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CONTEMPORANEA


N. 3 - Marzo 2008 (XXXIV)

FOIBE

La memoria non condivisa, intervista a Vincenzo Maria De Luca

di Giovanna Canzano

CANZANO - E’ uscito in questi giorni il tuo ultimo libro: “La memoria non condivisa”,  ancora tu ci parli delle foibe. Anche per te una trilogia per completare la ricerca storica dopo: “Foibe, Una tragedia annunciata” del 2000 e “Venezia Giulia 1943” del 2003 sempre per la casa editrice ‘Il Settimo Sigillo’?
 
DE LUCA - La questione della tragedia dei nostri confini orientali, l’Istria e la Venezia Giulia dopo l’8 settembre 1943, è stata sottaciuta quando non addirittura negata per interi decenni. A oltre 60 anni dalla fine dell’ultima guerra, oggi la liberatoria dal segreto di Stato per molti archivi alleati, unitamente alla caduta dei vari regimi comunisti dell’est europeo con lo scioglimento delle relative polizie politiche, ci stanno finalmente consegnando inesauribili fonti di notizie e “nuove verità” tali, da far ipotizzare in un prossimo futuro una inedita rilettura di quanto è avvenuto nel nostro recente passato e non ci hanno mai detto. Una mole sorprendente di documentazione al servizio di ricercatori e storici, che rende impossibile scrivere la parola “fine” su questioni co sì dibattute e attuali. Con la mia “Trilogia Giuliana” sento di avere analizzato molti aspetti interessanti della repressione slavo-comunista, anti-italiana, operata nella Venezia Giulia degli anni quaranta, ma il vibrante attacco sferrato dal mondo accademico e della “cultura ufficiale” contro una analisi revisionista della Storia in generale, mi porta a ritenere che ci sia ancora molto da fare nella ricerca di quella verità che Nietzsche definiva: “il sarcasmo dei vincitori”.
 
CANZANO - Hai accennato al Revisionismo. Qual è la tua posizione al riguardo?
 
DE LUCA - In questi ultimi anni si parla di Revisionismo in senso dispregiativo, associandolo al tentativo, più o meno velato, da parte di storici di varia nazionalità di negare o almeno ridimensionare l’olocausto ebraico durante l’ultima guerra. Vorrei fare mia la tesi di Renzo De Felice, massimo storico italiano del Novecento, che nel 1991, poco prima della sua scomparsa, nell’intervallo del concerto del pianista serbo Ivan Pogorelich in un teatro di Roma, mi disse: “…la Storia è un continuo Revisionismo…”, alludendo al fatto che mano a mano che si rendono disponibili nuove fonti di ricerca, siamo ovviamente in grado di modificare o confermare quanto riten uto vero in precedenza. Scrive Benedetto Croce: “…la Storia è sempre contemporanea”, e in tal senso non ci dovrebbero essere capitoli storici chiusi come “scatole cinesi” o “sentenze definitive”, ma una visione più fluida della Storia, meno preconcetta e politica, più aperta al confronto e alla parificazione tra vincitori e vinti. Chi può arrogarsi il diritto di stabilire nettamente quale sia il bene e quale il male? Il binomio “vittoria militare uguale giustizia e verità” è fin troppo puerile. Ha ragione chi vince o vince chi ha ragione? Su questo dovremmo impegnarci noi storici e saggisti più che dividerci in sterili discussioni sul numero dei morti in questo o in quell’altro contesto.
La filosofia della “libbra di carne” di shakespeariana memoria, non si addice alla Storia bensì alla polemica di parte. Se un merito và ascritto al tanto criticato Revisionismo, tralasciando improbabili nostalgie, è essenzialmente quello di porsi domande scomode e affatto scontate. Basterà poi vedere in questi ultimi anni come si è modificata la sensibilità storica collettiva su alcuni temi ritenuti da sempre sacri, per lodare lo spirito “revisionista” di alcuni studiosi.


Spinosa ad esempio, nel suo “Napoleone flagello d’Italia” edito da Mondadori, attacca il mito di Bonaparte artefice della nostra unità nazionale; e come si è modificato il giudizio sul Risorgimento, non più sublimato come afflato di popolo bensì “riletto” nell’ottica di una ben più concreta lotta d’interessi tra potentati separatisti. Si è persino rivalutato il fenomeno del Brigantaggio nell’Italia centro-meridionale, così come non è più tanto chiaro nell’ambito della Rivoluzione Francese, se i cattivi fossero poi così cattivi ed i buoni così buoni. Pare addirittura che Nerone non abbia incendiato Roma… e la Resistenza partigiana italiana successiva all’8 settembre 1943 si sta finalmente incastonando in un ben più ampio contesto di reale guerra civile legittima ed inevitabile in un paese diviso a metà anziché ripercorrere gli obsoleti percorsi ideologizzati della sollevazione di popolo contro il crudele invasore nazista. Per tornare al tema di mia competenza, a chi ancora oggi parla degli italiani infoibati in Venezia Giulia, come di fascisti raggiunti dalla “dura lex” popolare, rispondo con le parole dell’ex Presidente della Repubblica Ciampi, che in occasione della sua visita a Trieste il 25 aprile 2002 ebbe a dire: “…le Foibe sono il simbolo di una lotta etnica, scatenata da chi voleva ridurre l’italianità di queste zone, facendo fuori il maggior numero possibile di italiani. Una violenza che aveva orribili obiettivi. Tipo la Shoah”.
 
CANZANO - Quindi confermi in sostanza il tuo impegno nel campo del Revisionismo storico?
 
DE LUCA - Quando ho iniziato nel 1995 lo studio e l’interpretazione di quei tragici avvenimenti che furono le foibe, l’esodo e le mutilazioni territoriali, successive al secondo conflitto mondiale, che sconvolsero l’italianità di terre come la Venezia Giulia e l’Istria, mi ero riproposto, per quanto mi fosse stato possibile, di rendere merito e giustizia ad una intera generazione di nostri connazionali, che nulla avevano più da chiedere se non il rispetto della propria storia e dei propri valori, belli o brutti, giusti o sbagliati che fossero. Italiani innocenti, laboriosi, miti ed orgogliosi, la nostra meravigliosa gente giulia che aveva perso tutto, spesso anche la vita, per rimanere libera in una libera Patria senza il Comunismo. Via via che i miei libri venivano pubblicati, e quindi uscivano recensioni e partecipavo a convegni, mi sono accorto, mio malgrado, che venivo sempre più a trovarmi schierato da una parte piuttosto che un’altra. Inizialmente la cosa mi infastidiva poiché, con l’ingenuità del neofita, pensavo che la Storia, più che la politica o la polemica, potesse servire ad unire in nome della verità; al contrario anche la Storia, o meglio l’uso improprio e speculativo della stessa, ha finito con il dividere più che fondere insieme le coscienze. Ecco così che il mio sforzo per fare luce su episodi dimenticati o mai analizzati è stato definito “a priori” revisionista. E siccome arriva il momento in cui, al di là di sfumature o dettagli, bisogna prendere una posizione consapevole, allora ti dirò che, in virtù del mio impegno anti-comunista, mi posso definire senz’altro uno storico revisionista.
 
CANZANO - Proprio qui volevo portarti. Ho notato infatti che nei tuoi libri, più che la contrapposizione tra italiani e slavi, è demonizzata la rivoluzione proletaria-comunista di Tito, come anticipatrice della “guerra fredda” che avrebbe poi diviso il mondo in 2 blocchi contrapposti: il mondo libero a occidente e l’Unione Sovietica a est. Tu critichi apertamente la Resistenza anti-fascista e condanni il partito comunista italiano e Togliatti per le violenze sugli italiani in Istria.
 
DE LUCA - Certamente. Chi può obiettare che ciò non sia vero? Chi può in perfetta buona fede continuare a sostenere che il Comunismo si battesse per la libertà? L’argomento è sconfinato e richiederebbe fiumi d’inchiostro e di parole. Alcuni punti fermi sono incontestabili. Perché si continua a ripetere che la seconda guerra mondiale fu scatenata da Hitler con l’invasione della Polonia il 1° settembre 1939 quando fu, in precedenza, il patto di non aggressione russo-tedesco Ribbentrop-Molotov del 23 agosto 1939 ad ufficializzare l’inizio delle ostilità con la spartizione sacrificale della stessa Polonia tra Germania e Unione Sovietica?

L’allora protocollo segreto tra Hitler e Stalin prevedeva che una volta terminate le operazioni belliche tedesco-polacche sul fronte occidentale, s arebbe intervenuta l’Armata Rossa nella Polonia orientale a completare l’invasione del paese slavo. Cosa che puntualmente si verificò il 17 settembre 1939 ed i sovietici non solo fecero 250.000 prigionieri, ma furono solerti collaboratori dei tedeschi nell’ostacolare il ripiegamento di ciò che rimaneva dell’esercito polacco verso la Romania e l’Ungheria, da dove avrebbe potuto in seguito riprendere la lotta al fianco degli alleati occidentali contro la Germania. Perché si continua a parlare della invasione di Hitler dei Paesi Bassi e della Norvegia a ovest e nessuno ama o ha l’onestà intellettuale di ricordare cosa fa contemporaneamente Stalin a est ai danni di Estonia, Lettonia e Lituania, per non parlare dell’aggressione sovietica alla Finlandia del novembre 1939? Chi parla solo e sempre degli eccidi nazisti, si legga di Victor Zaslavsky, “Il massacro di Katyn” o, se crede, il mio “Venezia Giulia 1943” sulla fucilazione di 15.000 ufficiali polacchi da parte dell’NKVD o “Commissari ato del Popolo per gli Affari Interni” sovietico. Chi parla solo e sempre della Gestapo o di via Tasso a Roma, si legga “Lubjanka” di Enzo Biagi, sottotitolo: “Comunismo. Bilancio 80 milioni di morti”: “…il Comunismo non ha avuto la sua Norimberga. Nessuno ha mai confessato di essere responsabile o complice di quell’orrore, nessuno si è pentito”.

Non mi risulta che Biagi sia un revisionista. Per la cronaca la Lubjanka fu la più bieca prigione stalinista, poi per anni sede della KGB sovietica. Il campo di concentramento non lo ha inventato Hitler; è Lenin che nel 1917 fa distendere per la prima volta i reticolati di filo spinato per sistemare gli oppositori della Rivoluzione d’Ottobre. Togliatti non fu forse un criminale quando nell’ottobre 1944, ben consapevole degli appetiti e dei livori slavi sul Friuli orientale e l’Istria, si accorda con l’alto esponente titino Kardelj per il passaggio sotto il comando slavo-comunista di tutti i movimenti partigiani italiani per lo più com posti da comunisti, socialisti e progressisti? Il risultato fu che solo pochi reparti tedeschi e quelli d’elite della Repubblica di Salò rimasero a farsi trucidare lottando sino alla fine contro Tito per l’italianità di quelle terre che né la Monarchia sabauda né la Resistenza antifascista avevano voluto difendere e preservare. Quando intellettuali politicamente schierati a sinistra come il bulgaro Moni Ovadia ci parlano in televisione o dai palchi dei loro spettacoli, del Comunismo come: “…storia di uomini, di idee, di sacrifici, di dedizioni, di sofferenze e dolori che non può essere archiviata nel bidone della spazzatura revisionista”, o che : “il Comunismo non fu solo una storia di orrori…”, sarebbe fin troppo semplice, quasi crudele, replicare a questi santoni da salotto, ricordando loro il massacro di oltre 26 milioni di cinesi compiuto sotto il regime di Mao Tse-Tung, tra il 1949 ed il 1965, come pure i 10 milioni di vittime russe delle grandi “purghe sta linian e” nell’URSS del 1936-1938 o i 2 milioni di cambogiani uccisi dai khmer rossi di Pol Pot dal 1976 al 1979. Fermiamoci qui.
 
CANZANO - Accidenti, dalle Foibe a Pol Pot. Un bel salto. Un’ultima domanda sul tuo recente libro “La memoria non condivisa”. Puoi dirci in breve l’argomento e chi potrebbe esserne un potenziale lettore?
 
DE LUCA - Il mio lettore è innanzitutto un amante della Storia. Un lettore che ama sapere la verità anche se scomoda, che crede che il bene e il male non si possano salomonicamente distinguere e che non crede sempre e solo ad un “male assoluto” e sempre e solo dalla stessa parte. In questo libro esamino alcuni episodi cruciali che caratterizzarono nel periodo 1914-1941 i difficili rapporti economici, politici e sociali intercorsi tra italiani e slavi, riportandone sia la versione ufficiale italiana che quella irredentista slava, ovviamente su una solida base documentale. Il tutto, attraverso la comparazione della qualità di vita della minoranza sloveno-croata nel Regno d’Italia con quella della minoranza italiana nel Regno di Jugoslavia. C’è poi uno studio molto attento sulle molte organizzazioni terroristiche slave che operavano contro l’Italia in quel periodo; il resoconto di processi del Tribunale Speciale contro irredentisti slavi come Vladimir Gortan, che all’epoca fecero scalpore ed ebbero eco internazionale e tanto, tanto altro ancora. Buona lettura.
 
BIOBIBLIOGRAFIA:
 
Vincenzo Maria DE LUCA è nato a Roma nel 1958, è laureato in medicina e chirurgia. Appassionato di storia contemporanea, da alcuni anni si dedica allo studio di quei tragici avvenimenti che furono le foibe, l'esodo e le mutilazioni territoriali, successive al secondo conflitto mondiale, che sconvolsero letteralmente l'italianità di terre come la Venezia Giulia e l'Istria. Alterna alla sua attività di medico quella di ricercatore storico, soggiornando periodicamente a Trieste, Gorizia, e in Slovenia, dove raccoglie in prima persona documentazioni e testimonianze direttamente dai protagonisti, indipendentemente dalla loro nazionalità e fede politica. E' socio della Società di studi Fiumani di Roma, della Unione degli Istriani, libera provincia dell'Istria in esilio, dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. E' membro del Comitato scientifico del Centro Studi e Ricerche Storiche 'Silentes Loquimur' di Pordenone. Per la casa editrice ‘Il Settimo Sigillo’ ha pubblicato: FOIBE, Una tragedia annunciata. 2000 E' difficile trovare nei libri di storia un'esatta documentazione sulle Foibe. Spesso leggiamo menzogne, falsità, approssimazioni. Questo libro, dopo un excursus sulla storia della Venezia Giulia, ne traccia una verità non di parte, al fine di far comprendere la tragedia di quei popoli e del loro genocidio ed esodo a lungo dimenticato VENEZIA GIULIA 1943, Prove tecniche di guerra fredda. 2003 La Venezia Giulia del 1943 è stato teatro non solo di una guerra civile fra due fazioni in lotta, ma anche terra di conquista da parte del IX Korpus tititno. Ciò che è accaduto in quel lembo d'Italia, dalla nascita della Repubblica Sociale Italiana fino al trattato di Osimo, è stata una vera e propria guerra fredda; combattuta da due diverse concezioni politiche, da due opposte visioni del mondo. Non si può comprendere la storia del dopoguerra italiano e jugoslavo, fino alla crisi di fine secolo, se non si comprende l'origine della questione friuliana e dalmata, e il dramma dell'esodo di quelle popolazioni scacciate dalla propria terra. L'eccidio di Porzus è il momento più significativo ed emblematico di quella tragedia.

 

 

 

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