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N. 111 - Marzo 2017 (CXLII)

esiodo e la poetica del "vero"
 Riflessioni sulla poesia greca arcaica e tardo-arcaica - Parte I

di Paola Scollo

 

Il cammino della letteratura greca in età arcaica fino alla nascita della prosa è attraversato dalla presenza di svariati tentativi di opposizione, quindi di rottura, nei confronti della poesia epica quale fenomeno di civiltà unitario e globale. Tale processo può essere osservato già nei cosiddetti prooimia - più noti forse come Inni omerici - canti che venivano eseguiti prima dell’oime, una delle trame narrative preminenti.

 

I prooimia esprimono infatti una nuova concezione dell'arte poetica, connessa alla precedente per aspetti formali, ma del tutto autonoma e libera nei contenuti. Entro tale dimensione è da collocare anche Esiodo, prima personalità poetica della fase arcaica di cui conosciamo, oltre alla produzione letteraria, alcune vicende biografiche da lui stesso riferite. Tra queste notevole valore ha la notizia della vittoria nel canto in occasione dei giochi per Amfidamante (Erga, vv. 654 ss.), in quanto consente - seppur in maniera non puntuale - di collocare il poeta nel tempo, ossia nell’ultimo terzo dell’ottavo secolo a.C.

 

Con Esiodo la figura del poeta entra per la prima volta nell’opera letteraria non soltanto per i riferimenti alla propria esperienza biografica, ma soprattutto per la presenza di giudizi basati su una personale riflessione. Alla disgregazione dell’epica narrativa arcaica Esiodo contribuisce attraverso un costante richiamo alla realtà. Vivo è in lui l’interesse per il presente e per la concretezza della vita quotidiana. Temi centrali dei suoi versi sono il commercio, la navigazione, l’emigrazione e il forte attaccamento etnico cui fa da sfondo la ricerca della sussistenza nella prospettiva di un miglioramento delle condizioni di vita.

 

Della produzione esiodea rimangono due poemi conservati integralmente: la Teogonia (1022 esametri) e gli Erga (828 esametri). Con ogni probabilità la composizione della Teogonia è antecedente rispetto a quella degli Erga. Il titolo Teogonia, che letteralmente significa “nascita degli dèi” - ovvero “genealogia divina” -sottolinea l’intenzione poetica  di conferire un ordine, secondo lo schema tipico del catalogo, al vasto repertorio di miti e di figure divine del pantheon greco.

 

Leit-motiv della narrazione è la successione Urano-Kronos-Zeus, metafora della conflittualità tra religiosità “mediterranea” e indoeuropea. Con il procedere del racconto l’iniziale cosmogonia si trasforma in una descrizione delle cose e delle forze presenti e operanti nel mondo, dove la realtà viene interpretata alla luce del mito.

 

La conflittualità teogonica serve quindi a giustificare il passaggio da un iniziale stato di disordine, chaos, a uno di ordine, kosmos, attraverso il rovesciamento del potere costituito. Dietro tale saga possono essere scorte anche assonanze con miti antichissimi di matrice orientale. E ciò non deve sorprendere. Il richiamo ad arcani mitologemi può essere spiegato alla luce sia delle origini asiatiche della famiglia di Esiodo sia della persistenza di un substrato culturale autoctono in Beozia.

 

Nella Teogonia Esiodo opera il totale rovesciamento dei canoni della poesia narrativa eroica. Illuminante in tal senso è il proemio, in cui il poeta inserisce il  racconto della propria esperienza personale (vv. 1 - 34) in un contesto di poesia tradizionale, l’inno vero e proprio (vv. 36 - 115), chiarendo lo scopo del suo poetare, ossia dire “cose vere”.

 

Osserviamo dunque tali versi nella traduzione del prof. Graziano Arrighetti: «Esse una volta a Esiodo insegnarono un canto bello, mentre pasceva gli armenti sotto il divino Elicone;/ questo discorso, per primo, a me rivolsero le dee,/ le Muse dell’Olimpo, figlie dell’egioco Zeus:/ “O pastori, cui la campagna è casa, mala genia, solo ventre;/ noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero,/ ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare”./ Così dissero le figlie del grande Zeus, abili nel parlare, e come scettro mi diedero un ramo d’alloro fiorito,/ dopo averlo staccato, meraviglioso; e m’ispirarono il canto/ divino, perché cantassi ciò che sarà e ciò che è,/ e mi ordinarono di cantare la stirpe dei beati, sempre viventi;/ ma esse per prime, e alla fine, sempre» (Teog. 22 - 34). Pur ponendo numerosi interrogativi, il proemio suggerisce l’immagine di una esistenza - quella dell'autore - condizionata irreversibilmente dalla potenza del canto.

 

Nel contributo dal titolo La parola e il marmo del 1976 Jesper Svenbro nega le interpretazioni prevalenti nella cultura tedesca secondo cui le Muse illustrerebbero a Esiodo la superiorità della vita spirituale su quella materiale. Nell’immagine dello studioso, Esiodo è il contestatore di un ordine sociale ingiusto dominato da un’aristocrazia parassitaria, specchio di quella ritratta nell’Odissea.

 

A ben vedere la verità a cui Esiodo viene iniziato dalle Muse è piuttosto una verità narrativa. È la verità che può e deve essere veicolata da un racconto differente e altro rispetto all’epos tradizionale. Sul filo di questo ragionamento, appare evidente che Esiodo non intenda proporsi quale erede dell’aedo o del rapsodo, dunque come poeta vate, araldo e depositario di una sapienza assoluta e universale che intreccia storie al fine di dilettare il proprio pubblico.

 

Egli concepisce se stesso come un poeta guidato dalla missione di annunciare la verità dei valori che gli dèi impongono agli uomini. La distanza dai contenuti dell’epos tradizionale e dagli altri poeti emerge in tutta la sua portata.



 

 

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