Lo scorso 10 febbraio 2025 si è
celebrato il “Giorno del ricordo”
per commemorare “le delle vittime
delle foibe e dell’esodo
giuliano-dalmata”. Istituita in
Italia nel 2004 dal governo
Berlusconi, a distanza di pochi anni
dall’istituzione del “Giorno della
Memoria” per le vittime
dell’olocausto nel 2000, questa
giornata vuole ricordare le vittime
delle foibe (termine che si
riferisce alle cavità naturali
presenti sul territorio istriano in
cui vennero gettate un imprecisato
numero di persone dai partigiani
jugoslavi) e l’esodo
giuliano-dalmata (cioè l’emigrazione
di quegli italiani che lasciarono
quelle terre a partire dal 1945)
finendo però ogni anno a suscitare
discussioni e polemiche.
Dietro l’istituzione di questa
commemorazione, infatti, esiste una
questione molto più complessa,
inquadrata nel periodo storico della
seconda guerra mondiale e che trova
le sue radici negli anni addietro.
Occorre quindi ricordare e
ricostruire quello che fu l’intero
contesto storico nel quale si
iscrivono e relazionano questi
episodi, ed evitare di ricondurli
esclusivamente agli ultimi anni del
conflitto.
In seguito alla Grande guerra il
Regno d’Italia ottenne, grazie
all’accordo segreto del patto di
Londra stipulato nel 1915, le
cosiddette “terre irredente”, cioè
il Trentino e la Venezia Giulia,
precedentemente sotto dominio
austriaco ma abitate da molti
italiani, oltre al Sud Tirolo (che
sarà poi chiamato Alto Adige) e
l’Istria, territorio quest’ultimo in
cui gli italiani non erano affatto
la maggioranza e convivevano con
popolazioni di cultura e lingua
slava.
La mancata assegnazione della
Dalmazia e della città di Fiume
(abitata in maggioranza da italiani)
susciterà nell’opinione pubblica
italiana quel sentimento di rivalsa
e ostilità nei confronti delle
potenze presenti alla conferenza di
pace; sentimento che verrà accolto e
nutrito dai nazionalisti, secondo
cui l’Italia aveva ottenuto una
“vittoria mutilata”, quasi
un’umiliazione, nonostante
risultasse tra le nazioni vincitrici
del conflitto. È in questo clima che
si inserisce la marcia di Gabriele
D’Annunzio proprio su Fiume, che
sarà occupata dal settembre 1919
fino a dicembre 1920. Ciò che emerse
fu che nelle zone del confine
orientale del Regno gli italiani si
trovarono a coesistere con
popolazioni di lingua e cultura non
italiana.
In un clima di nazionalismo
infuocato e forti tensioni sociali
fu l’avvento al potere del fascismo
nei primi anni venti a complicare
drasticamente la situazione nel
confine orientale: venne infatti
avviata una politica di
“italianizzazione” nei confronti di
quelle minoranze etniche e
linguistiche, adoperata con misure
come l’abolizione dell’insegnamento
del croato e dello sloveno nelle
scuole, sostituzione di insegnanti
italiani al posto di insegnanti
slavi, imposizione della lingua
italiana nelle scuole, imposizione
di nomi italiani alle località
assegnate all’Italia,
italianizzazione dei cognomi slavi.
Le politiche del governo fascista
ebbero l’effetto di esasperare le
popolazioni slave e di suscitare in
loro una profonda ostilità nei
confronti del regime, come attestano
le azioni sovversive delle società
segrete slave che si erano rese
protagoniste di numerose azioni
contro le autorità italiane
fasciste.
Nel 1941, in piena seconda guerra
mondiale, in seguito all’occupazione
della Jugoslavia per opera di truppe
italiane e tedesche, il territorio
fu spartito tra le due potenze
dell’Asse, cosicché alcune zone
della Slovenia, della Dalmazia, del
Montenegro e della Grecia vennero
assegnate all’Italia fascista, che
si rese protagonista di violenze e
crimini nei confronti delle
popolazioni. I campi di
concentramento istituiti in quelle
zone ne sono la prova forse più
schiacciante.
L’8 settembre 1943, in seguito
all’annuncio dell’armistizio
dell’Italia con gli Alleati,
l’Esercito Regio italiano, che fino
allora aveva amministrato i
territori jugoslavi occupati, rimase
indeciso sul da farsi mentre le
truppe tedesche occuparono
prontamente alcune zone al confine.
Proprio nei territori jugoslavi
occupati era emersa l’importanza del
ruolo dei partigiani jugoslavi
guidati da Tito nella Resistenza
contro gli invasori, che si
scontrarono anche con i movimenti
nazionalisti presenti in Jugoslavia,
affermandosi dunque come gli unici
protagonisti della lotta contro
l’occupazione nazifascista. Il
successo del movimento partigiano
jugoslavo diede al suo leader la
prospettiva di realizzare uno stato
unitario che prevedesse la
coesistenza al suo interno di tutte
le popolazioni jugoslave.
Dunque, in seguito alla dissoluzione
dell’esercito italiano, nei
territori occupati esplose la rabbia
delle popolazioni jugoslave nei
confronti delle autorità occupanti.
Ne scaturirono episodi violenti,
vendette e forme di giustizia
privata che trovano la loro ragione
nelle oppressioni e delle violenze
subite negli ultimi anni. Principale
obiettivo della rivalsa e della
violenza furono infatti i
rappresentanti del regime fascista o
persone legate in qualche modo a
esso.
Emergono ora chiaramente alcuni
punti. Innanzitutto, la
contrapposizione italiani-jugoslavi
non rende affatto l’idea di quello
che è stato un processo estremamente
complesso; le vere ragioni delle
violenze verificatesi in quel
contesto non sono ascrivibili a un
mero “conflitto di nazionalità” tra
italiani e jugoslavi, ma alle
politiche di umiliazione portate
avanti dal regime fascista nei
confronti di quelle minoranze. Non
pochi furono infatti gli italiani
che si schierarono dalla parte dei
partigiani titini e che combatterono
al loro fianco; la contrapposizione
è piuttosto quella che vedeva da una
parte chi si era schierato con il
fascismo e dall’altra chi si schierò
contro di esso.
Veniamo ora al tema dell’esodo,
comunemente considerato come
conseguenza diretta di una vera e
propria espulsione ordinata dal
nuovo Stato jugoslavo nei confronti
degli italiani. Anche qui c’è
bisogno di fare chiarezza, visto che
si tratta di un processo di lunga
durata che si estende per più di un
decennio, e che è in buona parte
sconnesso dal fenomeno delle foibe.
Ad abbandonare quelle zone furono
inizialmente, a guerra ancora in
corso, prevalentemente ex
funzionari, militari e
collaborazionisti che preferirono
lasciare quello che era un contesto
a loro non più favorevole.
In un secondo momento entrarono in
causa fattori politico-territoriali:
molto complicata si rivelò infatti
la questione dei confini
territoriali tra Italia e Jugoslavia
e l’istituzione delle due zone A
(che comprendeva Trieste) e B (con
Fiume e parte dell’Istria)
rispettivamente affidate
all’amministrazione alleata e a
quella jugoslava. Sul finire del
conflitto c’erano state infatti
tensioni tra le parti per lo
stabilimento dei confini e che
videro come protagonisti in lotta,
per esempio, i partigiani titini e
il CLN di Trieste.
È dunque in questo contesto che
vanno inquadrati i trasferimenti di
molte persone in altre zone o
regioni d’Italia. Nel trattato di
pace del 1947 fu permesso di
scegliere alle persone in questione
se rimanere in territorio jugoslavo
o trasferirsi in Italia, e chi
decise di optare per la seconda
opzione ebbe certamente modo e tempo
di emigrare; dunque parlare di
“espulsione” o “emigrazione forzata”
non riflette veramente ciò che è
avvenuto in quegli anni tra i
confini tra i due paesi. Non mancò
addirittura chi decise di fare il
percorso inverso, di trasferirsi
cioè dall’Italia alla Jugoslavia.
Tuttavia, nel chiarire e discutere
questi punti, bisogna certamente
prendere in considerazione la
presenza di un clima di tensione
altissima e un contesto di guerra,
in cui la paura di subire
persecuzioni (con le violenze che
non si erano arrestate con la fine
del conflitto bellico) era
ovviamente presente negli italiani
presenti ancora in Jugoslavia.
Inoltre è da tenere presente che in
seguito all’affermarsi del fascismo
furono molti gli italiani ad aderire
al regime, e ciò avvenne anche in
quelle regioni; non pochi furono
coloro che pagarono a caro prezzo la
semplice adesione al fascismo dato
che la violenza e la vendetta
jugoslava si abbatterono anche su
persone che non avevano un
coinvolgimento diretto con il
regime. La presenza di molti
innocenti tra le vittime va letta
sotto questa lente.
Non si tratta affatto di voler
giustificare le violenze compiute
dai partigiani jugoslavi ma di
inquadrare un evento nel giusto
contesto storico e di non slegarlo e
isolarlo da altri avvenimenti a esso
strettamente connessi. Si tratta
piuttosto di criticare l’uso
strumentale che negli ultimi decenni
una parte della classe politica
italiana opera continuamente degli
eventi storici in questione,
riuscendo a “istituzionalizzarli” in
una giornata apposita per
legittimare una memoria condivisa,
accettata passivamente dal resto
della classe politica.
Riferimenti bibliografici