[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 206 / FEBBRAIO 2025 (CCXXXVII)


contemporanea

SPINOSE FOIBE
PULIZIA ETNICA O USO STRUMENTALE DELLA STORIA?

di Domenico Dardano

 

Lo scorso 10 febbraio 2025 si è celebrato il “Giorno del ricordo” per commemorare “le delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata”. Istituita in Italia nel 2004 dal governo Berlusconi, a distanza di pochi anni dall’istituzione del “Giorno della Memoria” per le vittime dell’olocausto nel 2000, questa giornata vuole ricordare le vittime delle foibe (termine che si riferisce alle cavità naturali presenti sul territorio istriano in cui vennero gettate un imprecisato numero di persone dai partigiani jugoslavi) e l’esodo giuliano-dalmata (cioè l’emigrazione di quegli italiani che lasciarono quelle terre a partire dal 1945) finendo però ogni anno a suscitare discussioni e polemiche.

 

Dietro l’istituzione di questa commemorazione, infatti, esiste una questione molto più complessa, inquadrata nel periodo storico della seconda guerra mondiale e che trova le sue radici negli anni addietro. Occorre quindi ricordare e ricostruire quello che fu l’intero contesto storico nel quale si iscrivono e relazionano questi episodi, ed evitare di ricondurli esclusivamente agli ultimi anni del conflitto.

 

In seguito alla Grande guerra il Regno d’Italia ottenne, grazie all’accordo segreto del patto di Londra stipulato nel 1915, le cosiddette “terre irredente”, cioè il Trentino e la Venezia Giulia, precedentemente sotto dominio austriaco ma abitate da molti italiani, oltre al Sud Tirolo (che sarà poi chiamato Alto Adige) e l’Istria, territorio quest’ultimo in cui gli italiani non erano affatto la maggioranza e convivevano con popolazioni di cultura e lingua slava.

 

La mancata assegnazione della Dalmazia e della città di Fiume (abitata in maggioranza da italiani) susciterà nell’opinione pubblica italiana quel sentimento di rivalsa e ostilità nei confronti delle potenze presenti alla conferenza di pace; sentimento che verrà accolto e nutrito dai nazionalisti, secondo cui l’Italia aveva ottenuto una “vittoria mutilata”, quasi un’umiliazione, nonostante risultasse tra le nazioni vincitrici del conflitto. È in questo clima che si inserisce la marcia di Gabriele D’Annunzio proprio su Fiume, che sarà occupata dal settembre 1919 fino a dicembre 1920. Ciò che emerse fu che nelle zone del confine orientale del Regno gli italiani si trovarono a coesistere con popolazioni di lingua e cultura non italiana.

 

In un clima di nazionalismo infuocato e forti tensioni sociali fu l’avvento al potere del fascismo nei primi anni venti a complicare drasticamente la situazione nel confine orientale: venne infatti avviata una politica di “italianizzazione” nei confronti di quelle minoranze etniche e linguistiche, adoperata con misure come l’abolizione dell’insegnamento del croato e dello sloveno nelle scuole, sostituzione di insegnanti italiani al posto di insegnanti slavi, imposizione della lingua italiana nelle scuole, imposizione di nomi italiani alle località assegnate all’Italia, italianizzazione dei cognomi slavi. Le politiche del governo fascista ebbero l’effetto di esasperare le popolazioni slave e di suscitare in loro una profonda ostilità nei confronti del regime, come attestano le azioni sovversive delle società segrete slave che si erano rese protagoniste di numerose azioni contro le autorità italiane fasciste.

 

Nel 1941, in piena seconda guerra mondiale, in seguito all’occupazione della Jugoslavia per opera di truppe italiane e tedesche, il territorio fu spartito tra le due potenze dell’Asse, cosicché alcune zone della Slovenia, della Dalmazia, del Montenegro e della Grecia vennero assegnate all’Italia fascista, che si rese protagonista di violenze e crimini nei confronti delle popolazioni. I campi di concentramento istituiti in quelle zone ne sono la prova forse più schiacciante.

 

L’8 settembre 1943, in seguito all’annuncio dell’armistizio dell’Italia con gli Alleati, l’Esercito Regio italiano, che fino allora aveva amministrato i territori jugoslavi occupati, rimase indeciso sul da farsi mentre le truppe tedesche occuparono prontamente alcune zone al confine. Proprio nei territori jugoslavi occupati era emersa l’importanza del ruolo dei partigiani jugoslavi guidati da Tito nella Resistenza contro gli invasori, che si scontrarono anche con i movimenti nazionalisti presenti in Jugoslavia, affermandosi dunque come gli unici protagonisti della lotta contro l’occupazione nazifascista. Il successo del movimento partigiano jugoslavo diede al suo leader la prospettiva di realizzare uno stato unitario che prevedesse la coesistenza al suo interno di tutte le popolazioni jugoslave.

 

Dunque, in seguito alla dissoluzione dell’esercito italiano, nei territori occupati esplose la rabbia delle popolazioni jugoslave nei confronti delle autorità occupanti. Ne scaturirono episodi violenti, vendette e forme di giustizia privata che trovano la loro ragione nelle oppressioni e delle violenze subite negli ultimi anni. Principale obiettivo della rivalsa e della violenza furono infatti i rappresentanti del regime fascista o persone legate in qualche modo a esso.

 

Emergono ora chiaramente alcuni punti. Innanzitutto, la contrapposizione italiani-jugoslavi non rende affatto l’idea di quello che è stato un processo estremamente complesso; le vere ragioni delle violenze verificatesi in quel contesto non sono ascrivibili a un mero “conflitto di nazionalità” tra italiani e jugoslavi, ma alle politiche di umiliazione portate avanti dal regime fascista nei confronti di quelle minoranze. Non pochi furono infatti gli italiani che si schierarono dalla parte dei partigiani titini e che combatterono al loro fianco; la contrapposizione è piuttosto quella che vedeva da una parte chi si era schierato con il fascismo e dall’altra chi si schierò contro di esso.

 

Veniamo ora al tema dell’esodo, comunemente considerato come conseguenza diretta di una vera e propria espulsione ordinata dal nuovo Stato jugoslavo nei confronti degli italiani. Anche qui c’è bisogno di fare chiarezza, visto che si tratta di un processo di lunga durata che si estende per più di un decennio, e che è in buona parte sconnesso dal fenomeno delle foibe. Ad abbandonare quelle zone furono inizialmente, a guerra ancora in corso, prevalentemente ex funzionari, militari e collaborazionisti che preferirono lasciare quello che era un contesto a loro non più favorevole.

 

In un secondo momento entrarono in causa fattori politico-territoriali: molto complicata si rivelò infatti la questione dei confini territoriali tra Italia e Jugoslavia e l’istituzione delle due zone A (che comprendeva Trieste) e B (con Fiume e parte dell’Istria) rispettivamente affidate all’amministrazione alleata e a quella jugoslava. Sul finire del conflitto c’erano state infatti tensioni tra le parti per lo stabilimento dei confini e che videro come protagonisti in lotta, per esempio, i partigiani titini e il CLN di Trieste.

 

È dunque in questo contesto che vanno inquadrati i trasferimenti di molte persone in altre zone o regioni d’Italia. Nel trattato di pace del 1947 fu permesso di scegliere alle persone in questione se rimanere in territorio jugoslavo o trasferirsi in Italia, e chi decise di optare per la seconda opzione ebbe certamente modo e tempo di emigrare; dunque parlare di “espulsione” o “emigrazione forzata” non riflette veramente ciò che è avvenuto in quegli anni tra i confini tra i due paesi. Non mancò addirittura chi decise di fare il percorso inverso, di trasferirsi cioè dall’Italia alla Jugoslavia.

 

Tuttavia, nel chiarire e discutere questi punti, bisogna certamente prendere in considerazione la presenza di un clima di tensione altissima e un contesto di guerra, in cui la paura di subire persecuzioni (con le violenze che non si erano arrestate con la fine del conflitto bellico) era ovviamente presente negli italiani presenti ancora in Jugoslavia. Inoltre è da tenere presente che in seguito all’affermarsi del fascismo furono molti gli italiani ad aderire al regime, e ciò avvenne anche in quelle regioni; non pochi furono coloro che pagarono a caro prezzo la semplice adesione al fascismo dato che la violenza e la vendetta jugoslava si abbatterono anche su persone che non avevano un coinvolgimento diretto con il regime. La presenza di molti innocenti tra le vittime va letta sotto questa lente.

 

Non si tratta affatto di voler giustificare le violenze compiute dai partigiani jugoslavi ma di inquadrare un evento nel giusto contesto storico e di non slegarlo e isolarlo da altri avvenimenti a esso strettamente connessi. Si tratta piuttosto di criticare l’uso strumentale che negli ultimi decenni una parte della classe politica italiana opera continuamente degli eventi storici in questione, riuscendo a “istituzionalizzarli” in una giornata apposita per legittimare una memoria condivisa, accettata passivamente dal resto della classe politica.

 

 

Riferimenti bibliografici

 

Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943), Laterza, Roma-Bari 2013.

Eric Gobetti, E allora le foibe?, Laterza, Roma-Bari 2021.

Raoul Pupo, Roberto Spazzoli, Foibe, Bruno Mondadori, Milano 2003.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]