N. 64 - Aprile 2013
(XCV)
Un'eredità avvelenata - parte i
DAI Fondali pesaresi a quelli di Napoli
di Laura Ballerini
Marche.
Fondali
pesaresi.
L’8
settembre
del
1943
non
segnò
solamente
l’armistizio
dell’Italia
con
gli
Alleati
Anglo-americani
e la
conseguente
fine
dell’alleanza
con
la
Germania,
ma
fu
anche
l’inizio
di
una
vera
“caccia
ai
gas”.
I
tedeschi,
infatti,
non
potevamo
permettere
che
il
cambio
di
alleanza
consentisse
a
inglesi
e
americani
di
impossessarsi
dei
depositi
di
gas
sul
territorio
italiano;
per
quanto
le
miscele
prodotte
in
Italia
non
fossero
moderne
e
letali
come
quelle
distillate
in
Germania,
erano
comunque
fondamentali
nell’eventualità
di
una
guerra
chimica
totale.
Hitler
dunque
ordinò
di
raccogliere
quanto
più
dettagliate
informazioni
sulle
fabbriche
di
produzione
e
stoccaggio
italiane,
per
poi
disporre,
il
19
dicembre
dello
stesso
anno,
il
trasferimento
dell’arsenale
chimico
in
Germania.
Si
diede
rapidamente
inizio
alla
dislocazione
delle
scorte
chimiche
per
evitare
che
i
nemici
potessero
mettervi
mano.
Il
pericoloso
carico
militare
venne
trasportato
su
camion
fino
a
Fano,
dove
sarebbe
stato
poi
caricato
su
convogli
isolati.
Ma i
rischi
erano
troppo
alti:
i
tedeschi
erano
impegnati
sul
fronte
di
Rimini
e
l’esplosione
di
uno
di
questi
treni
poteva
compromettere
l’unica
arteria
stradale
utile.
L’alternativa
si
presentava
sotto
la
forma
di
un
enorme
massa
di
acqua
blu.
Le
84
tonnellate
di
testate
all’arsenico
vennero
affondate
nel
Mare
Adriatico,
rendendole
inutilizzabili
per
loro,
si,
ma
soprattutto
per
gli
Alleati.
Stessa
sorte
toccò
alle
4300
bombe
all’iprite,
conservate
nel
deposito
di
Urbino.
Dopo
la
fine
del
conflitto
l’unico
a
interessarsi
fu
l’on.
Tambroni,
che
nel
1951
definì
le
coordinate
di
queste
discariche
marine
(sei),
preoccupandosi
per
la
corrosione
degli
involucri
di
questi
ordigni,
che
rimanevano
molto
pericolosi
anche
se
inabissati.
Dopodiché
fu
il
silenzio,
fino
a
quando,
nel
2009,
l’uscita
del
libro
Veleni
di
Stato
del
giornalista
Gianluca
di
Feo,
smobilitò
i
cittadini
pesaresi.
Da
allora
è
iniziato
il
lungo
cammino
di
quanti,
sensibili
alla
tutela
ambientale,
chiedono
un
accertamento
sulle
condizioni
dell’area
e la
bonifica
dagli
ordigni
militari.
Oggi,
benché
la
Procura
abbia
riconosciuto
i
siti
inquinati,
i
cittadini
aspettano
ancora,
mentre
si
verificano
episodi
come
quelli
del
6
aprile
2012,
quando
è
stata
rinvenuta
una
bomba
a
200
metri
dalla
costa
di
Vallugola
(PU).
Campania.
Il
golfo
di
Napoli.
Alla
fine
del
secondo
conflitto
mondiale,
gli
Alleati
americani
avevano
la
necessità
di
smaltire
l’imponente
arsenale
chimico
e
per
farlo
scelsero
il
mar
Tirreno.
Ciò
è
documentato
dagli
statunitensi
“rapporti
Brankowitz”,
resi
pubblici
sotto
la
presidenza
Clinton
(e
poi
nuovamente
segreti
dopo
l’11
settembre),
che
raccolgono
gli
spostamenti
delle
armi
chimiche
verso
il
Golfo
di
Napoli
e il
mare
intorno
Ischia,
i
due
siti
scelti
per
il
deposito
bellico.
Alcune
armi
venivano
riportate
negli
Stati
Uniti,
come
il
carico
giunto
il
13
giugno
del
1946
in
Alabama,
altre
invece
avevano
come
destinazione
“il
mare”,
come
quelle
partite
da
Aversa
il
23
Aprile
1946,
verosimilmente
inabissate
a
largo
della
costa
campana.
Si
parla
inoltre
di
una
quantità
imprecisata
di
bombe
al
fosgene
(un
gas
asfissiante),
cloruro
di
cianuro
e
cianuro
idrato
affondate
nei
pressi
di
Ischia
tra
ottobre
e
dicembre
del
1945.
A
confermare
queste
operazioni
americane
è un
documento
del
marzo
del
2001,
redatto
dal
Poligono
di
Aberdeen,
dove
si
parla
di
Ischia
come
di
una
“discarica
chimica”
e di
circa
13mila
proiettili
e
438
barili,
entrambi
carichi
di
iprite,
affondati
nel
mare
di
Napoli.
Due
docenti
dell’Istituto
Nautico
di
Forio,
in
collaborazione
con
il
CNBAC,
hanno
cercato
di
definire
l’area
di
deposito
degli
ordigni
militari,
individuandola
in
un
triangolo
che
ha
come
vertici
il
porto
di
Bagnoli,
le
isole
di
Procida
e
Ischia
e
l’isolotto
di
Nisida.
Si
ritiene
che
le
navi
americane,
per
scaricare
le
bombe,
non
siano
arrivate
alla
zona
della
Bocca
Grande,
oltre
Capri
e
Ischia,
dove
i
fondali
raggiungono
anche
i
1000
metri
di
profondità,
ma
che
si
siano
tenute
tra
i
200
e i
400
metri.
L’arsenale
chimico
dunque
dovrebbe
giacere
su
un’area
di
circa
287
km
quadrati.
Un
subacqueo
intervistato
da
Legambiente
avvalorò
poi
la
tesi
secondo
la
quale
anche
il
mare
circostante
Capri
fosse
stato
un
sito
di
deposito
bellico,
dichiarando
di
aver
preso
parte
a
squadre
per
l’ispezione
dei
fondali
dell’isola,
su
cui
vennero
avvistati
ordigni
bellici
di
grosso
calibro.
La
Soprintendenza
ai
beni
archeologici
della
Campania,
negli
ultimi
anni,
ha
portato
avanti
ricerche
conoscitive
dei
fondali
per
identificare
giacimenti
di
anfore
e
reperti;
la
mappatura
dei
fondali
ottenuta
dalla
ricerca
è
sotto
il
segreto
di
stato
per
evitare
speculazioni,
il
che
impedisce
di
scoprire
se
siano
stati
trovati
anche
ordigni
chimici,
pericolosi
per
il
benessere
dell’ecosistema
marino
(e
non).
Nel
2011
Legambiente
e
CNBAC
hanno
organizzato
una
tappa
della
campagna
Goletta
Verde
a
Napoli,
per
sensibilizzare
i
cittadini
sulle
condizioni
del
loro
mare.
Sono
state
inviate
delle
richieste
di
provvedimenti
alla
Capitaneria
di
Porto
di
Napoli
e al
Ministero
della
Difesa,
che
hanno
risposto
affermando
che
vi
sono
state
opere
di
bonifica
al
Golfo
di
Napoli
già
nel
1945/46
e
tra
Punta
Baccoli
e
l’isola
di
Capri
nel
2004.
Per
quel
che
riguarda
la
vasta
area
costituita
dallo
specchio
d’acqua
tra
le
due
isole,
si
necessita
invece
di
un’attenta
indagine
e di
una
sistematica
bonifica,
per
la
quale
occorre
un
cospicuo
finanziamento.
Un
finanziatore
però
non
è
ancora
stato
trovato,
e si
aggrava
così
la
già
preoccupante
condizione
ambientale
campana.