[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 160 / APRILE 2021 (CXCI)


contemporanea

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SULLEUROCOMUNISMO

LA STRADA VERSO IL COMPROMESSO STORICO

di Claudio Li Gotti

 

A metà degli anni Settanta prese forma una forte iniziativa politica dei tre principali partiti comunisti dell’Ovest europeo (italiano, spagnolo e francese) per mettere a punto gli elementi di una nuova cultura politica basata sui principi delle democrazie occidentali: il fine era quello di realizzare progressivamente la loro partecipazione al governo delle rispettive nazioni.

 

La Conferenza dei 29 partiti comunisti d’Europa, svoltasi a Berlino nel giugno 1976, rappresentò la manifestazione evidente dello strappo compiuto dai tre partiti occidentali nei confronti dell’URSS, per le contraddizioni che si formavano sulla via della definizione e dell’adozione di una strategia politica riformista e innovativa.

 

Questa strategia, denominata “eurocomunismo”, nasceva dall’esigenza di attuare delle riforme democratiche per la trasformazione delle società europee e per raccogliere uno schieramento più ampio di forze popolari. Il principale promotore di questa iniziativa fu Enrico Berlinguer, alla guida del più forte tra i partiti comunisti occidentali, che si era reso interprete di profonde riflessioni sulla scena politica italiana, drammaticamente bloccata anche dal continuo isolamento del PCI da ogni forma di coalizione governativa, e che avrebbe ispirato la stagione italiana del “Compromesso Storico”.

 

È necessario adesso compiere una breve panoramica dello scenario storico di quegli anni, per meglio comprendere le condizioni che hanno portato agli sviluppi di questa fase politica.

 

Distensione e “nuova via”

 

Nei primi anni Settanta la Guerra Fredda tra le superpotenze Usa e Urss viveva la sua fase di “distensione”, un processo di dialogo e negoziato avviato nel 1968 con il Trattato di Mosca sulla non proliferazione dell’energia nucleare per scopi bellici e proseguito poi in modo più incisivo grazie anche all’abilità geopolitica del presidente americano Nixon e del suo consigliere per la sicurezza Henry Kissinger. L’apertura dei rapporti nel 1971 con l’altro grande paese comunista, la Cina di Mao Zedong, e la visita al leader sovietico Breznev a Mosca nel maggio del 1972 (firma dei negoziati SALT I) rappresentarono due importanti passi in avanti verso la coesistenza pacifica tra Occidente e Oriente.

 

La Ostpolitik di Willy Brandt, Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, segnava sicuramente un’altra importante tappa del processo di distensione e consolidava i principi di libertà di circolazione e di presa di coscienza sul continente europeo. Nel caso specifico, si trattava di una politica di apertura e di normalizzazione dei rapporti tra le due Germanie e tra i tedeschi occidentali e gli altri paesi del blocco orientale.

 

La fase di distensione fra i due blocchi contrapposti favoriva dunque un cambio di rotta nei rapporti fra i tre maggiori partiti comunisti occidentali e l’Urss, i primi sentendosi meno vincolati alla guida sovietica, pur non rinnegandola, e ricercando una indipendenza progressivamente più marcata rispetto a Mosca. Il progetto politico dell’eurocomunismo indicava questa “nuova via”, una storica svolta socialdemocratica dei partiti comunisti in Francia, in Spagna ma soprattutto, come vedremo, in Italia. In linea di massima, la formula prevedeva l’apertura politica anche alle altre forze non marxiste dei rispettivi Stati, allo scopo di realizzare programmi comunisti nell’osservanza dei principi della democrazia parlamentare.

 

Il termine “eurocomunismo” fu pronunciato per la prima volta da Enrico Berlinguer a Parigi, nel gennaio del 1976, ma l’atto ufficiale di nascita sarebbe stato l’incontro di Madrid del 1977 con gli altri due leader comunisti Santiago Carrillo (Spagna) e George Marchais (Francia). L’incontro doveva definire la nuova via da seguire per i tre partiti, che si indirizzavano decisamente verso posizioni vicine alla socialdemocrazia; questo percorso comportava un allontanamento dalle posizioni sovietiche e una critica sempre più marcata dei sistemi politici imposti nei paesi dell’Est europeo, che in Italia era già cominciata molti anni prima con il dissenso esplicito sull’invasione della Cecoslovacchia.

 

Sul piano nazionale i tre partiti eurocomunisti elaboravano analisi convergenti sulla crisi che aveva colpito le società capitaliste dell’Europa occidentale; la crisi era definita globale e strutturale, non riguardava solo l’economia ma tutti gli aspetti della società, comprese la politica e la morale. Quindi era auspicabile un’apertura a riforme in senso più democratico e la sostanziale rinuncia al dogma della rivoluzione come unico mezzo per acquisire il potere.

 

 

La stagione del Compromesso Storico in Italia (1976-1979)

 

Il contesto italiano era sicuramente il più difficile e complicato, giacché il nostro era un Paese dove erano entrati in crisi gli equilibri politici ed economici. Il terrorismo imperversava, sfidando le istituzioni democratiche come in nessun altro paese europeo e aveva due opposte connotazioni, di destra e di sinistra. A un terrorismo “nero”, che si proponeva di spargere il panico attraverso attentati dinamitardi contro la popolazione allo scopo di creare nell’opinione pubblica le condizioni per una svolta autoritaria e un forte governo di destra, si contrapponeva un terrorismo “rosso” che si identificava con la nascita delle BR (Brigate Rosse) e che aveva un terreno di cultura nella crisi economica, nella disoccupazione giovanile e nel movimento studentesco di quegli anni.

 

Alla fine degli anni Settanta, il terrorismo di sinistra ebbe una tragica impennata che sfociò nella programmazione dei primi omicidi politici, strategia che avrebbe segnato quel periodo come “gli anni bui della Repubblica” o, con il termine più suggestivo, gli anni di piombo.

 

Sotto l’insegna dell’eurocomunismo, il PCI di Berlinguer veniva sempre più candidato a entrare al governo come un necessario garante dell’unità nazionale, di una più efficace politica economica e di un maggiore impegno nella lotta al terrorismo. Il processo di distensione internazionale appariva a Berlinguer come la condizione più favorevole per superare l’ostacolo più importante alla partecipazione dei comunisti al governo del paese, la conventio ad excludendum, ossia la condizione di democrazia bloccata dall’esclusione del PCI da qualsiasi coalizione governativa.

 

Il segretario comunista fu l’ispiratore del compromesso storico fra le due principali forze politiche del dopoguerra italiano, il PCI e la Democrazia Cristiana. Con tre articoli pubblicati sulla rivista “Rinascita”, a commento del Golpe in Cile del 1973, Berlinguer si apriva a delle profonde riflessioni sul contesto italiano e proponeva un nuovo modello di socialismo, basato su un programma di profonde trasformazioni sociali e di rinnovamento politico. Il progetto che proponeva Berlinguer era dunque l’accordo tra i partiti disposti a realizzare una nuova politica governativa, un’alternanza democratica al “regime democristiano” che aveva governato gli ultimi trent’anni.

 

 

Il principale interlocutore del leader comunista era il presidente democristiano Aldo Moro, già protagonista negli anni Sessanta dei primi governi di apertura a sinistra della storia repubblicana. Moro attuava la cosiddetta “strategia dell’attenzione” nei confronti del PCI, che nasceva dal bisogno di rendere possibile il più ampio dialogo in vista di una nuova e qualificata maggioranza; tale strategia era un chiaro invito alle trattative verso il compromesso storico elaborato da Berlinguer. Ma anche altri autorevoli esponenti politici italiani, come il leader dei repubblicani Ugo La Malfa, erano convinti che fosse perfino indispensabile la presenza del PCI nell’area di governo, per cambiare il vecchio sistema di guida democristiana.

 

Malgrado ciò, gli Stati Uniti non potevano permettersi un atteggiamento indifferente circa la posizione occupata da un partito comunista all’interno di un paese dell’Europa occidentale e l’avvicinamento all’area di governo del PCI veniva visto a Washington come un notevole salto nel buio. Il Segretario di Stato americano Kissinger diffidava di questa presunta distanza dall’ortodossia sovietica da parte del PCI, credendola una tattica per la conquista del potere e una minaccia per l’intera alleanza atlantica.

 

Le elezioni politiche del giugno 1976 rivelarono una flessione della Democrazia Cristiana, una netta sconfitta di tutti i partiti minori che rappresentavano il suo sistema di coalizione e un notevole balzo in avanti del Partito Comunista, che ottenne il suo miglior risultato di sempre con il 34% dei voti. Fu chiaro che la DC non poteva più garantire una stabilità politica con lo stesso metodo con cui aveva formato gli esecutivi negli ultimi trent’anni.

 

Dal momento che tutte le forze parlamentari si rifiutavano di associare il PCI a qualsiasi coalizione di maggioranza, l’unica soluzione possibile fu quella di formare un governo monocolore DC, cioè un esecutivo che fosse sorretto in Parlamento solo dal voto dei democristiani e che basasse la sua fiducia sull’astensione dei comunisti, in primis, e degli altri partiti della rappresentanza parlamentare. In poche parole, un governo della non sfiducia e di “unità nazionale”.

 

Giulio Andreotti, che nei primi anni Sessanta aveva avversato la formula dei governi di centrosinistra adottata da Aldo Moro, fu chiamato a fare da Presidente del Consiglio garante e guida della suddetta solidarietà nazionale. Un chiaro segnale dell’apertura politica al PCI fu realizzata a livello istituzionale con la nomina di Pietro Ingrao a Presidente della Camera (il primo comunista della storia) e con l’assegnazione al Partito di Berlinguer di alcune presidenze di importanti commissioni.

 

Il Governo Andreotti III rimase in piedi fino al termine dell’anno 1977, quando il leader del PCI chiese l’ingresso a pieno titolo nel governo per il suo Partito; i comunisti dovevano essere coinvolti in modo diretto per dare un indirizzo nuovo alla politica italiana.

 

La scelta di Berlinguer non riscontrò i favori dell’area più radicale del PCI ma dovette imbattersi anche nel rifiuto della Segreteria DC e del Dipartimento di Stato americano. La nuova presidenza di Jimmy Carter, pur seguendo una linea più equilibrata di non interferenza nella politica interna italiana, dichiarava espressamente di “non accogliere con favore la partecipazione comunista nei governi dei paesi occidentali”, un chiaro messaggio destinato alla situazione italiana e al pericolo reale di ingresso del PCI nel governo.

 

Il paventato passo successivo nella direzione del compromesso storico, che doveva compiersi con la nascita del primo vero governo “consociativo”, venne così di fatto bloccato. Fu avanzata la soluzione di un nuovo governo monocolore DC, sempre presieduto da Giulio Andreotti, ma stavolta sostenuto dal voto parlamentare dei comunisti e degli altri partiti. Il PCI, in questo modo, entrava attivamente nella maggioranza, pur non facendo parte del governo; una strategia che fu resa possibile grazie anche alla mediazione di Aldo Moro innanzi al suo partito.

 

Il 16 marzo 1978, il giorno previsto per il dibattito sulla fiducia in Parlamento, le BR contribuirono a interrompere bruscamente il processo di cambiamento con il sequestro di Moro e la successiva esecuzione (9 maggio). Nel momento di massima crisi generato dall’attentato di Via Fani, il nuovo esecutivo ottenne la fiducia basandosi sull’astensione dei comunisti.

 

La stagione del compromesso storico e della solidarietà nazionale era tuttavia agli sgoccioli, il Governo Andreotti IV rimase in carica per circa un anno, riuscendo solo in parte ad attuare le riforme necessarie (una su tutte la legge sanitaria).

 

Nel gennaio del 1979 il PCI poneva fine all’eterogenea e fragile alleanza di governo, per le divergenze in materia di politica economica ed estera; a un successivo esecutivo Andreotti, che però non ottenne la fiducia in Senato, seguì lo scioglimento anticipato delle Camere da parte del Presidente Pertini, nell’aprile dello stesso anno.

 

Il fallimento della svolta politica fu in tal modo decretato e fu una disfatta soprattutto per il PCI, che vide un crollo dei voti nelle elezioni del giugno 1979. Nondimeno, questo breve ma intenso periodo diede un contributo determinante per la sconfitta del terrorismo in Italia.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

L. Bonanate, Appunti sull’eurocomunismo, Torino 1978.

M. Bruscagin, Eurocomunismo: il sogno di coniugare democrazia con socialismo, tesi di laurea Università Cattolica di Milano, a.a. 1994/1995.

P. Filo Della Torre, E. Mortimer, J.Story, Eurocomunismo, Mito o Realtà?, Milano 1978.

R. Gardner, Mission: Italy. Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore americano a Roma, Milano 2004.

P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Torino 2006.

A. Tatò (a cura di), Conversazioni con Berlinguer, Roma 1985.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]