Sulla Festa dei Defunti in Sicilia
Riti e tradizioni
di Mario C. Cavallaro
La celebrazione dei Defunti in
Sicilia, in epoche passate,
rappresentava un evento di grande
significato e profondo
coinvolgimento emotivo. Questa
festività era molto sentita e ben
radicata nelle tradizioni familiari,
andando oltre il semplice
significato religioso e diventando
un momento di intima connessione tra
passato e presente, tra vivi e
morti. Il due novembre fungeva da
ponte metaforico verso l’aldilà,
popolato dai nostri cari scomparsi.
Per il bisogno di mantenere vivi i
ricordi dei familiari nei cuori dei
bambini, il rito dei regali,
lasciati dai parenti defunti ai più
piccoli, assumeva un’importanza
centrale.
Durante la notte magica tra il primo
e il secondo novembre, si faceva
credere ai bambini che i defunti
lasciassero le loro dimore eterne,
trasformandosi in piccole formiche
per passare sotto le porte e portare
dolci, giocattoli, abiti nuovi e
altro ai bambini che si erano
comportati bene o che li avevano
ricordati nelle preghiere. I
bambini, quindi, non percepivano i
loro antenati come figure lugubri,
ma come presenze familiari con cui
interagire durante tutto l’anno.
Ogni bambino aveva i propri “Morti”,
che potevano essere benestanti o
meno, a seconda della classe
sociale, ricevendo doni in base a
questa condizione.
Le classi sociali variavano dagli
aristocratici ai più poveri,
includendo funzionari pubblici,
farmacisti, notai, avvocati, medici,
insegnanti, proprietari terrieri,
industriali, artigiani, domestici,
operai e contadini. Così, accadeva
che il bambino aristocratico
ricevesse doni di grande valore
economico, mentre il figlio del
domestico ricevesse un paio di
scarpe già usate dal figlio del
datore di lavoro, gentilmente
concesse dalla padrona di casa.
Indipendentemente dalla classe
sociale, i bambini venivano ammoniti
durante l’anno: “o fai u bravu, o
i morti non ti pottunu nenti!”
(o fai il bravo, oppure i Morti
non ti porteranno nulla!). La sera
del primo novembre, spettava loro “apparari”
(preparare) un posto in casa dove i
Morti avrebbero potuto lasciare i
doni. Ogni provincia o famiglia
siciliana aveva il proprio rito,
posizionando un vassoio (guantera),
una tovaglia o un semplice foglio di
carta o di giornale. Poi i bambini
andavano a dormire con la
raccomandazione di non svegliarsi
quando i Morti avrebbero portato i
regali; altrimenti avrebbero
solleticato i loro piedi: “dommi
o quannu venunu i Morti t’arraspuni
(oppure: t’azzidicunu) i peri”
(dormi o quando verranno i Morti
stanotte ti gratteranno i piedi).
Per timore di essere colti in
flagrante veglia, si rannicchiavano
i piedi per non farli uscire dalle
coperte e si addormentavano
pregustando i doni che avrebbero
ricevuto al risveglio. I più
grandicelli e smaliziati tentavano
di resistere al sonno per assistere
alle “operazioni” dei Morti, ma
inevitabilmente si addormentavano
stanchi. Al mattino, il primo
pensiero era per i doni, trovati nei
posti “apparati” la sera
precedente. In famiglie più agiate,
i Morti potevano lasciare i doni
ovunque, costringendo i bambini a
cercare in tutta la casa, spronati
dalle mamme a cercare meglio.
Naturalmente, i bambini di famiglie
benestanti trovavano giocattoli,
vestiti e dolciumi, mentre i più
poveri ricevevano al massimo qualche
dolcetto tipico della Festa dei
Morti e qualche formella di mostarda
essiccata.
Ricevevano cavallucci a dondolo,
bambole, vestiti, scarpe e dolci
tipici del periodo, come i dolci di
Martorana a forma di frutta, pupi di
zucchero, ossa di mottu, tetò, rame
di Napoli, ‘nzuddi, formelle di
cotognata o di mostarda, e fichi
secchi.
Nel corso dei decenni, i giocattoli
hanno subito notevoli
trasformazioni: prima della Seconda
Guerra Mondiale, erano
prevalentemente realizzati in legno
o cartapesta e caratterizzati da
movimenti semplici. Con l’arrivo
degli anni Sessanta del XX secolo, i
giocattoli divennero più
sofisticati.
Le bambine ricevevano spesso bambole
che riproducevano sembianze umane in
modo sorprendente; queste bambole
potevano avere movimenti autonomi, a
molla o alimentati da batterie,
rendendole affascinanti e
realistiche. Per i bambini, i regali
più ambiti includevano revolver
giocattolo o fucili Winchester,
ispirati alle armi dei film western
tanto popolari allora; così, le
strade diventavano set
cinematografici improvvisati, con
agguati e sparatorie.
La magia della festa svaniva man
mano che i bambini scoprivano che i
doni non venivano portati dai Morti,
e spesso i genitori rispondevano
scherzosamente: “megghiu, accussi
natr’annu i Morti arrispammiunu!”
(meglio così, l’anno prossimo i
Morti risparmieranno).
Sulla nascita della tradizione
siciliana della festa dei Morti, il
messinese Virgilio Saccà si
interrogò nella Rivista delle
tradizioni popolari di novembre
1894: “Chi fu il primo, qui in
Sicilia, a far risvegliare i poveri
morti delle chiese e dei cimiteri
per farli diventare ladri, e poi
farli accostare ai lettucci dei
bimbi per riempire canestri di dolci
e regali? Mistero. Eppure il fatto
esiste: la festa dei morti è una
festa generale che ascende
dall’aristocratico alla povera
stamberga dell’operaio. È questione
di mezzi, questione di vistosità; ma
il canovaccio della leggenda è
identico per tutti”.
La tradizione dei regali dei Morti è
antica, risalente all’Ottocento.
Matilde Guarnaccia, su Cordelia del
mese di ottobre 1885, racconta come
avesse vissuto la sua ultima festa
dei Morti, dato che una sua
amichetta le aveva “aperto gli
occhi”. Giuseppe Pitrè ci porta
al Settecento; nel suo “Il giorno
dei Morti e le strenne dei
fanciulli”, pubblicato nel 1875,
scrive: “Qui mi sia permesso di
tornare un passo indietro, alla
festa dei morti e delle strenne, per
riferire la descrizione che ne
faceva nel secolo passato il
marchese di Villabianca”.
Oggi la festa dei Morti non esiste
più. Il consumismo e l’esterofilia
impongono l’omologazione alle
tradizioni di altre nazioni,
sostituendo il benevolo nonno
defunto con uno sconosciuto e
terrificante personaggio di
“Halloween” che invade le città e
colpisce chiunque gli capiti a tiro.