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ANTICA


N. 107 - Novembre 2016 (CXXXVIII)

Filippo il macedone e Alessandro magno in Plutarco

UN RAPPORTO enigmatico
di Serena Scicolone

 

Una constatazione fondamentale deducibile dallo studio e dall’analisi della Storia è che in essa muta il contesto, mutano gli eventi, mutano i protagonisti ma la natura umana rimane essenzialmente la stessa. Le paure, i desideri e i sentimenti di un uomo vissuto in un remoto passato sono facilmente compresi e spesso condivisi da un contemporaneo. La Storia si rivela affascinante anche perché permette di cogliere nel susseguirsi degli eventi la continuità dell’animo umano rendendo possibile la creazione di un legame empatico tra uomini le cui vite sono separate da secoli.

 

Si sente spesso dire che il mestiere più difficile sia quello del genitore e forse questo fu pensato anche da Filippo II il Macedone: fu infatti un re e condottiero capace di sconfiggere i nemici in battaglia, crearsi alleati servendosi del carisma e della sua straordinaria diplomazia ma fu anche un padre che si trovò in difficoltà nella gestione del rapporto con il figlio, il piccolo Alessandro che dai posteri avrebbe ricevuto l’appellativo di Magno.

 

Il loro rapporto rimane ancora oggi enigmatico, caratterizzato da luci e ombre che rendono difficile la decifrazione dei reciproci sentimenti. Non si trattò certamente di un rapporto idilliaco, ci furono numerose occasioni di contrasto tra padre e figlio ma esse furono davvero tali da portare Alessandro, come alcuni allora vociferarono, a desiderare e causare la morte del padre? Per tentare di rispondere a questa domanda è necessario risalire all’infanzia e alla giovinezza di Alessandro. L’autore che più di ogni altro ci ha tramandato notizie relative a quel periodo è il greco Plutarco, attraverso la sua opera Vite parallele.

 

La vita di Alessandro narrata da Plutarco, così come quella degli altri personaggi descritti nell’opera, è arricchita da aneddoti e avvenimenti romanzati che hanno spinto gli studiosi ad avere qualche dubbio sulla possibilità di definire Plutarco un vero e proprio storico. Fu d’altronde lo stesso autore greco, vissuto a cavallo tra I e II secolo d.C., a precisare che egli scriveva vite, non storie, poiché riteneva che il carattere di un uomo emergesse dalle piccole azioni quotidiane, dalle parole, dalle movenze e dai motti arguti piuttosto che dalle grandi imprese compiute.

 

Affermare con certezza che tutto ciò che è stato narrato da Plutarco sia realmente accaduto sarebbe un grave errore ma altrettanto erroneo sarebbe sottovalutare l’importanza storica dei suoi racconti: Plutarco ha tratteggiato i personaggi delle Vite parallele impreziosendoli con le dicerie contemporanee diffuse sul loro conto. Tali dicerie non potevano essere tutte inventate e soprattutto, almeno gran parte di esse, furono caratterizzate da un fondo di verità e costituiscono ancora oggi un valido riflesso delle opinioni e del clima sociale di quel tempo.

 

Quando Plutarco, per esempio, scrive che Alessandro discendeva per parte paterna da Eracle e per parte materna da Achille, ci tramanda quella che era davvero la convinzione diffusa tra i contemporanei di Alessandro Magno, figlio di Filippo II di Macedonia e della principessa epirota Olimpiade. I macedoni, popolazione considerata semibarbara dai Greci, si vantavano infatti di possedere una stirpe reale discendente da Eracle, mentre i re epiroti ritenevano di avere come illustre antenato Neottolemo, figlio di Achille.

 

Alessandro, insomma, apparve sin da subito come predestinato a grandi imprese e ciò fu alimentato ancor di più da altre leggende diffuse sul suo conto: si diceva che egli fosse figlio dello stesso Zeus unitosi con Olimpiade dopo aver assunto le sembianze di un serpente. Ciò non era gradito da Filippo e probabilmente neanche dalla madre Olimpiade accusata così di adulterio, seppur con il re degli dei e degli uomini! Alessandro, invece, non si preoccupò mai di smentire apertamente tali voci tanto che Plutarco riferisce che, secondo alcuni, Olimpiade rimproverasse il figlio di alimentare tali calunnie e di attirarle contro l’ira di Era, dea e gelosa moglie di Zeus. Tuttavia questo atteggiamento non deve essere interpretato come un reale desiderio di Alessandro di rinnegare la paternità di Filippo: è molto più probabile che egli si divertisse semplicemente a emulare le vicende relative all’eroe Eracle (secondo la mitologia figlio di Alcmena e Zeus e costretto a superare le dodici fatiche causate dalla gelosia di Era) così come imitava costantemente quelle di Achille (tanto da chiamare sé ed Efestione, suo amante, i nuovi Achille e Patroclo).

 

Alessandro sapeva di dover molto a Filippo; anche quando affermò «a mio padre devo la vita, al mio maestro una vita che vale la pena di essere vissuta» non poté certo dimenticare che era stato proprio Filippo a volere che fosse educato, all’età di quattordici anni, da uno degli uomini più sapienti del tempo: Aristotele.

 

Filippo, infatti, desiderava non solo che Alessandro ricevesse un’educazione greca ma anche che a impartirgli tale formazione fosse il migliore maestro del tempo. Quest’ultimo fu convinto anche attraverso una ricchissima retribuzione ma soprattutto grazie alla ricostruzione di Stagira, sua città natale precedentemente rasa al suolo dal re macedone. Aristotele, filosofo e primo biologo della storia, affascinò Alessandro fornendogli una cultura universale che comprendeva la poesia, la logica, la matematica, la zoologia, la geografia, l’agronomia e la medicina.

 

Se Filippo dunque contribuì indirettamente alla formazione culturale del figlio, riguardo invece la formazione militare egli fu senza alcun dubbio il principale maestro. La struttura dell’esercito e le tattiche militari con le quali Alessandro realizzò il suo impero risalivano proprio al padre. Filippo aveva infatti riformato l’esercito introducendo la leva obbligatoria e servendosi di ciò che aveva appreso quando, all’età di quattordici anni, aveva dovuto soggiornare per due anni a Tebe come ostaggio: lì egli aveva assistito all’efficacia della falange obliqua che attaccava da sinistra la destra dell’avversario. Inoltre Filippo introdusse nella falange macedone una nuova arma, la sarissa, una lancia di legno di corniolo lunga quasi sei metri: quest’arma si sarebbe rivelata fondamentale per la futura vittoria di Alessandro contro i Persiani, dotati in gran parte solo di corti giavellotti.

 

Tra gli aspetti che accomunavano padre e figlio vi furono certamente una grande ambizione e uno sterminato e a volte spietato desiderio di conquista. Furono in parte proprio questi due aspetti a creare alcuni dissidi sorti dalla mania di protagonismo personale e dalla gelosia dei successi altrui. Plutarco sostiene addirittura che alla notizia della conquista paterna di una gloriosa città, Alessandro non reagisse con totale felicità ma si irritasse per paura che in futuro ben poche imprese gli sarebbero rimaste da compiere a causa della riuscita di quelle del padre.

 

Anche Filippo, a sua volta, sembrò mostrare in alcune circostanze la paura che il figlio potesse adombrare le sue abilità. Ciò accadde, per esempio, nel 338 a.C. in occasione della celebre battaglia di Cheronea. Stavolta è lo storico Diodoro Siculo a tramandarci la testimonianza che, nonostante Alessandro avesse avuto un ruolo di primaria importanza nel mettere in fuga i nemici, il padre, affrettandosi a spingersi in prima fila, si affibbiò tutto il merito di quella vittoria non riconoscendo pubblicamente al figlio la gloria dovuta.

 

Altro motivo di scontri familiari furono i numerosi matrimoni di Filippo e il ripudio di Olimpiade. In particolare le nozze con Cleopatra Euridice crearono grande scompiglio in famiglia: si trattava di un matrimonio rischioso per Alessandro poiché Cleopatra era, a differenza di Olimpiade, di sangue macedone. Tale rischio fu reso esplicito proprio durante i festeggiamenti: Attalo, zio di Cleopatra, invitò i presenti a brindare con l’augurio che da quell’unione la Macedonia ottenesse finalmente un erede legittimo. Questa affermazione causò delle pericolose reazioni a catena: Alessandro, iracondo, aggredì Attalo ferendolo alla testa e Filippo si scagliò allora con la spada in mano contro il figlio ma, probabilmente a causa del troppo vino bevuto, non riuscì neppure a raggiungerlo poiché cadde dinanzi agli occhi di tutti i banchettanti. La frase pronunciata da Alessandro non migliorò certo la situazione: «Dunque è costui, o amici, quello che si preparava a passare dall’Europa all’Asia, proprio colui che passando da un letto all’altro si è capovolto!». Plutarco commenta questa frase come «una scorrettezza da ubriaco». Subito dopo tale avvenimento Alessandro si allontanò da Pella, capitale macedone, e si ritirò con la madre in Illiria.

 

Dopo pochi mesi, però, fu perdonato dal padre e si persuase a tornare. Tuttavia il perdono non annientò i sospetti e il rancore. Pissodaro, satrapo di Caria, offrì in sposa (per motivi di alleanza politica) la figlia maggiore a Arrideo, figlio di Filippo. Ciò scatenò nuovamente in Alessandro la paura di non ottenere il trono, timore alimentato in gran parte (stando a quanto riferito da Plutarco) dalle calunnie e dalle accuse mosse contro Filippo da parte di Olimpiade e degli amici.

 

Fu ordita allora da Alessandro una trama volta a scombussolare i piani paterni: egli stesso propose a Pissodaro di diventare suo genero al posto del fratellastro Arrideo. Quando Filippo venne a conoscenza della trama si recò personalmente da Alessandro per chiarire la questione. Le accuse volte dal padre al figlio sono illuminanti per la comprensione dei sentimenti di Filippo. Egli biasimò violentemente il figlio non tanto per aver tramato contro di lui in segreto, quanto perché, desiderando di divenire genero di un uomo di Caria che era schiavo di un re barbaro, egli dimostrava di essere indegno di tutto l’onore e le ricchezze che aveva intorno.

 

Da ciò può evincersi che probabilmente Filippo non mise mai in dubbio che il suo degno successore sarebbe stato Alessandro: seppur in parte geloso, era un padre orgoglioso di quel figlio con il quale mostrava costantemente di competere. Filippo aveva sempre immaginato, forse, che quel figlio così straordinario avrebbe ottenuto successi maggiori dei suoi, non per questo tuttavia lo amò di meno e il celebre aneddoto del cavallo Bucefalo sembra volerci tramandare proprio questo: quando Filippo vide che il giovanissimo Alessandro (appena dodicenne) era stato l’unico in grado di cavalcare Bucefalo, gli disse «Figlio mio, cercati un regno più grande, la Macedonia non ti contiene!». Quest’affermazione non può essere considerata come una minaccia ma deve invece intendersi come l’orgogliosa constatazione di un padre delle abilità del figlio poiché Plutarco precisa che Filippo, mentre pronunciava queste parole, piangeva di gioia e baciava Alessandro.

 

Il re macedone fu ucciso nel 336 a.C. da un certo Pausania. Alcuni contemporanei avanzarono dubbi sul coinvolgimento di Olimpiade e del figlio nell’assassinio di Filippo. Oggi, tuttavia, si ritiene che Alessandro non si macchiò di un delitto così orribile e questa dovette essere anche l’opinione maggiormente diffusa tra gli antichi visto che Plutarco sottolinea che i sospetti del popolo si concentrarono maggiormente su Olimpiade più che su Alessandro e che quest’ultimo fece immediatamente ricercare e punire tutti i complici dell’omicidio.

 

Leggendo l’opera di Plutarco, dunque, si ha chiaramente l’idea di un rapporto complicato e altalenante tra i due grandi condottieri macedoni eppure traspare al tempo stesso la sensazione di una profonda stima e di un grande affetto reciproco oscurato spesso, purtroppo, dall’egocentrico e ambizioso carattere di entrambi.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Plutarco, Vite parallele: Alessandro e Cesare, trad. it. di D. Magnino, Rizzoli (Bur), Milano 1996.



 

 

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