[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

163 / LUGLIO 2021 (CXCIV)


medievale

COMANDANTI ROMANI NEI REGNI BARBARICI

IL CASO DI ENNIO MUMMOLO

di Roberto Conte

 

Come è noto, il rapido declino e la caduta finale dell’Impero Romano d’Occidente, nel V secolo d.C., portarono alla costituzione dei cosiddetti regni romano-barbarici ad opera di quelle stesse popolazioni germaniche che avevano determinato quel drammatico crollo, avviando un complesso processo di convivenza, prima, e di fusione, poi, tra genti profondamente diverse per costumi e tradizioni, in alcuni casi abbastanza scioltamente, in altri con maggiori contrasti e resistenze.

 

In questo contesto è opinione comune che, mentre l’amministrazione civile di questi stati venne lasciata nelle mani di elementi delle élites indigene, ovviamente meglio attrezzate per gestirla in modo efficace, le attività militari restarono una prerogativa rigidamente riservata ai nuovi arrivati, sia perché le popolazioni “latine” erano fortemente sospettate di mantenere la loro fedeltà verso l’imperatore d’Oriente, sia per una maggiore propensione dei Germani verso la carriera delle armi.

 

In realtà c’è parecchio di vero in questa opinione: la disaffezione degli indigeni per la carriera delle armi era un fenomeno di lunga data, che può farsi risalire già all’inizio dell’epoca imperiale. Le legioni, formate sino a allora quasi esclusivamente da Italici, si erano trovate di fronte a una sempre più grave carenza di nuove reclute e si erano quindi aperte all’arruolamento di coscritti provenienti prima dalle province a più alta latinizzazione, poi da quelle più periferiche, infine da quelle stesse popolazioni nordiche che stavano mettendo seriamente a rischio la tenuta dell’Impero, e che infine ne avrebbero causato la caduta.

 

Del resto, quasi tutti gli ultimi magistri militum più rilevanti furono di derivazione barbarica: Stilicone era un vandalo, Ricimero un goto-suebo, e alcuni affermano che persino Ezio, “l’ultimo dei Romani”, fosse per parte di padre di origine gota o scita (qualsiasi popolo transdanubiano si volesse indicare con tale termine).

 

Tuttavia diversi indizi inducono a ritenere che una tale divisione sia troppo schematica e soprattutto che essa non fosse ugualmente valida in tutti i regni romano-barbarici, variando a seconda della situazione locale e della presenza più o meno incombente del pericolo di una restaurazione imperiale.

 

Certamente nel regno vandalo dell’Africa, dove i contrasti religiosi tra i dominatori ariani e gli indigeni niceni spesso portarono a vere e proprie persecuzioni contro questi ultimi, e dove restava costante la minaccia di una riscossa dell’imperatore d’Oriente (minaccia poi divenuta realtà con la spedizione di Belisario nel 533-534), non c’era assolutamente spazio per una partecipazione di “Romani” alle attività belliche.

 

L’Italia denotava problemi simili, e forse anche peggiori, essendo il richiamo di Roma troppo forte per i desideri di restaurazione del potere imperiale da parte dei sovrani di Costantinopoli, eppure, almeno durante il dominio di Odoacre (476-493), sembra che il contributo della popolazione locale alle attività militari non fosse venuto del tutto meno: secondo Paolo Diacono (Historia Langobardorum, I, 19) Odoacre utilizzò nella guerra del 487 contro i Rugi del Norico, oltre a contingenti barbarici, anche truppe italiche, e il suo comes domesticorum (capo delle guardie del corpo) era il “romano” Pierio, che morì combattendo per il proprio sovrano nella battaglia dell’Adda (11 agosto 490) contro l’ostrogoto Teodorico.

 

Solo sotto il regno di quest’ultimo l’esclusione degli Italici dall’esercito sembra affermarsi definitivamente, e un ulteriore divario si verrà a creare con la calata nella penisola dei Longobardi, che estrometteranno gli indigeni da tutti i centri di potere, inclusi quelli civili. Nelle province più occidentali dell’antico impero, d’altro canto, una così rigida esclusione della popolazione “romana” dalla vita militare appare del tutto assente, sin dal primo sorgere dei nuovi regni.

 

Il piccolo regno dei Burgundi fu troppo periferico e dalla durata troppo breve per poter fornire fonti abbastanza importanti sul modus vivendi instaurato con le comunità indigene, ma presso quello dei Visigoti è possibile rilevare un quadro di cooperazione tra essi e i loro sudditi, soprattutto gli Ispano-romani.

 

Già nel corso del regno di Eurico (466-484) tra i comandanti delle sue truppe compaiono un Vittorio, che nel 470 condusse operazioni in Aquitanica Prima (PLRE, 2, pp. 1162-1163), e un Vincenzo, che nel 473 portò a termine la conquista della Tarraconense e tentò quindi l’invasione dell’Italia, venendo però ucciso dai goti Alla e Sindila, probabilmente invidiosi proprio per il fatto che il comando delle truppe fosse stato affidato a un “romano” (Chronica Gallica del 511, n. 652-653).

 

Un altro ispano-romano, Claudio, fu dux di Lusitania e nel 589 sconfisse gli invasori Franchi presso Carcassonne, uccidendone 5000 e catturandone 200 (Isidoro di Siviglia, Storia dei Goti, 54; Gregorio di Tours, Storia dei Franchi, IX, 31; Giovanni di Biclar, Chronica).

 

Ma l’episodio più clamoroso che vide come protagonista un autoctono nel regno visigoto avvenne molto più in là nel tempo, e delle sue vicende parla diffusamente Giuliano di Toledo nel suo Historia Wambae Regis. Alla fine del 672 il duca ispano-romano Flavio Paolo fu posto dal nuovo sovrano Vamba alla guida dell’esercito incaricato di mettere fine alla rivolta della Settimania, ma una volta sul posto i suoi stessi soldati lo proclamarono re e anche gli insorti si unirono a lui. Paolo ottenne l’appoggio dei Franchi e degli Ebrei locali (pare che addirittura si convertisse egli stesso alla religione giudaica) e estese il suo controllo alla Tarraconense, stringendo alleanza anche con i Vasconi. Tuttavia Vamba, dopo aver respinto questi ultimi, riconquistò rapidamente Tarragona, Barcellona e Narbona. Paolo si asserragliò nell’arena di Nimes, ma il 3 settembre 673 dovette arrendersi e fu tradotto a Toledo, e in seguito fu giustiziato o confinato in un monastero.

 

Ma è più a nord, nella Gallia settentrionale, che è possibile trovare le maggiori conferme a una completa ammissione di elementi locali anche alle massime cariche militari, e, in effetti, diversi fattori possono spiegare questo fenomeno.

 

Intanto, e si tratta forse del motivo più importante, bisogna considerare il fatto che i Franchi, che rimasero pagani sino al 496, furono gli unici tra le popolazioni germaniche a abbracciare il cristianesimo niceno, e non l’eresia ariana. La comunanza religiosa tra essi e i Gallo-romani costituì senz’altro un elemento fondamentale per la loro completa e rapida integrazione e per una più stretta e leale collaborazione tra le due comunità. Inoltre i Galli avevano continuato a servire nell’esercito imperiale in buon numero anche in età tarda, costituendo una parte considerevole degli eserciti di Costantino I e di Giuliano; questo sta a dimostrare che la loro natura bellicosa non era stata molto modificata dall’avanzare della civilizzazione, forse anche perché la loro terra continuava a essere una zona di confine, particolarmente esposta agli attacchi delle popolazioni esterne.

 

Questa tenace resistenza, negli ultimi anni di agonia dell’impero e anche dopo la deposizione di Romolo Augustolo nel 476, è evidenziata dalla costituzione nella parte settentrionale della provincia Lugdunense di un potentato autonomo, retto prima dal magister militum per Gallias Egidio, poi da suo figlio Siagrio, che le tribù germaniche denominavano rex Romanorum. Costui continuò a resistere contro gli invasori sino al 486, quando fu sconfitto a Soissons dal re dei Franchi Clodoveo, che successivamente, fattoselo consegnare dai Visigoti, presso i quali aveva cercato rifugio, lo mise a morte.

 

È da ricordare inoltre la disperata difesa condotta dagli abitanti di Augustonemetum (Clermont-Ferrand) contro gli assalti dei Visigoti, che riuscirono a prendere definitivo possesso della città solo nel 475, e unicamente per un accordo tra re Eurico e l’imperatore Giulio Nepote, concluso alle spalle degli ancora invitti alverni, condotti da Ecdicio Avito. Questi ultimi, oltretutto, non abbandonarono l’esercizio delle armi dopo questa annessione, e infatti ebbero modo di distinguersi, sotto la guida di Apollinare, nipote di Ecdicio, nel corso della sfortunata battaglia di Vouillé (507), nella quale il re goto Alarico II fu sconfitto e ucciso dai Franchi.

 

Infine, stando alle parole di Procopio di Cesarea, diverse unità del vecchio esercito romano in Gallia erano passate al servizio di Clodoveo mantenendo nomi, insegne e equipaggiamento propri (De Bello Gotico, I, 12), e ai sovrani merovingi non mancarono ulteriori reclute indigene, desiderose di accumulare bottino nel corso delle campagne franche contro le popolazioni limitrofe.

 

Una chiara dimostrazione di quanto fosse del tutto possibile per un gallo-romano ascendere alle massime cariche militari ci viene chiaramente dalla figura di Ennio Mummolo, le cui vicende sono diffusamente narrate da Gregorio di Tours nella sua Historia Francorum.

 

Figlio del conte di Auxerre Peonio, nel 561 egli venne inviato dal padre a Gontrano, appena asceso al trono di Burgundia, con dei regali per assicurarsi la conferma della sua carica, ma Mummolo, con una mancanza di scrupoli che sembra essergli stata peculiare, sfruttò l’occasione per ottenerla per sé (IV, 42). Ebbe modo di mettersi in luce già nel 568, quando espulse da Tours Clodoveo, figlio del re di Soissons Chilperico, al momento rivale di Gontrano, nel corso delle agitate e confuse lotte portate avanti dai vari sovrani merovingi per il predominio nelle Gallie (IV, 45) .

 

L’anno seguente Gontrano lo nominò patrizio di Provenza, carica tradizionalmente affidata sempre a Gallo-romani: nel 565 vi era preposto Celso, che, in reazione a un’irruzione di truppe del re di Metz Sigeberto, le aveva affrontate e sconfitte presso Avignone e aveva ripreso Arles, che era stata occupata. Mummolo ebbe l’incarico di sostituire Amato, che proprio quell’anno era morto combattendo contro le bande di Longobardi che avevano valicato le Alpi per saccheggiare il territorio franco.

 

Quando nel 571 i Longobardi, incoraggiati dal loro precedente successo e dal grande bottino che ne avevano ricavato, tornarono a invadere la Provenza, Mummolo prese il comando di un esercito di Burgundi e, dopo aver attraversato il fitto di una foresta, piombò inaspettato sul campo dei nemici, in una località chiamata Mustius-Calmes, uccidendone o catturandone un gran numero. Attaccò poi presso Estoublon una grossa banda di Sassoni, che si era unita ai Longobardi nella loro scorreria, e sgominò anche questa con gravi perdite. I superstiti ottennero di andarsene senza ulteriori danni dopo aver restituito bottino e prigionieri e aver anche elargito doni al vincitore; giurarono anche che sarebbero ritornati con le loro famiglie per mettersi al servizio dei re franchi. In effetti tornarono poco dopo per porsi agli ordini di Sigeberto, ma lungo il loro cammino saccheggiarono i campi coltivati per sfamarsi, cosicché Mummolo li fermò prima del passaggio del Rodano, confine con il regno di Metz, e non li lasciò passare prima che avessero risarcito i danni compiuti (IV, 42).

 

Nel 574 i Longobardi tornarono a minacciare la Provenza con un triplice attacco, rispettivamente verso Avignone, Valence e Grenoble, che fu stretta d’assedio. Mummolo si diresse in soccorso di quest’ultima e riuscì a respingere gli invasori, ferendo anche il loro capo, il duca Rodan. I superstiti raggiunsero la colonna impegnata nell’avanzata su Valence e con questa si ritirarono a Embrun, ma furono ugualmente respinti dai Franchi oltre le Alpi. Anche l’ultimo contingente longobardo fuggì allora per i valichi in pieno inverno, subendo pesantissime perdite (IV, 44). Un reparto invasore minore, che aveva saccheggiato l’abbazia di Saint-Maurice d’Agaune, fu intercettato e sbaragliato da Mummolo presso Bex.

 

Ormai ritenuto uno dei massimi strateghi del tempo, il conte di Auxerre tornò a cimentarsi nelle lotte intestine tra i vari re merovingi: nel 576 fu inviato da Gontrano in aiuto di Sigeberto, attaccato dal re di Soissons Chilperico in Aquitania: lì soccorse le città di Tours e Poitiers e sconfisse nel Limosino il comandante in capo delle truppe di Chilperico, Desiderio (un altro gallo-romano) (V, 13).

 

Nel 581 i rapporti tra il re di Borgogna e il potente patrizio di Provenza si guastarono per ignoti motivi, e Mummolo si ritirò a Avignone, sotto la protezione di Childeberto II, successore di Sigeberto (VI, 1). L’anno successivo si unì al conte Gontrano Bosone in una cospirazione mirante a porre sul trono di Aquitania Gundovaldo, presunto figlio del re di tutti i Franchi Clotario I (558-561); costui arrivò effettivamente a Marsiglia, proveniente da Bisanzio, con un grosso tesoro 8         (VI, 24), ma a questo punto Bosone tradì gli altri congiurati e, dopo essersi impadronito dei beni del pretendente, svelò la macchinazione a re Gontrano. Mummolo riuscì a nascondere Gundovaldo su un’isola ignota (probabilmente una delle Lerins o delle Hyeres) e resistette a un assedio dell’ex complice a Avignone finché non venne soccorso dall’esercito di Childeberto, nel 583 (VI, 26).

 

La morte del re di Soissons e Parigi Chilperico, nel settembre del 584, sembrò aprire buone prospettive per le pretese di Gundovaldo: Mummolo lo richiamò a Avignone, quindi si accordò con il suo vecchio rivale Desiderio e in dicembre fece incoronare il suo protetto a Brive (VII, 10).

 

Tuttavia Gontrano e Childeberto, nominato dal primo suo erede, fecero causa comune contro l’usurpatore e dopo non molto tempo Desiderio cambiò partito, lasciando soli Gundovaldo e Mummolo. I due si ritirarono dietro la Garonna e si ritrovarono assediati a Comminges, mentre la moglie e i figli del gallo-romano venivano presi prigionieri. Facendo leva proprio su questo punto, con la minaccia di mettere a morte i suoi familiari, Leudegisilo, comandante delle forze di Gontrano, convinse infine nel marzo del 585 il patrizio a consegnare il sedicente figlio di Lotario, che fu subito messo a morte. A Mummolo era stata promessa l’immunità, ma Gontrano nutriva un odio feroce verso chi lo aveva tradito e così il gallo-romano, dopo essersi difeso disperatamente, venne anch’egli ucciso dai soldati (VII, 38-39).

 

In conclusione, è possibile affermare che l’esclusione dell’elemento latino dalle forze armate dei regni romano-barbarici non fu così assoluta come talvolta si ritiene: nelle regioni dove era ancora troppo forte il richiamo esercitato dall’Impero d’Oriente, naturale erede di quello occidentale, effettivamente tale estromissione ci fu, più per motivi che riguardavano i dubbi sulla lealtà degli indigeni che per una loro reale mancanza di virtù militari, ma in quelle più occidentali, dove i legami con Bisanzio erano molto più labili, non se ne trova traccia.

 

Presso i Visigoti e soprattutto presso i Franchi, dunque, le élites della popolazione locale avevano pienamente accesso anche a incarichi militari di una certa rilevanza, potendo trattare da pari a pari con i comandanti germanici e prendere parte con loro, di volta in volta come alleati o rivali, alle tantissime cospirazioni, ribellioni e lotte dinastiche peculiari del periodo alto medievale. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]