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N. 143 - Novembre 2019 (CLXXIV)

il perdono di eva Mozes kor

come una sopravvissuta agli esperimenti di Mengele

ha perdonato i suoi aguzzini

di Francesco Cappellani

 

Qualche mese fa i maggiori giornali europei, israeliani e americani hanno diffuso la notizia che Eva Mozes Kor era morta – anzi “passed away” come scrivono delicatamente i media di lingua inglese – per cause naturali in una camera d’albergo a Cracovia il 4 luglio 2019 a 85 anni. Eva si trovava in Polonia per l’annuale viaggio educativo con un gruppo di giovani per visitare il blocco concentrazionario nazista di Auschwitz-Birkenau, organizzato dall’associazione no profit CANDLES (Children of Auschwitz Nazi Deadly Lab Experiments Survivors) fondata da lei stessa e dalla gemella Miriam nel 1984, dopo il loro trasferimento negli USA nel 1960.

 

Nel 1995 CANDLES aveva aperto un Museo dell’Olocausto e un Centro Educativo a Terre Haute nell’Indiana dove vivevano le due sorelle. Nel 2003 il museo è stato distrutto da un incendio doloso dovuto, sembra, a un gruppo di suprematisti bianchi; ricostruito con l’aiuto di tutta la comunità e di varie organizzazioni, è stato riaperto nel 2005.

 

Eva fu internata ad Auschwitz nel 1944 e vi rimase fino al 27 gennaio 1945 quando i soldati russi liberarono il campo di concentramento. Era nata nel 1934 a Portz, un piccolo villaggio agricolo della Transilvania, in Romania, la sua era l’unica famiglia ebrea del paesino, e oltre alla gemella aveva due sorelle più grandi. La famiglia intera fu rastrellata nel maggio del 1944 dalla polizia ungherese asservita ai nazisti, portata in un ghetto e dopo cinque settimane trasferita su un carro bestiame ad Auschwitz.

 

All’arrivo, racconta Eva, vengono fatti scendere nella rampa che fronteggia le porte dei forni crematori KII e KIII, l’aria è irrespirabile, ammorbata da un tanfo spaventoso di carne bruciata: «La rampa era lunga circa venticinque metri e larga dieci. Credo che mai e in nessun luogo su questo pianeta tanto dolore si sia concentrato in una così modesta porzione di terra, una lingua sottile in cui milioni di uomini vennero strappati alle loro famiglie».

 

Un soldato vede Eva e la sorellina vestite allo stesso modo, chiede alla mamma se sono gemelle, gliele strappa di mano e le trascina via. Da quel momento le due bimbe, allora di dieci anni, non vedranno più i genitori e le due sorelle maggiori. Sono salve dalla camera a gas perché come gemelle omozigote sono associate al reparto medico del Dr. Josef Mengele che stava studiando, con esperimenti pseudoscientifici di eugenetica su “cavie” umane, come creare una perfetta razza ariana. I gemelli gli erano indispensabili per fare studi comparativi avendo sempre un campione identico di riferimento, il fine delle ricerche era di riuscire a selezionare e moltiplicare gli embrioni di puri “ariani”, biondi e con gli occhi azzurri.

 

Eva realizza subito che Mengele è il loro torturatore, il medico inietta giornalmente a lei e alla sorella misteriosi farmaci e ne studia attentamente gli effetti, ma allo stesso tempo comprende che finché saranno utili agli esperimenti, Mengele sarà il loro protettore e potranno sopravvivere. E infatti, su circa 1.500 coppie di gemelli sottoposti agli esperimenti, 200 coppie si salveranno anche perché l’ultimo ordine di Mengele di eliminarle tutte nelle camere a gas quando le truppe sovietiche sono oramai nei pressi del lager, non poté essere eseguito perché le riserve di gas erano esaurite.

 

Dopo la liberazione Eva e Miriam passano nove mesi in un campo profughi e poi sono accolte da una zia in Romania. Nei 1950 ottengono il visto per Israele e si trasferiscono in un kibbutz popolato soprattutto da orfani. Nel 1952 si arruolano nell’esercito israeliano.

 

Nel 1960 Eva incontra Mickey Kor, un lettone sopravvissuto all’olocausto che dopo la guerra era emigrato a Terre Haute, negli USA, che si trovava in visita in Israele, si sposano e si stabiliscono in America. Hanno due figli, ma Eva vive in uno stato di ossessiva angoscia, di odio e collera repressa pensando alle sue sofferenze da bambina e alla sua famiglia sterminata senza motivo.

 

Per liberarsi da questi fantasmi che la opprimono, nel 1978 inizia a parlare della sua storia nelle scuole in seguito a una trasmissione televisiva sull’olocausto, e nel 1980 comincia a raccontare al mondo le atroci vicende dei cosiddetti “gemelli di Mengele”. Si impegna caparbiamente con la sorella a rintracciare altri gemelli sopravvissuti per potere scambiare ricordi e per tenere viva la memoria di quegli anni terribili, riuscendo alla fine a contattare 122 ex-gemelli dislocati in dieci stati diversi e quattro continenti. La sua azione risveglia implicitamente l’interesse per la caccia al medico nazista che era riuscito nel dopoguerra a far perdere le sue tracce.

 

Josef Mengele nasce a Günzburg in Baviera nel 1911 da una famiglia benestante titolare di un’azienda di macchine agricole. Si laurea a Monaco nel 1938 in Medicina e diviene assistente di Otmar von Verschuer, studioso di eugenetica e direttore dell’Istituto per la Purezza e l’Igiene della razza. Nel 1937 si iscrive al partito Nazionalsocialista, e nel 1938 alle SS.

 

Si convince che il futuro della popolazione del terzo Reich si basi sulla manipolazione genetica e che occorra dare un fondamento scientifico alle teorie naziste sull’igiene razziale. La sua idea è di arrivare a scoprire, mediante studi ed esperimenti, il codice genetico che permetta di realizzare una razza ariana pura.

 

Si sposa nel 1939 e due mesi dopo, quando la Germania invade la Polonia, si arruola volontario nelle Waffen-SS dove compie atti di valore ed è decorato con la croce di ferro. Nel 1942, a causa di lievi ferite riportate al fronte, rientra a Berlino dove riprende i contatti col suo mentore, il prof. von Verschuer divenuto intanto direttore del prestigioso Kaiser Wilhelm Institute.

 

Nominato SS-Haupsturmführer, nel maggio del 1943 è assegnato al campo di Auschwitz con lo scopo di proseguire le sue ricerche di eugenetica con l’autorizzazione a operare, a propria discrezione, su tutte le “cavie” umane necessarie agli esperimenti attingendo alle tante migliaia di deportati ebrei e in particolare ai gemelli, circa 1.500 coppie di bambini e adolescenti che saranno spesso torturate fino alla morte.

 

È un’occasione unica e irripetibile; scrive Tania Crasnianski: “Gli esperimenti che conduce sono del genere più svariato ma tutti effettuati senza anestesia: manipolazioni del sangue, inoculazioni di materiale infetto, sollecitazione del midollo spinale, ablazione di organi o membra, sterilizzazione. In un caso tenta di creare una coppia di gemelli siamesi cucendoli insieme e unendone i vasi sanguigni. Quando le “cavie” muoiono i corpi vengono sezionati per prelevare campioni dei tessuti da mandare al prof. von Verschuer a Berlino per ulteriori analisi.

 

La moglie resta in Germania, lo andrà a trovare poche volte, come nell’agosto del 1943 e l’anno dopo, per mostrargli il figlio Rolf nato nel marzo del 1944. Il 17 gennaio del 1945, all’arrivo dell’Armata Rossa, Mengele fugge da Auschwitz indossando una comune divisa della Wehrmacht e si nasconde in Cecoslovacchia. La moglie viene a sapere da comuni amici che il marito è vivo, ma interrogata dagli americani che lo cercano, dice che è scomparso sul fronte orientale. Mengele in incognito rientra in Germania e si nasconde nella foresta intorno alla sua città natale, Günzburg, mantenuto dalla famiglia. Alla fine del 1945, col falso nome di Fritz Hollmann, lavora come bracciante agricolo a Rosenheim, in Baviera. Il rapporto con la moglie si va deteriorando e si concluderà col divorzio nel 1954.

 

Nel 1949 Mengele capisce che è più sicuro lasciare la Germania per l’America Latina; passando per l’Italia si imbarca a Genova sulla nave North King per Buenos Aires utilizzando documenti con falso nome fornitigli dalla Croce Rossa. In seguito riassume il suo vero nome anche perché, malgrado dopo il processo di Norimberga fosse stato incluso nella lista dei criminali nazisti ancora in libertà, il governo tedesco non ne aveva richiesta l’estradizione. Nel 1956 ritorna in Europa per una riunione di famiglia in Svizzera e rivede il figlio Rolf allora dodicenne.

 

Per Rolf quel signore che viene dall’America Latina è lo zio Fritz, in quanto la mamma aveva raccontato anche al figlio che il padre figurava disperso sul fronte orientale ed era un eroe di guerra. Solo a 16 anni Rolf viene a sapere chi fosse realmente quello zio e di quali crimini si era macchiato, è uno shock tremendo per il ragazzo. Mengele tenta di creare un rapporto affettivo col figlio ma i loro contatti epistolari restano formali e distanti.

 

Nel 1959 il governo tedesco emette infine il mandato di cattura e allora Mengele, sentendosi braccato anche dal Mossad che aveva iniziato a cercarlo su suggerimento di Simon Wisenthal, il celebre cacciatore dei nazisti, si rifugia prima in Paraguay e poi in Brasile.

 

Nel 1968 il Mossad è prossimo alla cattura ma in quegli anni avviene un cambio nei programmi operativi e il capo del Mossad dell’epoca ordina di “smettere di andare a caccia di fantasmi del passato e dedicare tutte le risorse alle minacce contro la sicurezza dello Stato”. In realtà il terrorismo palestinese era divenuto la maggiore e più urgente sfida al governo di Israele, seguirà poi la guerra di Yom Kippur nel 1973 e i timori legati alla corsa al riarmo della Siria.

 

Nel 1977, il neoeletto Primo Ministro di Israele Menachem Begin, sprona nuovamente il Mossad a riprendere la ricerca dei criminali nazisti, in particolare di Josef Mengele. In quello stesso anno Rolf decide di andare a trovare suo padre a San Paolo in Brasile dove vive sotto falso nome, perché vuole avere risposte a tanti sospetti che lo tormentano. Inizia a fare domande su Auschwitz e in particolare sulla selezione che all’arrivo dei convogli veniva fatta sulla famosa rampa, la judenramp, per decidere chi dovesse essere eliminato. Il padre si schermisce dicendo che aveva sì partecipato alla cernita, ma solo per decidere chi era atto al lavoro e chi no e afferma con decisione di non avere mai ferito e tantomeno ucciso nessuno.

 

Dopo lunghe discussioni che si protraggono fino a tarda notte Rolf conclude che “suo padre non ha alcun rimpianto, è rimasto fedele agli ideali nazionalsocialisti e non ha mai dubitato per un solo istante della superiorità della razza ariana”. Non c’è mai, nelle parole dell’anziano medico, un accenno di pentimento, di compassione, di senso di colpa. Malgrado avesse compreso perfettamente le responsabilità del padre, Rolf non si sente di tradirlo e si rifiuterà sempre di fornire indicazioni che permettano di arrestarlo, ma allo stesso tempo nega di avere mai contribuito a nasconderlo.

 

Quando, nel 1979, Mengele muore di infarto mentre nuota al largo di una delle spiagge di San Paolo, Rolf ritorna in Brasile per recuperarne gli effetti personali e i diari, una trentina di quaderni scritti dal 1960 al 1975 per un totale di circa 3.400 pagine. Nel 1985 il corpo di Mengele, sepolto a San Paolo col falso nome che aveva assunto in Brasile per sfuggire al Mossad, viene riesumato per ordine delle autorità tedesche, e, dal confronto con il DNA del figlio, ne viene confermata la vera identità.

 

A questo punto la storia di Mengele diventa di dominio pubblico e Rolf che negli anni Ottanta aveva voluto assumere il cognome della moglie perché il suo era diventato sinonimo di infamia, accetta di raccontare ai media il suo incontro col padre e l’esistenza dei diari. Questi manoscritti saranno battuti all’asta negli USA nel 2011 e acquistati per la somma di 245.000 dollari da un anonimo figlio di un ebreo sopravvissuto all’olocausto; alcuni stralci erano stati pubblicati nel 1985 sul settimanale tedesco Bunte per concessione di Rolf.

 

Nello stesso anno Eva Kor e la sorella Miriam, insieme ad altri sopravvissuti, ritornano ad Auschwitz per il quarantennale della liberazione del lager. Nel 1993 la sorella muore di cancro; Eva, sempre più angosciata e lacerata dal dolore dei ricordi della guerra, è invitata a Boston da alcuni medici per raccontare la sua esperienza nel lager e le viene chiesto anche, per avere maggiori informazioni, di incontrare un medico nazista, il dottor Hans Munch che aveva lavorato ad Auschwitz. Lo contatta, lo va a visitare, gli chiede conferma in particolare sulle camere a gas la cui esistenza era posta in dubbio da alcuni negazionisti, e lo convince a recarsi con lei ad Auschwitz nel 1995 per firmare insieme un documento sulla operatività di quelle camere di morte.

 

Lì Eva annuncia il suo personale perdono incondizionato ai criminali nazisti. Dopo tanti anni, infatti, ha compreso che l’unico modo di superare il peso schiacciante dei ricordi è quello di perdonare: “All’inizio ero adamantina sul fatto che non avrei mai potuto dimenticare il Dr. Mengele, ma poi ho capito che ora avevo il potere di dimenticare. Era un mio diritto che nessuno poteva togliermi /…/ Dopo questa decisione, ho sentito che il mio carico di dolore si era dissolto. Non ero più stretta nella morsa dell’odio; ero finalmente libera”.

 

Così scrive Francesco De Palma recensendo il libro di Eva Ad Auschwitz ho imparato il perdono: «Perdonare per Eva significa abbandonare un atteggiamento passivo, in cui la vittima è ancora plasmata dal carnefice, indotta a percorrere passi predeterminati, per quanto comprensibili, e prendere finalmente in mano la situazione. Vuol dire “far guarire le nostre ferite”, perché “una vittima ha il diritto di essere libera, ma non può esserlo se non si scuote di dosso il peso del dolore e della rabbia”». Questo atteggiamento le provoca molte critiche nell’ambiente ebraico e, dai più oltranzisti, è addirittura accusata di tradimento. Ma lei sostiene fino alla fine che «le persone che hanno perdonato hanno fatto pace con se stesse e donano pace al mondo. Per lo meno questa è la mia speranza più grande».

 

Alle parole Eva fa seguire i fatti: nel 2015, ormai ottantunenne, nell’aula del tribunale di Lüneburg in Germania, durante il processo all’ex-SS novantaquattrenne Oscar Gröning, ragioniere contabile ad Auschwitz e responsabile, secondo l’accusa, di aver preso indirettamente parte al massacro di 300.000 ebrei, pur essendo parte civile nel processo, gli stringe la mano offrendogli il suo perdono e si batte affinché la condanna a quattro anni di prigione venga commutata in servizio civile.

 

Nello stesso anno adotta Rainer Höss, nipote di Rudolf Höss, lo spietato comandante del lager di Auschwitz, processato nel dopoguerra e impiccato davanti all’ingresso del campo nel 1947. Eva aveva conosciuto Rainer nel 2013 ed era rimasta impressionata dalla grande intelligenza del giovane e dal suo impegno per “educare le nuove generazioni su come riconoscere e sconfiggere il Male del nazismo”, parlando infaticabilmente agli studenti di centinaia di scuole.

 

Nell’intervista rilasciata in una delle ultime visite ad Auschwitz intese a mantenere viva la memoria dell’orrore dell’olocausto, ma anche ad educare all’arte del perdono, aveva detto: «When I come back here, I don’t come back as a victim. I come back as a victorious survivor» (Quando ritorno qui, non vengo come una vittima, ma come una vittoriosa sopravvissuta).

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

E. Mozes Kor, Ad Auschwitz ho imparato il perdono. Una storia di liberazione, Sperling & Kupfer, 2017.

T. Crasnianski, I figli dei nazisti, Bompiani, 2017.

R.Bergman, Why did Israel let Mengele go?, The New York Times, 6 settembre 2017

M. Molinari, La bimba deportata ad Auschwitz che ha adottato il nipote del suo aguzzino, La Stampa, 24 gennaio 2015.



 

 

 

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