[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

165 / SETTEMBRE 2021 (CXCVI)


contemporanea

LA MANCATA NORIMBERGA ITALIANA

I CRIMINI DI GUERRA FASCISTI AI DANNI DELLE POPOLAZIONI BALCANICHE

di Gaia Di Stefano

 

L’opinione pubblica italiana presenta da quasi un secolo la figura utopica del “bravo italiano” pacifico e clemente anche quando veste i panni dell’occupante, uno stereotipo costruito soprattutto durante la colonizzazione italiana in Libia e in Etiopia presentata dalla propaganda politica come un’azione di civilizzazione in favore delle popolazioni non italiane considerate barbare e incivili.

 

Questo luogo comune ha sicuramente un suo fondo di verità se consideriamo ad esempio la protezione offerta dalle truppe italiane verso gli ebrei durante la persecuzione ebraica ma non può rappresentare una realtà univoca che, contrapposta alla figura del “cattivo tedesco” sanguinario e barbaro, serva da alibi per dimenticare i crimini avvenuti per mano italiana.

 

La storiografia italiana ha subito negli anni una politicizzazione profonda che ha reso difficoltoso lo studio oggettivo di questi avvenimenti e che ha comportato l’eliminazione parziale o a volte anche totale di molti eventi dai manuali storici. Inoltre alcuni degli storici che solo recentemente (dopo la riscoperta avvenuta negli anni ‘90 dei fascicoli processuali riguardanti i crimini di guerra fascisti precedentemente scomparsi dall’archivio della Procura generale militare) si sono interessati di riscoprire gli anni bui della nostra nazione spesso lo hanno fatto compiendo un riesame critico degli eventi sulla base delle diverse interpretazioni ideologiche e molte volte senza considerare il contesto più ampio in cui questi eventi vanno inseriti.

 

Infatti, i primi contatti tra la politica fascista e i popoli slavi iniziarono molto prima dell’occupazione della Jugoslavia in quella zona che, da una concezione italianistica, venne definita “confine orientale”. Il lemma confine in questo caso risulta fuorviante in quanto non consisteva in una linea di demarcazione ma in un’intera circoscrizione territoriale in cui per secoli si sono contrapposti o sovrapposti molteplici confini di natura religiosa, etnica, politica e infine anche nazionale, sanciti da numerose guerre.

 

Il Regno d’Italia ancor prima di diventare tale aveva già forti aspirazioni espansionistiche in particolar modo su alcuni territori confinanti con gli antichi stati italiani considerati appartenenti a un’antica realtà latina che, dopo la Prima guerra mondiale, divennero l’obiettivo degli irredentisti.

 

La storia del confine orientale si intrecciò quindi con quella delle potenze che ne hanno fatto parte e delle relative popolazioni che lo hanno abitato, rendendo questa zona ricca di diversità economiche, sociali, culturali, linguistiche. Il fascismo delle origini trovò nel precario equilibrio del confine orientale la zona ideale in cui far valere la sua nuova cultura politica, caratterizzata fin da subito dall’utilizzo della violenza.

 

Strutturandosi in quello che viene definito il “fascismo di confine” impose alle minoranze etniche una serie di provvedimenti liberticidi su base razzista e di superiorità della razza italiana avviando quella che viene ricordata come “italianizzazione forzata”. Vennero eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene e croate che erano state rinnovate dai governi liberali dopo la guerra, vennero sciolte anche tutte le associazioni e i partiti politici, vennero avviati progetti di colonizzazione agricola italiana e, per favorire l’ideologia dello slavo incolto e campagnolo, furono allontanati gli esponenti della borghesia slovena. Inoltre, il fascismo agì anche in ambito linguistico vietando l’utilizzo di qualsiasi lingua diversa da quella italiana, estremizzando la corrente neopurista e macchiandola di una forte componente xenofoba.

 

Il regime arrivò ad attuare una vera e propria spersonalizzazione delle comunità alloglotte quando con la legge n. 898 del 24 maggio del 1926 vennero abiliti i cognomi formulati nelle lingue minoritarie. Il linguista Miro Tasso definì queste azioni un vero e proprio “onomasticidio di Stato”.

 

I provvedimenti non furono accettati passivamente dalle minoranze etniche, nel 1927 si costituì il Fronte clandestino che iniziò a compiere azioni di resistenza armata e l’Organizzazione Tigr.

 

Il dissenso slavo fu violentemente represso dal regime anche attraverso la costituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato che rimase in funzione dal 1926 al 1943. La dura repressione fascista contro la minoranza slava acuì ulteriormente il risentimento contro gli italiani per cui si instaurò l’equivalenza italiano=fascista. Allo stesso tempo però sloveni e croati iniziarono a collaborare con i partiti antifascisti italiani che agivano clandestinamente come il Partito comunista d’Italia o in esilio come il Movimento Giustizia e Libertà.

 

Il rapporto tra gli italiani e le popolazioni balcaniche si fece ancor più teso dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale. In Jugoslavia la situazione era già critica a causa dei conflitti interni dati dalla convivenza di più gruppi etnici nel territorio. Il 25 marzo 1941 avvenne ufficialmente l’ingresso della Jugoslavia nel Tripartito portando un forte malcontento nel mondo politico serbo che, dopo soli due giorni, sfociò in un colpo di Stato per rovesciare il reggente Paolo e il suo governo colpevoli di aver firmato l’adesione. Il principe Paolo fu costretto all’esilio e il potere fu assunto da Petar Karađorđević ormai diciassettenne.

 

Il nuovo governo si dichiarò pronto a rispettare gli accordi internazionali con Roma e Berlino mentre attendeva gli aiuti promessi dalla Gran Bretagna per slegarsi dai progetti delle forze dell’Asse ma per Hitler il colpo di Stato aveva cambiato la situazione politica nei Balcani. Con la Direttiva n. 25 il Führer dichiarò che la Jugoslavia doveva essere trattata come un nemico e quindi distrutta il più rapidamente possibile vista la completa inaffidabilità della classe dirigente; il 6 aprile 1941 iniziò l’Operazione Castigo con l’invasione da parte delle truppe tedesche che, aiutate dalle truppe italiane, in pochissimo tempo occuparono Belgrado.

 

La Jugoslavia venne smembrata e i suoi territori furono spartiti tra i partecipanti all’aggressione. All’Italia vennero attribuite quasi tutta la costa dalmata e la Slovenia meridionale dove venne istituita la provincia di Lubiana. Inoltre, furono creati due stati indipendenti: la Nezavisna Država Hrvaska dei croati ustascia (che erano anche stati sovvenzionati dal governo italiano e istruiti dal fascismo con lo scopo di riuscire a guidare il leader Ante Pavelić verso la costruzione di uno Stato indipendente ma debitore nei confronti dell’Italia e militarmente controllato da quest’ultima) e il Montenegro sotto il protettorato dell’Italia.

 

Il Montenegro inizialmente doveva essere annesso all’Albania per formare così la Grande Albania, successivamente all’irrigidirsi dei rapporti con il governo italiano fu dichiarato uno Stato “indipendente e sovrano” ma il potere fu affidato a un reggente nominato da Vittorio Emanuele III che vantava una certa parentela con questo territorio in quanto aveva sposato Elena, figlia dell’ultimo sovrano del Montenegro.

 

Questa situazione di finta autonomia portò a un’insurrezione della popolazione montenegrina sotto la guida di alcuni ufficiali nazionalisti del disciolto esercito jugoslavo e di esponenti del Partito Comunista Jugoslavo originari del Montenegro che in pochi giorni riuscirono a imporre il loro controllo sulle campagne. Il Comando Supremo del Regio Esercito Italiano reagì inviando sei divisioni comandate dal generale Alessandro Pirzio Biroli.

 

L’atteggiamento del generale Biroli fu molto violento, le attività svolte nella regione venivano relazionate ai comandi superiori tramite rapporti scritti da cui possiamo venire a conoscenza delle rappresaglie (ad esempio quella nel villaggio di Pljevlja in cui furono fucilati sul posto 74 civili), delle fucilazioni da cui non venivano risparmiate né donne né bambini, dei bombardamenti di cittadine e interi villaggi e degli incendi delle abitazioni. Lo stesso generale nel gennaio del 1942 ordinò che per ogni soldato ucciso venissero fucilati 50 ostaggi, imitando quella che era la pratica tedesca e affermando che «la favola del buon italiano» doveva cessare di esistere.

 

L’atteggiamento di Biroli seguiva le orme del fascismo nato sul confine orientale e impregnato di una forte componente razzista, infatti, in un opuscolo che fu distribuito alle truppe affermava: «Odiate questo popolo. Esso è quel medesimo popolo contro il quale abbiamo combattuto per secoli sulle sponde dell’Adriatico. Ammazzate, fucilate, incendiate e distruggete questo popolo» e ancora «mostrate a quei barbari che l’Italia, maestra e madre della civiltà, sa anche punire secondo le leggi incorruttibili della giustizia».

 

Alessandro Pirzo Biroli prima di sostituire Serafino Mazzolini come Alto commissario in Montenegro fu Governatore della regione di Gondar durante l’occupazione etiopica e anche in questa circostanza agì con violenza ed efferatezza, viene ricordato come colui che diede l’ordine di legare un masso al collo dei capi tribù prima di farli precipitare nel lago Tana. Nonostante la storia criminale di quest’uomo e nonostante venne inserito nella lista dei soggetti più ricercati sia dalla UNWCC (Commissione delle Nazioni Unite sui crimini commessi durante la Seconda guerra mondiale) sia dal CROWCASS (Registro Centrale per i Criminali di Guerra) non fu mai processato e morì il 20 maggio del 1962 come cittadino libero.

 

Nel territorio occupato si svilupparono due principali movimenti di resistenza ovvero l’Armata nazionale jugoslava guidata dal colonnello Dragoljub Mihailović formata da monarchici serbi che speravano nel ritorno del re in esilio e il movimento dei partigiani comunisti diretto da Josip Broz denominato “Esercito popolare di liberazione nazionale”.

 

La contrapposizione di queste due forze e dei loro relativi progetti politici per la futura Jugoslavia si rese più evidente quando, nel 1942, i cetnici adottarono una politica di collaborazione con le truppe italiane di cui si fece portavoce Mario Roatta, comandante della II Armata nei Balcani dal gennaio del 1942. Roatta credeva di poter utilizzare le mire monarchiche dei cetnici in funzione anticomunista perciò una parte di questi fu inquadrata nelle MVAC (Milizie volontarie anticomuniste) che sottostavano alle direttive italiane e avevano il compito di combattere i partigiani di Broz, più comunemente conosciuto come Tito (era in uso l’utilizzo di nomi diversi tra i membri dell’allora illegale partito comunista così che in caso di arresto non fosse identificabile la famiglia dell’arrestato).

 

Di questa nuova collaborazione Tito informò il governo britannico e, da questo momento, Mihailović e la sua Armata smisero di ricevere supporto dagli inglesi che decisero invece di appoggiare in funzione antifascista le forze partigiane comuniste che nel frattempo stavano raccogliendo sempre più adesioni. Il coinvolgimento della popolazione nell’attività titina avvenne sia attraverso una propaganda allettante che prometteva una riforma sociale sia con l’utilizzo della violenza mediante rappresaglie motivate da ragioni etniche o accuse di favoreggiamento verso gli occupanti. Al movimento partigiano, controllato direttamente dal Comitato centrale del Partito comunista jugoslavo va riconosciuta, diversamente dalle altre forze di resistenza, una vera e propria organizzazione che rispettava anche una struttura gerarchica.

 

Alla guerriglia presente nel territorio le forze dell’Asse risposero sia con violente azioni di repressione diretta sia con vere e proprie operazioni militari che coinvolsero quasi interamente la popolazione civile e le cui modalità vennero illustrate nella nota circolare 3C firmata dal generale Roatta.

 

A titolo esemplificativo possiamo descrivere la situazione di Lubiana che ricordava fortemente l'italianizzazione forzata avvenuta nella Venezia Giulia; l’Alto commissariato Emilio Grazioli, federale fascista di Trieste e consigliere nazionale del Partito nazional fascista firmò i “Provvedimenti per la sicurezza dell’ordine pubblico” che prescrivevano la pena di morte o la fucilazione immediata per gli atti di sabotaggio, la detenzione di armi, il passaggio clandestino della frontiera e persino per la propaganda sovversiva. Per poter applicare questi provvedimenti fu costituito un Tribunale Speciale che già l’8 ottobre condannò tre sloveni alla pena di morte. Nel mese di novembre Mussolini con un nuovo bando fece istituire il Tribunale militare di guerra della II Armata che rimase attivo fino all’8 settembre del 1943.

 

Inoltre, Grazioli mise in pratica un programma di fascistizzazione della nuova provincia creando una serie di istituzioni tipiche del fascismo come l’ordinamento corporativo, la federazione dei fasci di combattimento e la Gil (Gioventù Italiana del Littorio). La stessa provincia di Lubiana diventò un esteso campo di concentramento all’aperto con la collocazione tutt’attorno di alti reticolati per permettere un’efficacia maggiore nell’opera di rastrellamento e di perquisizione della città impedendo che chiunque potesse entrarvi o uscirne. Questa operazione fu condotta dall’ XI Corpo d’Armata, in particolare dalla Divisione Granatieri di Sardegna comandata dal generale Taddeo Orlando, nella notte tra il 22 e il 23 febbraio del 1942.

 

Il generale Mario Robotti famoso per la frase «si ammazza troppo poco», riferita alla condotta repressiva nei territori occupati, scrisse nella “Relazione sulle operazioni di disarmo della popolazione di Lubiana” il manifesto della sua filosofia in cui ribadiva il bisogno del «polso duro» nei confronti dei popoli slavi; da queste affermazioni si denota che anche le azioni in Jugoslavia non erano il frutto soltanto di un’ideologia criminale ma anche di un’ analisi errata della realtà che considerava ancora i non italiani come barbari da educare e civilizzare.

 

Con l’aumento degli uomini arrestati sorse il problema della loro sistemazione che venne “risolto” con l’istituzione di veri e propri campi di concentramento. Il primo campo nacque a Cighino a cui seguì quello di Tribussa inferiore ma la loro posizione allarmava le autorità in quanto non li rendeva facilmente controllabili a causa della vicinanza a territori abitati da sloveni e croati che poteva permettere agli internati di ricevere solidarietà tra la popolazione locale. Per questo motivo furono utilizzati il campo di Gonars, posto a sud di Udine che era stato costruito per accogliere i prigionieri di guerra ma che non fu mai utilizzato a questo scopo e l’enorme tendopoli di Arbe istituita nella piana di Kampor sull’isola di Rab (annessa all’Italia già nel maggio del 1941 quando gli accordi fra Mussolini e Pavelić delinearono i nuovi confini tra l’Italia e la Croazia).

 

Il campo di Arbe fu allestito in tempi record e quando all’inizio del mese di luglio del ‘42 arrivarono i primi uomini vi era solamente il filo spinato per circoscrivere il luogo. Dovettero infatti montare loro stessi le tende e provvedere a scavare delle buche e a riparlarle con del fogliame per utilizzarle come latrine. Anche l’alimentazione avveniva in condizioni igieniche precarie, il cibo veniva infatti cucinato all’aperto in bidoni di benzina tagliati a metà e razionato secondo delle tabelle prestabilite e l’insufficiente rifornimento di acqua veniva fatto attraverso delle autocisterne.

 

Le tabelle alimentari preparate dal Ministero dell’Agricoltura e Foreste distinguevano gli internati in repressivi e protettivi, lavoratori e non lavoratori e nella distribuzione dei pasti le testimonianze indicano un ordine ben preciso che può essere definitivo del “fisso decrescente”: i primi a ottenere il cibo erano i capi baracca e a questi seguivano, in ordine di importanza, tutti gli altri fino ad arrivare ai bambini.

 

I primi a risentire delle conseguenze di questo stato di cose furono proprio i bambini e Alfredo Rocca, generale incaricato da Roatta di allestire il campo di Arbe, per giustificare l’alta mortalità infantile nel 1945 affermò: «le madri croate, toglievano il cibo ai loro bambini per darlo ai mariti o ai figli adulti [...] le madri occultavano in ogni modo i loro bambini ammalati per cui, non venendo curati decedevano e, inoltre cercavano di occultarli anche dopo che erano morti». Queste dichiarazioni mendaci venivano spesso utilizzate dai generali per discolparsi dei loro crimini che non risparmiarono nemmeno i più piccoli.

 

Nei lager le condizioni di vita erano quindi ai limiti della sopravvivenza a causa delle condizioni igienico-sanitarie precarie, della sistemazione fatiscente che non permetteva una corretta protezione dagli agenti atmosferici e in particolar modo dell’insufficienza nutrizionale che favoreggiava la depauperazione degli organismi e di conseguenza la propagazione di malattie e lo svilupparsi di vere e proprie epidemie. Il principio che vigeva nei campi era quello espresso dal generale Gastone Gambara secondo il quale un campo di concentramento non doveva essere un campo di ingrassamento in quanto un individuo malato equivaleva a un individuo tranquillo.

 

Il quadro che si delineò per gli abitanti delle province di Lubiana, Spalato e Cattaro fu ancora più inquietante in quanto questi diventarono italiani per annessione e questo comportò delle implicazioni molto pesanti sulle condizioni di vita nei campi di concentramento. Con questa denominazione il governo italiano riuscì a evitare l’interferenza delle organizzazioni umanitarie internazionali facendone una questione di competenza esclusivamente italiana, quello che più tardi, dopo l’armistizio, accadrà anche ai soldati italiani chiamati “Internati Militari Italiani” da Hitler proprio per non riconoscere loro le garanzie delle Convenzioni di Ginevra.

 

I campi di concentramento fascisti continuarono a funzionare anche dopo che Benito Mussolini venne esautorato dal Gran Consiglio del fascismo e deposto dal re Vittorio Emanuele III fino all’8 settembre del 1943 quando l’annuncio dell’armistizio fede pendere sull’Italia la spada di Damocle rappresentata dalla reazione tedesca e, nel completo caos, il contingente di guardia fuggì e gli internati furono liberi di lasciare quei posti che fino a quel momento avevano rappresentato un “orrendo golgota”.

 

La storia dei campi fascisti divenne uno dei più emblematici vuoti di memoria del dopoguerra italiano. Persino i siti che ospitarono i lager sono stati dimenticati e per la loro struttura spesso fatiscente (inesistente nel caso delle tendopoli) sono stati facilmente dismessi.

 

In Grecia a differenza della Jugoslavia la resistenza tardò a organizzarsi. Le manifestazioni iniziate nell’estate del 1941 erano dovute alle conseguenze indirette dell’occupazione come la situazione alimentare e non erano legate a motivazioni politiche. Nonostante in un primo momento le autorità italiane si adoperarono per migliorare la crisi greca attraverso l’introduzione di un’assistenza sociale e di metodologie moderne in campo agricolo la condizione della popolazione ellenica continuò ad aggravarsi e questo fece nascere i primi movimenti di opposizione politica.

 

Il 27 settembre del 1941 si formò il Fronte di liberazione nazionale (Eam) da cui si formarono le bande partigiane che a loro volta diedero vita all’Esercito popolare greco di liberazione (Elas) di orientamento comunista guidato dal colonnello Stefanos Sarafis. I partigiani greci (andartes) uccidevano chiunque fosse sospettato di collaborare con gli occupanti o di avere rapporti con loro, le truppe italiane utilizzarono le stesse modalità sopradescritte in risposta ad azioni partigiane o a semplici sospetti e atti di sabotaggio dell’occupazione. Anche in questa circostanza a pagare un prezzo alto fu la popolazione civile.

 

A questo proposito possiamo citare uno degli episodi di repressione più cruenti, quello che si verificò nel villaggio di Domenikon in Tessaglia (Grecia interna) nel febbraio del ’43 quando alcuni partigiani greci attaccarono un convoglio italiano provocando la morte di 8 camicie nere. Per vendicare la morte di questi militari il comandante della divisione Pinerolo, Cesare Benelli, diede l’ordine di bombardare il paese, rastrellarlo e di scegliere 145 uomini di età mista per fucilarli (16 greci per ogni italiano ucciso).

 

Quello che sorge spontaneo chiedersi alla luce di questi eventi che rappresentano solo alcuni esempi dell’importante repressione attuata dalle truppe del Regio esercito italiano stanziate nei Balcani è perché questa “guerra sporca” di Mussolini (così viene recentemente definita dalla storiografia) non è ampiamente conosciuta da tutta l’opinione pubblica italiana. A questa domanda possiamo dare più risposte.

 

Nei governi che si succedettero dalla fine della guerra all’instaurazione della Repubblica (2 giugno del 1946) una problematica di difficile risoluzione fu la richiesta da parte della Jugoslavia dei criminali di guerra (sancita dall’art. n. 29 dell’armistizio) e la possibilità di compiere un’epurazione dei fascisti che ancora mantenevano le loro cariche. Le due questioni si incrociarono spesso, basta infatti ricordare che il Ministero della Guerra e quello degli Affari Esteri a cui fu affidato il compito di eludere l’art. 29 erano presenziati proprio da coloro che avevano fatto carriera durante il fascismo e che spesso erano stati i protagonisti stessi dei crimini denunciati come il sopracitato Taddeo Orlando che, durante i primi due governi Badoglio, ricoprì il ruolo di Sottosegretario di Stato al Ministero della Guerra.

 

Nonostante la volontà di prendere le distanze dal fascismo non fu mai possibile una vera e propria epurazione dei fascisti soprattutto perché le iscrizioni al Partito Nazionale Fascista furono di fatto obbligatorie per molte professioni e questo rese praticamente impossibile tracciare un confine certo tra adesioni militanti e “tessere del pane” come venivano chiamate.

 

La Jugoslavia istituì una Commissione centrale di Stato per l’accertamento dei crimini di guerra dell’occupante e dei suoi collaboratori e accusò le truppe italiane dei crimini compiuti attraverso vari mezzi tra i quali la radio e la stampa ma il governo italiano decise di avvalersi della possibilità di processare i criminali di guerra in Italia.

 

Alcide De Gasperi il 9 aprile del 1946 annunciò l’istituzione di una Commissione d’inchiesta prevista per il 6 maggio dello stesso anno con lo scopo di poter accertare le responsabilità individuali degli accusati. In realtà la Commissione cercò di dimostrare i crimini degli jugoslavi verso gli italiani e la necessità di alcuni crimini commessi dalle truppe italiane giustificandoli in virtù della situazione di guerra civile presente nel territorio. I criminali non furono mai processati e si formulò così quella che viene ricordata come la “mancata Norimberga italiana”.

 

Un’ulteriore accelerazione del processo di rimozione dei crimini fu data da “L’amnistia Togliatti” che, approvata dal governo e promulgata con decreto presidenziale il 22 giugno del ’46, portò alla cancellazione di tutti i reati commessi fino al 18 giugno di quell’anno. Con questo provvedimento migliaia di ex membri del partito fascista e i loro collaboratori furono liberati dalle carceri o furono esonerati dai loro processi.

 

Nonostante la legge prevedesse l’esclusione dal provvedimento di coloro che avessero compiuto crimini particolarmente efferati fu scritta in modo tale da permettere moltissime eccezioni. Negli anni successivi Togliatti si discolpò da queste concessioni dichiarando che furono i magistrati ad aver applicato l’amnistia in modo troppo permissivo e in parte aveva ragione: numerosi magistrati nella Suprema corte di cassazione avevano fatto parte pochi anni prima del Tribunale per la difesa della razza.

 

Non va dimenticato l’apporto dato alla vicenda dai crimini avvenuti per mano jugoslava nei confronti degli italiani di confine. Nel 1943 con la prima ondata di violenze e successivamente nel 1945 con la seconda lo scenario tragico dato dal fenomeno delle foibe si spostò nuovamente sul confine orientale, ancora una volta oggetto della discordia.

 

La storiografia ha spesso considerato le foibe come una “vendetta” per i crimini fascisti, una vera e propria “resa dei conti” che vide i tribunali istituiti sul territorio giuliano emettere centinaia di condanne a morte. I criteri utilizzati erano vari e a volte anche confusi: vennero considerati collaboratori del regime fascista tutti coloro che avevano avuto un ruolo di responsabilità non solo nel partito e nell’esercito ma anche nell’amministrazione pubblica comprendendo così anche postini e insegnanti; spesso vittime degli arresti furono anche cittadini in vista nei paesi italiani.

 

La maggioranza dei condannati fu gettata nelle foibe, inghiottitoi carsici tipici del territorio giuliano, o nelle miniere di bauxite anche se lo strumento quantitativamente più rilevante della repressione comunista fu l’istituzione di campi di concentramento, una storia che si ripete ancora solo cambiandone i protagonisti. Infoibare non fu solo un gesto pragmatico ma anche simbolico in quanto le vittime venivano paragonate ai rifiuti che per secoli gli istriani avevano gettato all’interno di queste cavità. Se gli avvenimenti del 1943 furono caratterizzati da un clima alienante e caotico soprattutto nel territorio istriano, quelli del 1945 seppur simili nelle modalità seguirono un progetto molto più chiaro.

 

Nella primavera del 1945 la IV Armata jugoslava costituita il 1° marzo in Croazia e guidata dal generale Petar Drapšin e l’VIII Armata britannica formata nel 1941 e comandata dal generale Harold Alexander iniziarono l’avanzata che viene storicamente ricordata come la “corsa per Trieste”, “vinta” dai primi.

 

Nel corso dei cosiddetti “quaranta giorni” di amministrazione jugoslava le nuove autorità e in particolar modo l’OZNA, la polizia militare jugoslava, operarono una serie di fermi, perquisizioni delle case, sequestri di beni, interrogatori che spesso si concludevano con degli arresti o in molti casi con scomparse.

 

Il clima alienante di questo periodo viene raccontato in numerose testimonianze dei sopravvissuti; per chi visse le sparizioni dei propri cari o di cittadini comuni non era chiaro cosa stesse accadendo, lo sarà a guerra finita dopo il lavoro compiuto dalla storiografia per rintracciare i percorsi di quanto accadde nella Venezia Giulia in quel maggio del ’45 riconducendoli allo sviluppo di un percorso politico mirato.

 

Le autorità che operarono nel ’45 non rappresentavano più forze partigiane locali più o meno organizzate ma uno Stato comunista in via di consolidamento che voleva di fatto eliminare qualsiasi tipo di ostacolo o pericolo politico. La Jugoslavia era divenuta ormai uno Stato vero e proprio con un suo esercito riconosciuto come forza belligerante antifascista che contava circa 500.000 soldati e un governo monopolizzato dal Partito comunista di Tito insediato già da tempo a Belgrado. La pulizia etnica condotta da Tito infatti non era rivolta solamente ai fascisti o agli italiani (ad esempio importante fu quella nei confronti dei domobranci ovvero gli appartenenti allo Slovensko domobranstvo costituitosi in Slovenia nel 1943 per contrastare l’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia).

 

Anche sui crimini dei partigiani titini è calato un “silenzio di Stato” soprattutto dopo che, nel 1951, venne accolta la validità della “reciprocità” per i crimini commessi in altri paesi prevista dal codice penale militare di guerra italiano. Questa clausola disponeva che la risoluzione della questione dei criminali italiani sarebbe potuta avvenire solamente se anche la Jugoslavia avesse giudicato i responsabili degli eccidi delle foibe. Si chiuse per anni il sipario su tutte le drammatiche vicende accadute nei Balcani e sul confine orientale.

 

Nonostante la vicenda sia altamente intricata nel 1993 c’è stato un primo tentativo di creare una memoria storica condivisa attraverso l’istituzione di una Commissione mista storico-culturale italo- slovena.

 

I quattordici membri di questa Commissione lavorarono fino al 27 giugno del 2000 alla stesura di un testo sulle relazioni tra l’Italia e la Jugoslavia. Il rapporto finale ebbe tuttavia scarsa diffusione in Italia. Eppure, quei sette anni di collaborazione intensa hanno portato risultati molto positivi soprattutto per il metodo utilizzato. Il dialogo e il reciproco accesso facilitato agli archivi, anche secondo Raul Pupo, hanno permesso la nascita di un’abitudine al confronto e alla collaborazione assolutamente impensabile fino a pochi anni prima che può̀ costituire la base anche per l’individuazione di nuove piste d’indagine.


Oltre all’istituzione della Commissione per uno studio approfondito delle vicende un ulteriore passo avanti compiuto dal governo italiano è rappresentato dall’istituzione del Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo-giuliano dalmata e delle vicende del confine orientale. La Legge n. 92 del 30 marzo 2004 che ha istituito il Giorno del ricordo celebrato il 10 febbraio (ricordando quindi la firma del trattato di pace che provocò l’esodo giuliano-dalmata) può̀ rappresentare la base per indagare e conoscere non solo le foibe ma tutta la concatenazione storica degli eventi che si sono succeduti almeno dall’inizio degli anni Venti sul confine orientale.

 

Non è possibile riscrivere la storia e la tragedia delle foibe e dell’esodo non può̀ essere giustificata ma anzi va condannata, ma bisogna compiere una corretta informazione storica raccontando tutto quanto è accaduto anche quando la storia è scomoda, non tralasciando deliberatamente le responsabilità̀ del nostro Paese. Non esistono stragi giuste e stragi sbagliate, l’uccisione di civili inermi o di dissidenti politici non può e non deve mai essere in alcun modo giustificata.

 

Negli ultimi anni in Europa si sta diffondendo l’idea di basare l’insegnamento della storia su testi scolastici redatti da storici di diverse nazionalità̀, l’esempio più̀ famoso è il manuale di storia franco-tedesco per le scuole superiori proposto da Schröder e Chirac nel 2006. Sarebbe auspicabile la stesura di un manuale italo-sloveno in grado di far chiarezza sulle due storiografie che si sono più̀ volte incrociate.

 

Conoscere e ricordare la storia della nostra nazione e gli errori commessi è fondamentale, Primo Levi in una famosa intervista degli anni Settanta alla domanda: «Lei pensa che siano di nuovo possibili queste atrocità̀?» rispose: «Oggi come oggi certamente no ma dove un fascismo, un nuovo verbo come quello che amano i nuovi fascisti in Italia che propone una filosofia basata sul ‘non siamo tutti uguali’, ‘non abbiamo tutti gli stessi diritti’ o ‘alcuni hanno diritti e altri no’, dove questo verbo attecchisce, alla fine c’è il lager. Questo io lo so con precisione».

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Aga Rossi Elena, Giusti Maria Teresa, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Il Mulino, Bologna 2017.

Cattaruzza Marina, L’Italia e il confine orientale, Il Mulino, Milano 2020.

Di Sante Costantino, Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Ombre Corte, Verona 2004.

Giannini Giorgio, La tragedia del confine orientale. L’italianizzazione degli Slavi, le foibe, l’esodo giuliano-dalmata, LuoghInteriori, Città di Castello 2019.

Gobetti Eric, E allora le foibe?, Laterza, Bari-Roma 2021.

Pištan Čarna, Dalla balcanizzazione alla jugonostalgija: dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia in “Istituzioni del federalismo: rivista di studi giuridici e politici”, n. 4, Maggioli Editore, Milano 2014.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]