[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

167 / NOVEMBRE 2021 (CXCVIII)


filosofia & religione

SULLA FILOSOFIA A ROMA

FONDAMENTI DI UNA FORMAZIONE CULTURALE / PARTE II

di Francesco Giannetti

 

Un possibile seguace dell’epicureismo, almeno in alcune idee, è pure Giulio Cesare e per rivelare ciò è emblematico il suo dibattito con Catone in occasione del processo di Catilina. Essi sono in disaccordo, ma entrambi si servono delle stesse argomentazioni retoriche e delle stesse categorie e fanno appello agli stessi valori apparenti.

 

Cesare cerca di evitare loro la pena di morte sostenendo che la morte non può essere un castigo, perché a esagerare è soltanto la fine di tutti i nostri mali; inoltre condivide la tesi epicurea che le tradizioni relative agli Inferi sono tutte false. Tuttavia queste convinzioni non sono sufficienti a fondare un’interpretazione dell’epicureismo nel senso di un utilitarismo filosofico attivo che è la base dell’azione politica di alcuni epicurei di questo periodo, compreso Cesare.

 

Per comprendere ciò, bisogna analizzare la posizione espressa da Torquato nel “De finibus” di Cicerone, dove Torquato opera una sintesi di virtù civiche e sociali, insite nel mos maiorum, con i valori morali epicurei, quali l’atarassia e l’aponia. Ne risulta una concezione della giustizia intesa come il trionfo del limite dei desideri. Ma poiché la giustizia assicura la tranquillità, può garantire anche la pace sociale. Di conseguenza la ricerca individuale della saggezza non è perciò disgiunta dalla riforma morale dello stato e della società civile.

 

Si tratta dunque di un’ideologia morale dello stato e della società civile; si mira a fondere l’utilitarismo filosofico e la più schietta tradizione romana. Così è possibile trovare nella posizione espressa da Torquato la genesi delle azioni e dell’ideologia di Cesare, ispirate alla ricerca della potenza e della gloria, e volte alla difesa della sua utilitas anche a prezzo della guerra civile. Sarà però proprio la giustificazione alla guerra civile che indurrà alcuni epicurei, in un primo momento cesariani, a condannare le azioni di Cesare.

 

L’amore per la libertas, molto radicato nel mos maiorum, spingerà la maggior parte degli epicurei, fra cui lo stesso Cassio, a passare tra le file dei nemici di Cesare e a schierarsi a favore della repubblica. La dottrina epicurea concede dunque la possibilità di partecipare alla vita politica come “un’azione di emergenza” in momenti eccezionali, per esempio durante la tirannide. Ma la politica attiva non era coerente con i principi della dottrina, tanto che gli epicurei romani di fatto tornarono alla filosofia dopo l’assassinio di Cesare. Cicerone infatti non cessò mai di stigmatizzare l’incoerenza manifestata dagli epicurei suoi contemporanei tra le opinioni filosofiche e la condotta politica. Rimproverava a Torquato di perseguire nel suo programma d’azione il proprio utile, ma non osare dichiararlo in pubblico, dove invece si richiamava a parole come officium, aequitas, dignitas, fides, tra le quali non compariva il piacere.

 

I termini chiave dell’etica stoica si presentavano molto meglio a spiegare e rafforzare il mos maiorum, a cui Cicerone era particolarmente legato. Nel “De re publica” egli afferma con molta chiarezza che il mos maiorum è la fonte della vera conoscenza. Cicerone era convinto che i romani fossero superiori ai greci per i costumi, le istituzioni civili, l’organizzazione dello stato ma riconosceva ai greci la superiorità in campo filosofico. Lui è consapevole di non elaborare una filosofia originale e ammette continuamente la sua dipendenza dai modelli greci, anche se dichiara di non fare una semplice opera di traduttore.

 

Nel tentativo di interessare i romani, che per la maggior parte pensavano che la filosofia fosse un’occupazione buona per i greci e i romani incapaci di dedicarsi alla vita pubblica, cercò di rivestire la filosofia greca di esempi tratti dalla vita e dalla storia romana, conferendole così maggiore dignità. Egli aveva buona conoscenza della filosofia greca e aveva studiato con i rappresentanti più insigni delle scuole filosofiche; dichiara che i suoi maestri furono gli stoici Posidonio e Diodoto, gli accademici Filone di Larissa e Antioco d’Ascalona.

 

Entrambi questi ultimi esercitarono una notevole influenza su di lui, tanto che il contrasto dottrinale che li aveva divisi, oltre a essere oggetto dei “Libri Academici”, fu occasione, per Cicerone, di continua riflessione. Tuttavia non si può considerare Cicerone un modello di coerenza filosofica, perché egli scrisse anche opere di carattere dogmatico, come il “De officiis”, il “De re publica” e il “De legibus”, in cui aderisce totalmente alle dottrine esposte. Infatti in queste opere, espone la rigenerazione della classe governante di Roma, spingendola a ritornare al modello di comportamento, codificato nel mos maiorum, e che aveva trovato la sua teorizzazione, ancor prima, nella filosofia greca.

 

Le contraddizioni in cui si dibatte Cicerone sono segno della difficoltà del tentativo di fondere due mentalità così diverse come quella greca, incline alla speculazione e all’astrazione, e quella latina, volta alle realizzazioni concrete. Cicerone con la sua attività filosofica ha posto le basi perché la filosofia non fosse più avvertita come un prodotto estraneo allo spirito romano, creando una terminologia nuova in un linguaggio che non era mai stato adattato a questo uso. È dunque una figura significativa dell’incontro della cultura romana con la filosofia greca, non soltanto perché è la fonte più importante d’informazione di questo evento, ma anche perché ha contribuito a determinarlo.

 

Alla fine del periodo repubblicano le scuole filosofiche greche, stoicismo, epicureismo, Accademia e Peripato, si sono costituite a Roma sulla base di una storia del pensiero che Cicerone e Varrone hanno imposto: il primo tentando di unificare lo stoicismo e l’Accademia eliminandone le differenze dottrinali, il secondo utilizzando criteri di classificazione sistematici che permettessero di ordinarle. Anche durante il principato si mantenne la convinzione che la filosofia fosse inutile per i romani anche appartenente alla classe senatoriale. Tra le classi colte permaneva la convinzione che chi volesse accedere alla vita pubblica non potesse coltivare oltre certi limiti la filosofia, perché trasmetteva dottrine inattuabili nella realtà politica.

 

Durante i primi secoli dell’impero le scuole filosofiche, continuarono a esistere non a Roma ma prevalentemente nelle città della parte orientale, come Alessandria, Smirne, Pergamo, mentre insegnanti privati si incontravano nella parte occidentale in città di fondazione greca come Napoli o Marsiglia. Dal II e III secolo d.C. furono il platonismo e l’aristotelismo a mantener viva la ricerca ontologica e metafisica affermandosi e diffondendosi nell’impero grazie a le opere di Plutarco, Galeno, Alessandro di Afrodisiade, ma non fino all’età degli Antonini.

 

Seneca, facendo un bilancio dell’attività delle scuole filosofiche a conclusione delle “Questioni naturali”, ne afferma in termini inequivocabili il declino, almeno a Roma. Tutto ciò però non significa che non ci fossero a Roma veri e propri maestri di filosofia come Musonio Rufo, Demetrio o Epitteto. Essi svolgevano la propria attività mediante lezioni pubbliche, come attesta Seneca per Demetrio, o all’interno della struttura scolastica, secondo quanto riferisce Epitteto della sua attività di maestro. Il programma politico di Augusto consisteva nella restaurazione dei valori morali, politici, culturali e religiosi del passato.

 

In campo filosofico però a Roma non c’era niente da restaurare in quanto Roma non aveva una filosofia originale, ma quella greca era comunque penetrata; la politica di Augusto fu dunque di rendere la filosofia inoffensiva, trasformandola all’interno. Tale politica non favorì la nascita di filosofie nuove, ma un minore vigore speculativo che si tradusse da un lato nell’inventariare i risultati raggiunti, dall’altro nell’assistenza morale delle coscienze. La filosofia confluiva nella letteratura: Orazio, Ovidio, Virgilio divulgano in versi i luoghi comuni filosofici, come la ricerca della quiete, della serenità, il disprezzo dell’avaritia e della luxuria

 

Del resto anche dei filosofi di cui Augusto si circondò, nessuno era uno strenuo sostenitore delle dottrine filosofiche della scuola a cui apparteneva, ma si adattava alla politica culturale dell’imperatore, come gli stoici Ario Didimo e Atenodoro, il peripatetico Senarco e l’accademico Nestore. Unica eccezione furono i Sesti, che non accettarono mai i favori del potere imperiale. Sestio padre riteneva di aver fondato una scuola essenzialmente romana, ma è significativo che diffondesse il suo insegnamento in greco. Erano molto vicini allo stoicismo, almeno in campo etico, anche se Sestio padre rifiutava questa denominazione.

 

Nella sua dottrina confluivano anche elementi cinici e pitagorici. Egli teorizzava non più la libertà nello stato, ma la libertà dello stato, che doveva garantire al sapiente le condizioni per esercitare la propria attività; tale opposizione politica al principato guadagnò le simpatie di molti intellettuali. Durante il principato di Augusto l’epicureismo ebbe diffusione soprattutto nel “circolo di Mecenate”. Infatti, dopo l’esplosione di vitalità dell’ultimo periodo della repubblica, il cenacolo della Campania indebolì il suo vigore dottrinale. Augusto non era favorevole all’epicurei, dal momento che era vivo in lui il ricordo dell’assassini di Cesare. Inoltre l’attacco alla religio, l’ideale dell’aponia e del piacere, il pacifismo, propugnati dagli epicurei, erano profondamente contrari al mos maiorum e mal si adattavano ai valori della restaurazione augustea.

 

Ciò non significa che l’epicureismo fu del tutto estirpato, perché profondamente radicato, ma fu costretto a restare anonimo, come testimonia il fatto che Lucrezio, principale veicolo per la conoscenza della dottrina epicurea, continuava a essere letto, ma il suo nome non era mai pronunciato. Anche in età neroniana l’influenza dell’epicureismo è presente in Lucilio, in Sereno, in Petronio e in alcuni altri partecipanti alla congiura di Pisone, ed è difeso all’epoca di Traiano dall’imperatrice Plotina.

 

Il cinismo poi, si era manifestato a Roma a partire dal I secolo a.C. più come un fenomeno letterario e uno stile di vita che come una filosofia; l’assenza di personalità di rilievo aveva fatto sì che i confini tra l’etica cinica e quella stoica divenissero sempre più incerti e sfumati, tanto che nella tradizione la concezione di una filosofia popolare stoico-cinica copre un’area letteraria e filosofica piuttosto vasta. Nel I secolo d.C. il cinismo riassunse una propria fisionomia e acquistò poi, la sua maggiore espansione sotto la dinastia giulio-claudia, contro la ricchezza e la vita dissoluta. Demetrio verrà ammirato profondamente da Seneca, e condusse una critica serrata contro il principato, tanto che Vespasiano nel 71 d.C., con un provvedimento che colpiva tutti i filosofi, lo esiliò su una piccola isola.

 

Anche i rapporti dello stoicismo con il potere imperiale non furono sempre idilliaci. La dottrina almeno in teoria, era pronta a riconoscere l’imperatore come l’incarnazione dell’ideale di monarchia, se questi avesse usato il potere in modo giusto. Emblematico è l’esempio di Seneca, che divenuto consigliere di Nerone in linea con la tradizione della scuola, si adoperò nel “De clementia” a fornire una giustificazione filosofica alla monarchia. Tuttavia l’attacco alla libertas produrrà all’interno dello stoicismo un forte movimento di opposizione contro il potere imperiale, che percorrerà essenzialmente l’età giulio-claudia e quella dei Flavi, esaurendosi soltanto con l’età degli Antonini.

 

Lo stoicismo fu senza dubbio l’indirizzo filosofico maggiormente corrispondente alle specifiche necessità dei romani, anche se non raggiunse mai la sua dimensione filosofica popolare. Caratteristica dello stoicismo romano fu l’abbandono della fisica e della logica a favore dell’etica, in nome del rifiuto di un astratto intellettualismo. Per Epitteto e il suo maestro Musonio solo la filosofia può procurare all’uomo la vera libertas, che non teme né l’esilio né la morte e che rende liberi dalla schiavitù degli appetiti del corpo. Una posizione peculiare all’interno dello stoicismo occupa Seneca, che, pur costruendo la sua etica sui principi fondamentali della scuola, accolse e rielaborò elementi delle altre dottrine filosofiche, rivendicando indipendenza di giudizio; affermò con chiarezza che solo lo stoicismo forniva una spiegazione coerente e organica della realtà.

 

La sua posizione fu dunque di apertura verso gli epicurei, che difese dall’accusa di professare un edonismo volgare, del medio platonismo, del cinismo, di cui condivise la polemica contro la ricchezza e il lusso; ma fu sempre considerato uno stoico. Ci sono due principi alla base della realtà: la materia, il principio passivo e la ragione, il principio attivo. Il principio attivo che governa e dirige il cosmo è dio e pervade tutte le cose, la ragione umana è intimamente partecipe di quella divina. Nella perfezione della ragione, dunque, consiste il fine ultimo dell’uomo e solo l’attività speculativa e scientifica rappresenta la più alta attività umana.

 

Bisognerà giungere a Marco Aurelio per avere un riconoscimento ufficiale del ruolo dei filosofi con l’istituzione ad Atene di quattro cattedre di filosofia, assegnate con imparzialità alle scuole filosofiche greche tradizionalmente più importanti: stoica, epicurea, platonica e aristotelica. Pur professando lo stoicismo, Marco Aurelio, nell’esercizio del potere non si comportò da stoico, ma si mantenne fedele alle tradizioni romane.

 

È comunque significativo che egli si servisse della lingua greca per esporre la sua filosofia; in ciò egli rivelava l’atteggiamento tipico dei romani nei confronti della filosofia, integrandola nella formazione culturale come un elemento importante della humanitas, ma conformandosi alla tradizione e ai costumi romani nel governo dello stato.

 

 

Riferimenti Bibliografici:

 

Cambiano G., I filosofi in Grecia e a Roma. Quando pensare era un modo di vivere, Il Mulino, Bologna 2013.

Cambiano G., Fonnesu L., Mori M., La filosofia antica. Dalla Grecia antica ad Agostino, Il Mulino, Bologna 2018.

Ioppolo A.M., La continuità della filosofia greca a Roma, in “I greci. Storia, cultura, arte, società. Titolo III: trasformazioni”, Einaudi, Torino 1998.

Maso S., La filosofia a Roma. La riflessione sui principi e l’arte della vita, Carocci, Roma 2012.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]