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N. 12 - Dicembre 2008 (XLIII)

LA FABBRICA DEL CONSENSO
omologazione culturale

di Cristiano Zepponi

 

è da tempo, ormai, che l’Italia (più nolenti che volenti, il nostro Paese) trionfa puntualmente nelle sole categorie che ci sia capitato in sorte di dominare, e che sono tutte – o quasi – indicatrici della rapidità del declino che ci strangola.
Innanzitutto, la cultura. Un solo dato: il numero di lettori in Italia, rilasciato alla Buchmesse di Francoforte da Federico Motta, presidente dell'Associazione Italiana Editori; nel 2007, ha sostenuto, ci sono stati 24 milioni di italiani (intorno al 43% della popolazione) che hanno letto almeno un libro in un anno.
Naturalmente, “quel” libro è imprecisato. Aggiungiamo che a naso ci sembra più realista aspettarci un corollario: la diffusione del testo è oggi inversamente proporzionale alla sua accessibilità e complessità. Il resto va da sé.

Qualunque sia, un libro c’è, le pupille hanno disceso le righe fino a fondo pagina, i polpastrelli hanno accompagnato via le righe vecchie per far posto a quelle nuove. Ma ora bisogna introdurre un indice generico per valutare l’entità del declino nel settore.
Questo, è un declino che non solo ci impone un dato allarmante (di sensibile gravità) ma addirittura ci costringe a pensare che, almeno, un libro l’hanno letto. E’ in questo preciso istante che l’allarme si smorza.
Naturalmente, ne consegue che il 57% è rimasto digiuno (livello di crisi immane), e si è limitato al giornale, alla posta ed alla guida tv. Non ha letto nulla: e questo non è un dato allarmante. E’ una sconfitta.

Last but not least, quelli che hanno letto almeno un libro al mese (ma l’avranno finito?) sono solo 3,2 milioni. Un italiano ogni diciotto, meno di cinque su cento: declino catastrofico.
Come si vede qui la crisi va avanti da anni, silente e discreta.

Non che per me sia un problema, si badi bene. E’ solo che ritengo che un popolo che continua a scegliere (e tutti noi la scegliamo ogni giorno) la forma repubblicana occidentale abbia il dovere di arricchirsi culturalmente, di dotarsi dei migliori strumenti di valutazione possibili per perseguire il bene della comunità tutta, che dal suo voto sarà influenzata. Il voto è uno strumento inutile, se non trascende il particolare.
Il nostro sistema politico, di fronte al quale sussistono alcune inevitabili perplessità, apparirebbe svuotato di senso critico o assuefatto ad opinioni incancrenite. Le differenze partitiche si appannerebbero, a quel punto, fino a privare di significato la parola stessa, e celebreremmo rassegnati il successo del Partito Contenitore (PC) e del Partito In Plastica (PIP), due modelli da esportare tra le sabbie irachene, dov’è noto che di storia non sanno nulla.

Per adesso, il PD non si sa neanche da che parte stia, non si sa neanche come presentarlo; in televisione, quando si pronuncia la parola centro-sinistra, il tono si fa flebile ed incerto, e soprattutto basso, molto basso. Per non svegliare i morti, suppongo.

Il PDL, al contrario, ha capito almeno che da una parte conviene cavalcare l’onda della paura collettiva, dei sentimenti forti, dell’irrazionalità più primordiale. Dall’altra, ha elaborato un modello televisivo vincente, accessibile, che piange ogni tanto per bagnarsi gli occhi e si convincersi d’esser ‘vero’, celebra rituali pagani impomatati di cattolicesimo ed omelìe di violenze represse, s’intenerisce per l’orsetto ma si eccita col manganello.

La fuga di cervelli, le paurose condizioni di lavoro di ricercatori, precari e giovani in genere escludono dal dibattito politico-culturale una larga fetta della popolazione – per quanto la si possa disprezzare – più attiva, preparata e determinata; e questo lo sappiamo per certo, dato che non ha cercato scappatoie o vie di fuga, ma segue un sentiero diroccato.

In questo modo il ricambio generazionale è bloccato ad ogni livello, anche in settori distinti, e questo favorisce la sopravvivenza di compromessi antichi, di proiezioni stantìe e di opinioni in serie.

Forse, gl’italiani hanno percepito da una ventina d’anni che il vento stava cambiando, che il vento del declino soffiava nella nostra direzione, e necessitavano di un intrattenimento collettivo. Forse si erano stancati della lotta politica, dei veleni e delle accuse, e volevano semplicemente andare d’accordo. Ma tant’è, hanno dovuto registrare l’omologazione culturale più rapida degli ultimi secoli: i dibattiti svuotati di senso, la scomparsa d’ideologie ‘antisistema’ (il marxismo sarà anche stato superato, ma resta l’unica critica sensata al nostro modello economico), l’inarrestabile convergenza verso posizioni condivise, dogmi irrinunciabili e perpetui, la cui accettazione discrimina gli “uomini da bene” dai rivoluzionari esaltati, dai terroristi della memoria e da tutta quella parte d’umanità che non merita di calcare le scene pubbliche.

Chi mai criticherebbe, oggi, il sistema di produzione capitalista, la politica della Nato, il diritto d’intervento del pontefice sull’agenda politica, la superiorità del modello democratico? Qualche eretico colorito, magari, trattato come un pittoresco esemplare d’una specie ormai estinta.
Le opinioni, ormai, differiscono solo nei particolari, solo nei modi: non più nella sostanza. Il dubbio, senza il quale la conoscenza non avrebbe motivo d’esistere, è stato estirpato dalle nostre menti, e sostituito col silenzio. Tutti o quasi i protagonisti della scena, convinti di secondare “il corso della storia” (di comunista origine), lo Zeitgeist (spirito del tempo), o comunque lo si voglia chiamare, sembrano sicuri di aver puntato sul cavallo vincente.

La cosa interessante, a parer mio, è proprio che lo stesso processo si sia verificato nell’eterno ‘competitor’ dell’apparato statale , specialmente in Italia: la Chiesa.
Alfredo Carlo Moro, giurista e fratello di Aldo, ne ha parlato in un recente intervento: “Assistiamo ormai a una carenza gravissima di discussione nella Chiesa, a un impressionante e clamoroso silenzio; delle riunioni della Cei si sa solo ciò che dichiara in principio il presidente; i teologi parlano solo quando son perfettamente in linea, altrimenti tacciono”.

Come sempre, i problemi sono cominciati all’apice del trionfo, quando sullo sfondo si intuiscono gli scricchiolii delle fondamenta. Vent’anni fa, la situazione culturale della Chiesa era florida, anzi floridissima: in America Latina spopolavano i “deviazionisti” (Gustavo Gutiérrez, Helder Camara e Leonardo Boff), i teologi della liberazione che mettevano in dubbio la dottrina sociale, rifiutando la rassegnazione all’esistente ed accostandosi pericolosamente al nemico marxista; in Europa si potevano scovare gli “ultrà” conservatori di monsignor Lefebvre, e poi “Comunione e Liberazione”, l’antimafia, con le omelie del cardinale Pappalardo, di don Puglisi a Brancaccio, di don Italo Calabrò a Reggio Calabria, l’anticomunismo dei vertici, espresso dal dissanguamento per Solidarność, e tanto altro. Spunti polemici, per una discussione feconda.

Il problema di quella Chiesa erano i soldi, ed in questo la “reggenza Ruini” ha avuto indubbiamente successo: solo ch’è diventato l’unico, di problema.
“La Chiesa sta diventando per molti l’ostacolo principale alla fede. Non riescono più a vedere in essa altro che l’ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini che, con la loro pretesa di amministrare il cristianesimo ufficiale, sembrano per lo più ostacolare il vero spirito del cristianesimo”, spiegò trent’anni fa un teologo progressista di nome Joseph Ratzinger.

Invece silenzio assoluto, nessuna polemica; solo, qualche raro anatema lanciato da vescovi emeriti, anziani e prossimi alla pensione, che non temono più nulla. Un elemento comune con lo stato è dunque la paura, che prende forme diverse restando sempre fedele a sé stessa (“quale vescovo per esempio – sapendo che poi dovrà ricorrere alla Cei per i soldi necessari a sistemare un seminario o a riparare la cattedrale – alzerà mai la mano in assemblea generale per contestare le posizioni della presidenza?”, si chiedeva Roberto Beretta, collaboratore di “Avvenire”, non del “Manifesto”; e aggiungiamo, chi deciderebbe di rischiare la carriera?). Il Concilio Vaticano II è bollato come troppo “aperturista”, troppo di sinistra: una macchia che va lavata; l’evoluzionismo è rifiutato in blocco; le aperture solidaristiche di Giovanni XXIII e Paolo VI censurate sottovoce.

“La critica alla religione è la premessa di ogni critica”, diceva Marx, che ha avuto la sfortuna di essere letto come un profeta prima, e come un illuso dopo. Celso e Porfirio, gli illuministi francesi ed inglesi, Reimarus, Feuerbach, Marx, Nietzsche, Overbeck, Freud, Marcuse hanno gettato le basi del genere, ma oggi nessuno sembra svilupparle, mentre le gerarchie si trincerano in un muro di no mai sotto accusa: coppie di fatto (mai), procreazione assistita (abolita), eutanasia (ma non scherziamo), testamento biologico (magari un giorno), aborto (moratoria perpetua, riforma della legislazione), Corano nelle scuole (niet; anzi, dateci le radici cristiane nella Costituzione Europea).

Peraltro, senza aggiungere un altro particolare: come fatto notare dal costituzionalista Sergio Lariccia, “un sistema o è laico, o non è democratico”. Quando si parla delle forme di governo, anche questo va considerato: forse, una buona parte della responsabilità per quest’omogeneizzazione dei contenuti, va ricercata proprio qui.

Stato e Chiesa, ognuno per proprio conto, hanno modificato profondamente il ruolo dell’opinione pubblica, risucchiandola in perpetui dibattiti bio-etici, confondendola a forza di smentite e contro smentite, obbligandola ad un modello comunicativo elementare di facile accesso.

Un esempio: tralasciando il discorso sul peggioramento della nostra classe politica, ricordiamo solo che l’Italia è un paese costretto da anni ad assistere alle banalizzazioni politiche di Bonaiuti, di professione portavoce, uno che comincia ogni discorso con ‘La sinistra’ e lo finisce con ‘tasse’, ed in mezzo si cimenta in un saggio di comunicazione ispirato alle vette del moccismo, adoperando un vocabolario di non più di trenta-quaranta termini (stracolmo di schematizzazioni immediate, noi/loro, bene/male, o di accorate preposizioni esortative, ‘che se ne vadano a casa’ etc.): e riesce a farsele bastare anche se deve spiegare lo sbarramento alla Camera, o il complicatissimo premio di maggioranza. Ma d’altronde, non era Berlusconi a consigliare ai suoi dirigenti Publitalia di tener conto che i loro clienti avevano a malapena la licenza media, e non erano neanche i primi della classe? (sì, è tutto vero).

Il consenso, in primis, si crea così. Abbassando il livello culturale della comunicazione e della preparazione, illudendo che si possa arrivare senza impegno, senza profusione d’energie, quasi per forza d’inerzia: e si capisce quanto sia appetibile uno slogan del genere in un Paese che vive tragicamente il suo ventennale declino, e si trova alle prese con la crisi economica più preoccupante degli ultimi decenni.
Si crea trattando la politica come un fastidio secondario, e spostando l’accento sul personaggio – come ai primi del secolo, quando si votava il ‘notabile’ locale, e provvedeva lui al pane; si crea mettendo in soffitta ogni forma di riflessione su aspetti cruciali della società, introducendo parole d’ordine efficienti e paurose (‘tolleranza zero’), inchiodandosi su posizioni partitiche e standardizzate, per lo più condivise da tutto l’arco costituzionale.

La disciplina dei deputati del PDL, ad esempio, è encomiabile quanto quella dei vescovi (che sorpresa): nessuna discussione, nessuna polemica, si esegue punto e basta. Magari un pizzico inquietante, per qualcuno, ma riesce a trasmettere un’idea d’efficienza, una sensazione positiva insomma: e quindi funziona.
Inutile dire che fabbricare consenso è un po’ più semplice se si possiedono tre reti televisive; si potrà ribattere che probabilmente lo farebbero anche le opposizioni, se le avessero, e forse è vero: ma non ce l’hanno.

Ilvo Diamanti, tempo fa, ha riflettuto in un suo articolo sulla correlazione tra il crescente consenso che viene accreditato al governo Berlusconi e la delusione per l’andamento della vita degl’italiani. Il consenso sembra ormai slegato dal contesto, annacquato dall’assoluta mancanza di contenuti, costretto a valutare parametri nuovi, a districarsi nella giungla dell’informazione truffaldina etc.

Negli USA, che tutti ci affrettiamo a decantare come casa della democrazia, capita ad esempio che la Clinton, candidata alle primarie, perda punti pesanti perché in una foto è stata ‘beccata’ senza trucco, e quindi brutta, in effetti. Non perché abbia confuso (che so) Washington e Roosevelt, o perché abbia proposto la demolizione del Pentagono: perché ha le rughe.

Si vede allora come il consenso diventi un materiale modellabile, come diventi facile intervenire sull’opinione pubblica, orfana di quella guardia del corpo (mezzi di comunicazione) che sola può rintuzzare l’avanzata dell’immagine in campo politico, spostando di forza il discorso sui fatti, sui contenuti, ed evitando accuratamente il trabocchetto della gag, della parodia e della leggerezza.

Purtroppo, l’arretratezza dei nostri sistemi di difesa falsifica le nostre scelte politiche al punto di rendere il consenso una variabile orchestrabile a piacimento. E’ di pochi giorni fa, ad esempio, un’inchiesta di Repubblica sulle paure dei cittadini, a pochi mesi dalle elezioni: diminuisce il numero di italiani che ritiene cresciuta la criminalità (è l'81,6%, contro l'88% del 2007). Meno del 40% degli intervistati percepisce un aumento dei reati nella propria zona di residenza (un anno fa era più della metà e, a maggio scorso, oltre il 53%); crolla il timore di un'aggressione o rapina (13,4% nel novembre 2008, rispetto al 18,7% di un anno fa), cala la percezione di pericolo dagli immigrati (14% in un anno).

Miracolo, improvvisa conversione dei criminali, radicale sradicamento dell’illegalità, resa della mafie? Pare di no.
L'analisi (“La sicurezza in Italia: significati, immagine e realtà”) dell'Osservatorio di Pavia sulla programmazione dei tg di prima serata, infatti, rileva una forte crescita di notizie sulla criminalità comune nell'autunno di un anno fa ed un successivo declino - particolarmente rapido dopo maggio. Peraltro, il peso delle notizie "ansiogene" è nettamente più elevato sulle reti Mediaset, soprattutto StudioAperto e Tg5. Il picco risulta raggiunto esattamente un anno fa, nel novembre 2007: 451 notizie dedicate a fenomeni criminali su un totale di 911 complessive del mese, mentre “le altre 460 notizie spaziano sui reati più vari e nelle zone più diverse.”
“Siamo di fronte ad un’ondata mediatica davvero particolare, soprattutto se messa in relazione con il trend dei reati in diminuzione nello stesso periodo”, sottolinea a tal proposito il rapporto: ed il trend continua a mantenersi tale anche all’inizio del 2008.

Interessanti, in particolare, le conclusioni: “…nel 2007 si assiste ad una vera e propria esplosione di notizie relative ad atti criminali. Realtà e notiziabilità si muovono in modo autonomo. All’esplosione dell’attenzione mediatica nel 2007 corrisponde una diminuzione, se pur lieve, del numero dei reati… al diminuire dei reati e al contemporaneo crescere delle notizie sulla criminalità, la percezione dell’opinione pubblica segue il dato mediatico e non quello reale”.

Guarda caso, dopo le elezioni i tg (in particolare quelli targati Mediaset) hanno mollato il pedale dell’insicurezza, dell’emergenza rifiuti, delle proteste contro le opere pubbliche (tav, base USA di Vicenza, inceneritori etc.), su cui avevano ossessivamente battuto per mesi. Ma la responsabilità non è solo dei direttori.

In alcune aree di Roma “il degrado è gravissimo” aveva tuonato l’attuale pontefice cavalcando l’onda emotiva dell’omicidio Reggiani: un attacco reso più pesante dalla candidatura di Veltroni, l’allora sindaco, alle elezioni politiche di pochi mesi dopo. Ne conseguiva che, se Veltroni non era stato un buon amministratore della capitale (ed il degrado stava lì a dimostrarlo), non poteva davvero cimentarsi col Paese intero: un giudizio implicito, ma evidente, che affossava pesantemente le speranze di un partito (il PD) nato soprattutto per dialogare con i cattolici.
Altri attacchi piovvero poi in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico alla Sapienza, quando le autorità vaticane lasciarono trapelare un imprecisato “pericolo sicurezza” che avrebbe portato l’allora governo Prodi a sconsigliare la visita: che non ci fosse niente di vero non importò a nessuno, in quei giorni d’isteria collettiva.
Mille voci s’attivarono per rivendicare la “libertà d’espressione”, per deplorare l’infausto “cappio” calato sul pontefice senza neanche misurare l’influenza di queste campagne sul consenso del governo a pochi mesi da un’importante appuntamento elettorale: la crociata contro l’imminente “vittoria del crimine” non fu solo televisiva, come si vede.
Sono in molti a saper manovrare il consenso, ed in molti a conoscere il momento adatto per farlo.

Oggi, invece, tutto tace. E se non lavoreremo alacremente, se non investiremo massicciamente nella palingenesi intellettuale di questo angolo di mondo, ne celebreremo presto o tardi la salma.
“Dona eis requiem sempiternam”, se ciò dovesse avvenire.

 

 

 

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