[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 160 / APRILE 2021 (CXCI)


filosofia & religione

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La Filosofia a Roma
Fondamento della formazione culturale

di Francesco Giannetti

 

Il rapporto iniziale di convivenza della società romana con la filosofia greca, e anche di altri aspetti importati dalla Grecia, non è certo facile; Cicerone dimostra questo difficoltoso rapporto all’inizio di una sua opera, De finibus, in quanto chi come lui volesse occuparsi di filosofia a Roma, all’incirca negli anni 50 a.C., si trovava impossibilitato perché i ceti benestanti di Roma non avvertono la necessità di trascrivere le opere e i pensieri dei filosofi greci.

 

Oltre a non avvertirne la necessità, e forse questo che andiamo a dire è la vera motivazione, è perché i romani sostenevano che la filosofia nuocesse alla dignitas romana. Quindi anche coloro che come Cicerone erano uomini colti spesso erano diffidenti alla filosofia, e per spiegare questo atteggiamento, bisogna da un lato risalire all’ostilità da parte dei romani per tutto ciò che era estraneo alle proprie tradizioni, dall’altro, all’avversione verso le speculazioni astratte. Tutto ciò spiega perché i romani non abbiano mai prodotto una filosofia originale, ma abbiano adattato quella greca, o perlomeno alcune “correnti” filosofiche, alle proprie esigenze.

 

La filosofia aveva comunque fatto la sua comparsa a Roma a partire dalla I guerra Punica (264-241 a.C.), nello stesso periodo in cui anche la letteratura greca aveva cominciato a diffondersi. Cicerone parla di una larga diffusione della dottrina pitagorica, ma è anche vero che Cicerone cerca di nobilitare al massimo le tradizioni romane facendole risalire a precedenti illustri, è però certo che altri personaggi, come il poeta e drammaturgo Quinto Ennio, che fu attratto da filosofi come Evemero che riecheggiava la dottrina pitagorica.

 

Il primo contatto significativo dei romani con la filosofia avvenne in occasione dell’ambasceria dei filosofi greci nel 155 a.C., inviata a Roma dagli Ateniesi. Fu proprio in quel frangente che la filosofia si impose per la prima volta all’attenzione di un vasto pubblico a causa dei tre personaggi inviati e cioè Diogene di Babilonia, Critolao e Carneade. Abbiamo molte fonti che testimoniano la venuta dei tre come quella di Polibio che descrive lo stile di Carneade come “veemente e trascinante”, “delicato e preciso” quello di Critolao, “modesto e sobrio” quello di Diogene.

 

Ma fu soprattutto Carneade, che “quando argomentava non si riusciva più a capire dove stesse la verità”, a sedurre l’animo dei giovani suscitando una reazione sentita di Catone l’Uticense. Questi infatti espresse il parere che si dovesse accorciare la permanenza dei tre filosofi a Roma, facendoli tornare a discutere nelle scuole della Grecia, e che i giovani romani prestassero ascolto come prima alle leggi e alle autorità romane. Come sappiamo però questa reazione di Catone non era dettata da avversione verso i tre filosofi, ma come ci testimonia Plutarco, “da avversione verso la filosofia in generale e da disprezzo per tutta l’arte e l’educazione ellenica”, questo motivato anche dalla difesa verso l’origine italica, e non greca, sostenuta da Catone.

 

Questo atteggiamento di ostilità verso la filosofia attraversa fasi alterne, ma non smette mai del tutto, tanto che sono molto frequenti esili a partire dal II secolo a.C. al VI secolo d.C. È proprio però il pugno duro, a partire dal 161 a.C., che si ritorce contro la politica di Roma, in quanto i filosofi spesso divennero ospiti abituali delle case di uomini potenti e la filosofia divenne patrimonio di circoli privati; uno degli esempi più noti è “il circolo degli Scipioni” con i filosofi Panezio di Rodi e lo storico Polibio.

 

Anche Cicerone aveva accolto nella sua casa lo stoico Diodoto. Sempre in questo periodo si consolida l’abitudine da parte delle persone colte di andare in Grecia a completare il curriculum degli studi. Possiamo dunque dire che fra il 150 al 50 a.C. assistiamo a uno spostamento di gravitazione della filosofia dal mondo greco a quello romano e che all’epoca di Cicerone si era stabilita un’intensa tradizione di scambi tra le varie scuole filosofiche elleniste a Roma; in questo secolo dunque, la filosofia greca cominciò a esercitare un’influenza sui romani.

 

Le scuole filosofiche ellenistiche raggiunsero il culmine della loro attività prima della fine della repubblica e la loro diffusione si intrecciò strettamente con la vita culturale, politica e sociale del mondo romano. Non tutte le filosofie furono accolte allo stesso modo, ma di certo lo stoicismo godette di larga popolarità fra il II e il I secolo a.C. grazie a Panezio e a Posidonio. Nonostante si trovassero all’interno della filosofia romana, entrambi affrontavano, seppure con un realismo più concreto, le problematiche che erano già state sviluppate dalla scuola stoica. Una delle maggiori divergenze dallo stoicismo antico sta nel netto rifiuto di Panezio nei confronti dell’astronomia e della divinazione, senza però intaccare il dogma per eccellenza dello stoicismo e cioè che il mondo sia ordinato dalla provvidenza. Inoltre, in campo etico, l’interesse di Panezio è rivolto alla natura individuale dell’uomo, più che a quella universale, alle caratteristiche che conferiscono a ogni singolo uomo la sua specificità, più che al concetto astratto di uomo.

 

Sosteneva dunque che la virtù fosse l’unico bene e che quindi la perfezione morale consiste nel compimento delle azioni che scaturiscono dalla reale conoscenza di bene. Tutto ciò è più un mutamento di accento, tenendo conto del fatto che Panezio scriveva per un pubblico colto, ma comunque non filosofo. Quindi crea un’etica fondata su principi di condotta capaci di regolare sia la vita dell’uomo comune che quella del saggio, dando molto più spazio alla categoria di “coloro che progrediscono verso la virtù”. Anche Cicerone è un grande estimatore di Panezio perché accoglieva nella sua dottrina elementi di quella platonica e di quella aristotelica: egli infatti sosteneva una concezione dell’anima articolata in due parti, impulso e ragione, e deduceva le quattro virtù cardinali dai quattro impulsi fondamentali peculiari alla natura umana. Di conseguenza Cicerone confermava che le scuole filosofiche fossero fondamentalmente unite fra di sé e di minimizzare di conseguenza le divergenze.

 

Lo stoicismo ha fortemente influenzato pure la politica a Roma fin dalla seconda metà del II secolo a.C. Blossio di Cuma è considerato l’ispiratore della politica agraria di Tiberio Gracco, anche se alcuni storici ritengono che le idee politiche di Blossio non debbono essere spiegate alla luce dello stoicismo, quanto piuttosto debbano essere ricondotte alla sua ostilità nei confronti di Roma a causa della sua origine italica. Comunque sia resta un dato di fatto che la famiglia degli Scevola, di cui sia Blossio che Tiberio Gracco erano in stretti rapporti, aderiva allo stoicismo.

 

Quindi abbiamo visto che sia la politica della riforma agraria di Tiberio Gracco che il suo partito avverso, quello degli Scipioni, riconducevano la propria politica a principi ispiratori della filosofia stoica. Ciò è da ricercare in una duplicità di atteggiamento all’interno della corrente filosofica stessa che esisteva già a partire dal II secolo a.C., con due correnti interpretative, che facevano capo rispettivamente ai due scolarchi, Diogene di Babilonia e Antipatro di Tarso, che si combattevano reciprocamente anche su divergenze di natura politica e sociale.

 

Nello stesso periodo in cui lo stoicismo contava numerosi seguaci tra gli aristocratici romani, l’epicureismo si diffondeva fra le masse popolari. La spiegazione di questa diversa area di propagazione non sta soltanto nel fatto che le due scuole filosofiche erano antagoniste sul piano etico, lo stoicismo propugnava la virtù come fine della vita, l’epicureismo il piacere. Ne è storicamente sostenibile che l’adesione delle masse popolari all’epicureismo possa essere giustificata con le teorie democratiche in materia sociale e religiosa che esso svolgeva. La vera ragione sta nella diffusione della lingua latina degli scritti degli epicurei, come Cicerone sottolinea.

 

Mentre la conoscenza della lingua greca era patrimonio esclusivo delle classi colte, l’epicureismo, divulgato in latino, divenne l’unica filosofia comprensibile a tutti. Cicerone è un oppositore della dottrina epicurea perché ne critica la fisica e l’etica che per lui vengono trattate in maniera semplice e elementare, contrapponendo a esse le difficoltà della filosofia stoica e le proprie sottigliezze dialettiche come segno di “superiorità filosofica” di quest’ultima. Ma tuttavia, nella contrapposizione è piuttosto l’epicureismo a guadagnare per la sua capacità di educare e di attrarre la gran parte della popolazione; questo perché si proponeva l’obiettivo di liberare gli uomini dalla paura della morte, del dolore, degli dèi, proponeva un ideale di imperturbabilità, sostenendo l’estensione della vita politica, e inoltre esponeva tali dottrine in un linguaggio semplice e gradevole.

 

Così a partire della seconda metà del II secolo alla metà del I secolo a.C. il panorama filosofico cambiò, vedendo lo stoicismo perdere terreno e l’epicureismo si trasformò da movimento popolare a movimento aristocratico e comparve sulla scena la filosofia dell’Accademia. Nello stesso tempo, sempre in contrapposizione all’epicureismo, si diffusero correnti di indole mistico-religiosa, di derivazione pitagorica di cui il più illustre rappresentante di questo neopitagorismo fu l’amico di Cicerone, Nigidio Figuloche tentò di conciliare la dottrina pitagorica con l’astrologia, praticò l’occultismo, e per questo subì un processo e fu esiliato; ma anche altri personaggi del panorama romano più illustri ebbero interesse per il simbolismo dei numeri e le speculazioni teologiche, come il grammatico Varrone e lo storico Sallustio.

 

Quindi vediamo l’epicureismo dominare la vita politica nella tarda repubblica, anziché lo stoicismo che invece diverrà la filosofia dominante durante l’impero, a partire dal momento in cui Augusto la assumerà come filosofia ufficiale del suo principato. Questo perché lo stoicismo incarnava di più di qualunque altra filosofia gli ideali morali del mos maiorum, come viene detto da Cicerone stesso. Il declino dello stoicismo alla fine dell’età repubblicana è in parte dovuto al momento politico, in cui erano richieste abilità oratorie particolari, che lo stoicismo non era in grado di fornire, in parte al fatto che proprie queste abilità erano assicurate dall’Accademia e dal Peripato.

 

Questi due luoghi si occupavano della formazione dell’oratore, soppiantando dunque lo stoicismo e non è un caso che lo stesso Cicerone attribuisca alla filosofia, intesa come disciplina indispensabile all’educazione retorica, un ruolo fondamentale anche alle sue realizzazioni di uomo politico. L’evento chiave che spiega il fascino della dottrina epicurea, e che contribuisce nello stesso tempo a determinarlo, è la composizione del “De rerum natura” di Lucrezio. L’autore infatti ricava un resoconto della dottrina epicurea del tutto antitetico a quello di Cicerone.

 

Lascia intendere che in quel periodo l’epicureismo avrebbe cessato di essere un movimento popolare; sceglie di scrivere in lingua latina, proseguendo con ciò la tradizione propria degli epicurei romani, ma formula alcune riserve: la lingua latina non è in grado di esprimere i concetti della filosofia epicurea in tutta la sua pienezza. Cicerone aveva invece rivendicato la superiorità del latino sul greco “per la ricchezza del lessico” e aveva criticato gli epicurei per aver tentato di tradurre in latino gli “atomi” di Epicuro.

 

Lucrezio sarà il primo a scrivere in latino perché vuole essere compreso da tutti, ma è anche vero che ricrea la filosofia epicurea nella sua lingua. Sa che l’impresa è difficile perché si propone di descrivere una realtà nuova, cioè di fornire una nuova teoria del mondo con nuove parole, sia creandole ex novo che modificando dall’interno i termini significativi del mos maiorum. È proprio la società oligarchica romana, con i suoi strumenti politici, in cui Lucrezio colloca il suo poema. Lucrezio rivolge preghiera a Venere parlando dell’indifferenza degli dèi, e poi attacca il concetto di religio, perché ha spinto gli uomini a compiere sacrifici umani agli dèi.

 

La separazione fra religio e pietas, che erano strettamente collegate nei valori del mos maiorum, non poteva essere più netta e con essa il rifiuto del modello di vita costruito dagli aristocratici romani. Gli dèi inventano la dottrina con delle pene tremende a cui gli uomini vanno incontro dopo la morte per avere controllo su di essi attraverso la superstizione, ma la dottrina di Epicuro, distruggendo la credenza della sopravvivenza dell’anima, libera gli uomini anche dalla paura della morte. La dottrina epicurea spiega la vera natura dell’universo e mostra il processo attraverso cui la religio è potuta crescere e affermarsi. Poiché la paura della morte è la causa della distruzione di tutti i valori morali e anche la radice dell’ambizione politica, nel terzo libro Lucrezio cerca di provare che la morte segna la fine di ogni sensibilità e coscienza.

 

Lucrezio ha poi presente la vita politica contemporanea; tuttavia non è a favore della repubblica più di quanto Epicuro lo fosse della monarchia. Infatti la lotta per il potere e l’ambizione non appartengono soltanto alle epoche passate, ma contraddistinguono anche la situazione presente. L’autore vede nella situazione politica attuale di Roma un periodo di degenerazione. Le magistrature e il governo costituzionale nascono perché gli uomini sono stanchi della violenza e perché non sono rispettati i comuni patti di pace, ma non rappresentano lo stato ideale della società umana. A Lucrezio sta a cuore dimostrare che gli stessi falsi valori che distruggono l’atarassia (assoluta imperturbabilità di fronte alle passioni, quindi esente da ogni dolore) del filosofo epicureo sono responsabili della corruzione e dell’anarchia dello stato: solo i valori propugnati dall’epicureismo sono in grado di assicurare una pace stabile e duratura; così la filosofia epicurea e la politica vanno di pari passo e diventano delle strette alleate.

 

Questa alleanza può spiegare l’adesione all’epicureismo di alcuni rappresentanti dell’aristocrazia romana, però tuttavia non ne giustifica l’impegno politico; dobbiamo dunque capire su quali basi essi poterono conciliare le due cose. Lucrezio stesso, spinge gli epicurei verso l’aponia (assenza di dolore), piuttosto che a una vita politica attiva. Un possibile seguace dell’epicureismo, almeno in alcune idee, è pure Giulio Cesare e per rivelare ciò è emblematico il suo dibattito con Catone in occasione del processo di Catilina.

 

Essi sono in disaccordo, ma entrambi si servono delle stesse argomentazioni retoriche e delle stesse categorie e fanno appello agli stessi valori apparenti. Cesare cerca di evitare loro la pena di morte sostenendo che la morte non può essere un castigo, perché a esagerare è soltanto la fine di tutti i nostri mali; inoltre condivide la tesi epicurea che le tradizioni relative agli Inferi sono tutte false. Tuttavia queste convinzioni non sono sufficienti a fondare un’interpretazione dell’epicureismo nel senso di un utilitarismo filosofico attivo che è la base dell’azione politica di alcuni epicurei di questo periodo, compreso Cesare.

 

Per comprendere ciò, bisogna analizzare la posizione espressa da Torquato nel De finibus di Cicerone, dove Torquato opera una sintesi di virtù civiche e sociali, insite nel mos maiorum, con i valori morali epicurei, quali l’atarassia e l’aponia. Ne risulta una concezione della giustizia intesa come il trionfo del limite dei desideri. Ma poiché la giustizia assicura la tranquillità, può garantire anche la pace sociale. Di conseguenza la ricerca individuale della saggezza non è perciò disgiunta dalla riforma morale dello stato e della società civile.

 

Si tratta dunque di un’ideologia morale dello stato e della società civile; si mira a fondere l’utilitarismo filosofico e la più schietta tradizione romana. Così è possibile trovare nella posizione espressa da Torquato la genesi delle azioni e dell’ideologia di Cesare, ispirate alla ricerca della potenza e della gloria, e volte alla difesa della sua utilitas anche a prezzo della guerra civile. Sarà però proprio la giustificazione alla guerra civile che indurrà alcuni epicurei, in un primo momento cesariani, a condannare le azioni di Cesare.

 

L’amore per la libertas, molto radicato nel mos maiorum, spingerà la maggior parte degli epicurei, fra cui lo stesso Cassio, a passare tra le file dei nemici di Cesare e a schierarsi a favore della repubblica. La dottrina epicurea concede dunque la possibilità di partecipare alla vita politica come “un’azione di emergenza” in momenti eccezionali, per esempio durante la tirannide. Ma la politica attiva non era coerente con i principi della dottrina, tanto che gli epicurei romani di fatto tornarono alla filosofia dopo l’assassinio di Cesare. Cicerone infatti non cessò mai di stigmatizzare l’incoerenza manifestata dagli epicurei suoi contemporanei tra le opinioni filosofiche e la condotta politica. Rimproverava a Torquato di perseguire nel suo programma d’azione il proprio utile, ma non osare dichiararlo in pubblico, dove invece si richiamava a parole come officium, aequitas, dignitas, fides, tra le quali non compariva il piacere.

 

I termini chiave dell’etica stoica si presentavano molto meglio a spiegare e rafforzare il mos maiorum, a cui Cicerone era particolarmente legato. Nel “De re publica” egli afferma con molta chiarezza che il mos maiorum è la fonte della vera conoscenza. Cicerone era convinto che i romani fossero superiori ai greci per i costumi, le istituzioni civili, l’organizzazione dello stato ma riconosceva ai greci la superiorità in campo filosofico. Lui è consapevole di non elaborare una filosofia originale e ammette continuamente la sua dipendenza dai modelli greci, anche se dichiara di non fare una semplice opera di traduttore.

 

Nel tentativo di interessare i romani, che per la maggior parte pensavano che la filosofia fosse un’occupazione buona per i greci e i romani incapaci di dedicarsi alla vita pubblica, cercò di rivestire la filosofia greca di esempi tratti dalla vita e dalla storia romana, conferendole così maggiore dignità. Egli aveva buona conoscenza della filosofia greca e aveva studiato con i rappresentanti più insigni delle scuole filosofiche; dichiara che i suoi maestri furono gli stoici Posidonio e Diodoto, gli accademici Filone di Larissa e Antioco d’Ascalona. Entrambi questi ultimi esercitarono una notevole influenza su di lui, tanto che il contrasto dottrinale che li aveva divisi, oltre a essere oggetto dei “Libri Academici”, fu occasione, per Cicerone, di continua riflessione.

 

Tuttavia non si può considerare Cicerone un modello di coerenza filosofica, perché egli scrisse anche opere di carattere dogmatico, come il De officiis, il De re publica e il De legibus, in cui aderisce totalmente alle dottrine esposte. Infatti in queste opere, espone la rigenerazione della classe governante di Roma, spingendola a ritornare al modello di comportamento, codificato nel mos maiorum, e che aveva trovato la sua teorizzazione, ancor prima, nella filosofia greca.

 

Le contraddizioni in cui si dibatte Cicerone sono segno della difficoltà del tentativo di fondere due mentalità così diverse come quella greca, incline alla speculazione e all’astrazione, e quella latina, volta alle realizzazioni concrete. Cicerone con la sua attività filosofica ha posto le basi perché la filosofia non fosse più avvertita come un prodotto estraneo allo spirito romano, creando una terminologia nuova in un linguaggio che non era mai stato adattato a questo uso. È dunque una figura significativa dell’incontro della cultura romana con la filosofia greca, non soltanto perché è la fonte più importante d’informazione di questo evento, ma anche perché ha contribuito a determinarlo.

 

Alla fine del periodo repubblicano le scuole filosofiche greche, stoicismo, epicureismo, Accademia e Peripato, si sono costituite a Roma sulla base di una storia del pensiero che Cicerone e Varrone hanno imposto: il primo tentando di unificare lo stoicismo e l’Accademia eliminandone le differenze dottrinali, il secondo utilizzando criteri di classificazione sistematici che permettessero di ordinarle.

 

Anche durante il principato si mantenne la convinzione che la filosofia fosse inutile per i romani anche appartenente alla classe senatoriale. Tra le classi colte permaneva la convinzione che chi volesse accedere alla vita pubblica non potesse coltivare oltre certi limiti la filosofia, perché trasmetteva dottrine inattuabili nella realtà politica. Durante i primi secoli dell’impero le scuole filosofiche, continuarono a esistere non a Roma ma prevalentemente nelle città della parte orientale, come Alessandria, Smirne, Pergamo, mentre insegnanti privati si incontravano nella parte occidentale in città di fondazione greca come Napoli o Marsiglia.

 

Dal II e III secolo d.C. furono il platonismo e l’aristotelismo a mantener viva la ricerca ontologica e metafisica affermandosi e diffondendosi nell’impero grazie a le opere di Plutarco, Galeno, Alessandro di Afrodisiade, ma non fino all’età degli Antonini. Seneca, facendo un bilancio dell’attività delle scuole filosofiche a conclusione delle “Questioni naturali”, ne afferma in termini inequivocabili il declino, almeno a Roma. Tutto ciò però non significa che non ci fossero a Roma veri e propri maestri di filosofia come Musonio Rufo, Demetrio o Epitteto. Essi svolgevano la propria attività mediante lezioni pubbliche, come attesta Seneca per Demetrio, o all’interno della struttura scolastica, secondo quanto riferisce Epitteto della sua attività di maestro.

 

Il programma politico di Augusto consisteva nella restaurazione dei valori morali, politici, culturali e religiosi del passato. In campo filosofico però a Roma non c’era niente da restaurare in quanto Roma non aveva una filosofia originale, ma quella greca era comunque penetrata; la politica di Augusto fu dunque di rendere la filosofia inoffensiva, trasformandola all’interno.

 

Tale politica non favorì la nascita di filosofie nuove, ma un minore vigore speculativo che si tradusse da un lato nell’inventariare i risultati raggiunti, dall’altro nell’assistenza morale delle coscienze. La filosofia confluiva nella letteratura: Orazio, Ovidio, Virgilio divulgano in versi i luoghi comuni filosofici, come la ricerca della quiete, della serenità, il disprezzo dell’avaritia e della luxuria. Del resto anche dei filosofi di cui Augusto si circondò, nessuno era uno strenuo sostenitore delle dottrine filosofiche della scuola a cui apparteneva, ma si adattava alla politica culturale dell’imperatore, come gli stoici Ario Didimo e Atenodoro, il peripatetico Senarco e l’accademico Nestore.

 

Unica eccezione furono i Sesti, che non accettarono mai i favori del potere imperiale. Sestio padre riteneva di aver fondato una scuola essenzialmente romana, ma è significativo che diffondesse il suo insegnamento in greco. Erano molto vicini allo stoicismo, almeno in campo etico, anche se Sestio padre rifiutava questa denominazione. Nella sua dottrina confluivano anche elementi cinici e pitagorici. Egli teorizzava non più la libertà nello stato, ma la libertà dello stato, che doveva garantire al sapiente le condizioni per esercitare la propria attività; tale opposizione politica al principato guadagnò le simpatie di molti intellettuali.

 

Durante il principato di Augusto l’epicureismo ebbe diffusione soprattutto nel “circolo di Mecenate”. Infatti, dopo l’esplosione di vitalità dell’ultimo periodo della repubblica, il cenacolo della Campania indebolì il suo vigore dottrinale. Augusto non era favorevole all’epicurei, dal momento che era vivo in lui il ricordo dell’assassini di Cesare. Inoltre l’attacco alla religio, l’ideale dell’aponia e del piacere, il pacifismo, propugnati dagli epicurei, erano profondamente contrari al mos maiorum e mal si adattavano ai valori della restaurazione augustea.

 

Ciò non significa che l’epicureismo fu del tutto estirpato, perché profondamente radicato, ma fu costretto a restare anonimo, come testimonia il fatto che Lucrezio, principale veicolo per la conoscenza della dottrina epicurea, continuava a essere letto, ma il suo nome non era mai pronunciato. Anche in età neroniana l’influenza dell’epicureismo è presente in Lucilio, in Sereno, in Petronio e in alcuni altri partecipanti alla congiura di Pisone, ed è difeso all’epoca di Traiano dall’imperatrice Plotina.

 

Il cinismo poi, si era manifestato a Roma a partire dal I secolo a.C. più come un fenomeno letterario e uno stile di vita che come una filosofia; l’assenza di personalità di rilievo aveva fatto sì che i confini tra l’etica cinica e quella stoica divenissero sempre più incerti e sfumati, tanto che nella tradizione la concezione di una filosofia popolare stoico-cinica copre un’area letteraria e filosofica piuttosto vasta. Nel I secolo d.C. il cinismo riassunse una propria fisionomia e acquistò poi, la sua maggiore espansione sotto la dinastia giulio-claudia, contro la ricchezza e la vita dissoluta. Demetrio verrà ammirato profondamente da Seneca, e condusse una critica serrata contro il principato, tanto che Vespasiano nel 71 d.C., con un provvedimento che colpiva tutti i filosofi, lo esiliò su una piccola isola.

 

Anche i rapporti dello stoicismo con il potere imperiale non furono sempre idilliaci. La dottrina almeno in teoria, era pronta a riconoscere l’imperatore come l’incarnazione dell’ideale di monarchia, se questi avesse usato il potere in modo giusto. Emblematico è l’esempio di Seneca, che divenuto consigliere di Nerone in linea con la tradizione della scuola, si adoperò nel De clementia a fornire una giustificazione filosofica alla monarchia. Tuttavia l’attacco alla libertas produrrà all’interno dello stoicismo un forte movimento di opposizione contro il potere imperiale, che percorrerà essenzialmente l’età giulio-claudia e quella dei Flavi, esaurendosi soltanto con l’età degli Antonini.

 

Lo stoicismo fu senza dubbio l’indirizzo filosofico maggiormente corrispondente alle specifiche necessità dei romani, anche se non raggiunse mai la sua dimensione filosofica popolare. Caratteristica dello stoicismo romano fu l’abbandono della fisica e della logica a favore dell’etica, in nome del rifiuto di un astratto intellettualismo. Per Epitteto e il suo maestro Musonio solo la filosofia può procurare all’uomo la vera libertas, che non teme né l’esilio né la morte e che rende liberi dalla schiavitù degli appetiti del corpo.

 

Una posizione peculiare all’interno dello stoicismo occupa Seneca, che, pur costruendo la sua etica sui principi fondamentali della scuola, accolse e rielaborò elementi delle altre dottrine filosofiche, rivendicando indipendenza di giudizio; affermò con chiarezza che solo lo stoicismo forniva una spiegazione coerente e organica della realtà. La sua posizione fu dunque di apertura verso gli epicurei, che difese dall’accusa di professare un edonismo volgare, del medio platonismo, del cinismo, di cui condivise la polemica contro la ricchezza e il lusso; ma fu sempre considerato uno stoico. Ci sono due principi alla base della realtà: la materia, il principio passivo e la ragione, il principio attivo. Il principio attivo che governa e dirige il cosmo è dio e pervade tutte le cose, la ragione umana è intimamente partecipe di quella divina. Nella perfezione della ragione, dunque, consiste il fine ultimo dell’uomo e solo l’attività speculativa e scientifica rappresenta la più alta attività umana.

 

Bisognerà giungere a Marco Aurelio per avere un riconoscimento ufficiale del ruolo dei filosofi con l’istituzione ad Atene di quattro cattedre di filosofia, assegnate con imparzialità alle scuole filosofiche greche tradizionalmente più importanti: stoica, epicurea, platonica e aristotelica. Pur professando lo stoicismo, Marco Aurelio, nell’esercizio del potere non si comportò da stoico, ma si mantenne fedele alle tradizioni romane.

 

È comunque significativo che egli si servisse della lingua greca per esporre la sua filosofia; in ciò egli rivelava l’atteggiamento tipico dei romani nei confronti della filosofia, integrandola nella formazione culturale come un elemento importante della humanitas, ma conformandosi alla tradizione e ai costumi romani nel governo dello stato.

 

 

Riferimenti Bibliografici:

 

CAMBIANO G., I filosofi in Grecia e a Roma. Quando pensare era un modo di vivere, Il Mulino, Bologna 2013.

CAMBIANO G., FONNESU L., MORI M., La filosofia antica. Dalla Grecia antica ad Agostino, Il Mulino, Bologna 2018

IOPPOLO A.M., La continuità della filosofia greca a Roma, in “I greci. Storia, cultura, arte, società. Titolo III: trasformazioni”, Einaudi, Torino 1998.

MASO S., La filosofia a Roma. La riflessione sui principi e l’arte della vita, Carocci, Roma 2012. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]