampe originali degli scatti di celebri fotografi custoditi negli archivi internazionali di Condè Nast. Per l’allestimento si scelse il criterio cronologico dividendo la mostra in sezioni che ripercorrevano la storia della fotografia di moda dai primi anni del Novecento fino ai giorni nostri.

Entrando si veniva subito catturati dalla celebre frase pronunciata da Edward Steichen a Edna Woodman Chase, capo redattrice di “Vogue America”: «Dobbiamo fare di Vogue un Louvre». L’idea di trasformare la rivista in un piccolo museo alla portata di tutti sottolinea l’importante contributo dato da Condè Nast alla cultura visuale contemporanea, evidenziando anche la consapevolezza, in tempi prematuri, da parte di uno straordinario artista che nel 1923 era già famoso per i suoi dipinti e le sue immagini, del valore culturale, sociale ed estetico che un’immagine di moda può rivelare.

Accusato di essersi artisticamente svenduto, «Steichen si difese sostenendo che le sue fotografie erano finalmente accessibili a milioni di lettori e non erano più soltanto carta da parati per ricchi collezionisti, ma dovrà passare quasi un secolo perché gli stessi collezionisti comincino ad acquistare fotografie di moda». Gli echi dell’affermazione di Steichen li ritroviamo in quella del celebre fotografo David La Chapelle che ha dichiarato di desiderare «che la gente ritagli le sue immagini dal giornale per appenderle sul frigorifero di casa: per lui le riviste sono gallerie e i frigoriferi musei».

Visitare la mostra Fashion significava compiere un viaggio nella storia della cultura contemporanea. Oltre all’indiscutibile bellezza e all’equilibrio compositivo delle immagini esposte come quadri, incorniciate e con passe-partout, chiunque poteva comprendere che la moda occupa un posto troppo rilevante nella società per liquidarla frettolosamente come qualcosa di frivolo e superficiale. Ogni decade raccontava lo spirito del tempo. La bellezza, il glamour e l’eleganza degli anni Cinquanta in contrasto con l’energia rivoluzionaria e giovanile del decennio successivo. O ancora il culto e l’attenzione ai corpi bellissimi, scolpiti dal fitness e dalla chirurgia plastica degli anni Ottanta, che resta uno dei miti principali dei nostri tempi. Inoltre, esposte all’interno di teche le riviste con i servizi relativi alle immagini in mostra, oltre a evidenziare le differenze con le stampe originali, assumevano esse stesse lo statuto di opere d’arte da ammirare, custodire e collezionare.

Risulta così evidente quel valore culturale, sociale ed estetico che gli è stato spesso negato, non riconoscendo che su quelle pagine patinate e ammiccanti sono annotati i desideri, le visioni e i miti di un’epoca. Proprio alle riviste va il merito di aver dato spazio ai grandi autori contribuendo in modo decisivo a scrivere la storia di questo genere di fotografia. La mostra, dunque, attraverso le fotografie che hanno retto alla prova del tempo diventando eterne, ha raccontato l’evoluzione della fashion photography e le infinite possibilità di rappresentazione della realtà che la lente patinata della moda interpreta, rappresentando anche un documento sulla storia della società.

In questa generale presa di coscienza della valenza estetica e sociologica della fotografia di moda, significativo appare il titolo di una serie di mostre collettive curate da Magdalene Keaney e tenutesi al Foam di Amsterdam nell’estate 2014 e alla Fashion Space Gallery di Londra nella primavera del 2015. Don’t stop now: Fashion Photogaphy Next è un titolo che veicola un significato ben preciso nelle intenzioni della curatrice che ha affermato: «Se qualcuno ti dice di non fermarti significa che stai facendo qualcosa di buono». Il titolo è chiaramente da riferirsi alla nuova generazione di fotografi presentati in mostra per la loro capacità di spingere i confini della più eccitante delle industrie nello spazio sconfinato della creatività e del talento anticonformista.

La mostra è stata organizzata dopo la promozione dell’omonimo libro, nato con lo scopo di individuare cosa rende oggi un fotografo di moda rilevante, ritenendo gli approcci che ricercano il valore della fotografia di moda nelle due strade della legittimazione istituzionale e storica ormai superati. Il progetto espositivo era suddiviso in due parti. La prima si concentrava sui temi della materialità e del gioco, esponendo i lavori di artisti che, andando controcorrente, utilizzano la tecnica analogica realizzando immagini cariche di ironia per mostrare le possibili tensioni tra virtuale e reale. La seconda parte, invece, si focalizzava sui concetti di artificio e autenticità e sulla dialettica tra queste due posizioni non sempre chiaramente definite o nettamente in contrasto tra loro, dal momento che non è sempre così evidente la distinzione tra fantasia e realtà.

Anche questa mostra voleva, quindi, promuovere, prima ancora delle immagini, innanzitutto un concetto fondamentale che la stessa curatrice sottolineava nel libro, affermando che la fotografia di moda registra costantemente i continui cambiamenti del nostro mondo. Mossa da ragioni commerciali che richiedono continue novità all’interno delle riviste, le immagini di moda sono anche una risposta ai cambiamenti della struttura sociale e alle questioni legate all’identità e all’immaginario collettivo. Keaney sottolinea il ruolo fondamentale dei fotografi nel contribuire a far crescere la consapevolezza collettiva dell’importanza dell’immaginario della moda come luogo dinamico e vitale di idee e dibattiti.

Un altro aspetto che Keaney prendeva in considerazione è la precarietà dell’editoria di moda. Tante riviste, infatti, come “Nova”, “The Face”, “Vanity Fair” o “i-D”, sono state chiuse, anche se molte altre continuano a uscire in edicola. Naturalmente molte mantengono la versione on-line, senza tuttavia voler riprodurre la versione stampata, ma offrendo un’esperienza che includa anche film, immagini in movimento e collegamenti con i social network, tra cui Twitter, YouTube, Instagram e Facebook, come ad esempio Dazed Digital, la versione on-line di “Dazed&Confused”. Tutto questo ha contribuito a diminuire il monopolio di importanti case editoriali e dei principali fashion magazines, offrendo agli artisti e al pubblico un’alternativa.

Appare evidente che, una volta sottratta al suo contesto, una fotografia di moda acquista un senso più ampio e complesso di quello che ha quando la incontriamo tra le pagine di una rivista, anche se si tratta della più autorevole del settore. Se le immagini di moda all’interno di un giornale hanno lo scopo di veicolare idee e proposte legate all’industria della moda, le stesse immagini esposte in un museo innanzitutto ci ricordano che una fotografia non è solo un’immagine commerciale, ma anche un oggetto che ha un suo impatto visivo, culturale, estetico e sociologico.

Senza il contributo dei musei e di tutto il sistema ufficiale della cultura e dell’arte, questo linguaggio resterebbe invisibile, o peggio ignorato perché «l’arte che non sta dentro al museo, ancora oggi, (soprattutto) da noi, non raramente continua a generare dubbi e sospetti».

 

Presentata con tutti gli espedienti museografici – pannelli, illuminazione, cornici e passe-partout – la singola fotografia acquista in modo più immediato quello statuto di opera d’arte che deve possedere ancor prima di entrare in un museo.

Anche il formato dell’opera riveste un ruolo importante. Capita spesso di trovarsi di fronte a opere di grande formato e questo influenza molto l’esperienza della visione da parte dello spettatore poiché, «sottraendosi al processo di miniaturizzazione del mondo tipicamente associato alla fotografia, (le opere) vengono immediatamente messe a confronto con la pittura e considerate all’interno della storia della grande arte. In secondo luogo […] si stabilisce una chiara separazione tra l’esperienza dell’originale e quella della sua riproduzione su un libro o un catalogo (o una rivista); allo stesso tempo, viene del tutto respinta l’intimità che solitamente si associa alla fruizione della fotografia […] a favore di una visione collettiva».

Qualunque sia la dimensione dell’immagine, comunque, l’esposizione in un museo obbliga a una presa di distanza dalla stessa che permette di osservarla nella sua interezza e ne evidenzia lo statuto di opera d’arte. In questo modo anziché ritagliare una porzione di realtà come accade nello spazio ristretto di una fotografia, essa invade il luogo della sua fruizione con tutti i significati estetici e sociologici di cui è portatrice.

Ecco allora che il contributo di una mostra è fondamentale nel mettere in luce che una fotografia di moda è un interessantissimo compromesso tra la sua vocazione artistica e quella di documento sociale.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]