.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


.

ARTE


N. 95 - Novembre 2015 (CXXVI)

Trono, Altare e Politica
L’ENIGMA DEL DON CARLO

di Claudia Antonella Pastorino

 

Per Voltaire e Diderot «Cristo non scioglie, ma elude il grande mistero dell’essere». Non sempre la Chiesa del passato – e, con essa, un certo Papato – è stata fucina di santità dedita a pace e preghiere, bensì un campo di battaglia senza quartiere, alla stregua di uno Stato consolidato. Fin dal XIII secolo era dentro fino al collo nelle beghe politiche riguardanti nazioni, comuni, imperi; e papi, cardinali, vescovi stringevano o scioglievano a piacimento alleanze, organizzavano spedizioni militari, preparavano guerre, incoronavano e scomunicavano, trattavano accordi politici, economici, territoriali, si occupavano di politica internazionale come monarchi provetti, rincorrevano il loro sogno di potere e di egemonia assoluta sul governo del mondo (in base al principio di sovranità politica universale).

 

Nell’Alto Medioevo, l’insegnamento si svolgeva nelle scuole dei monasteri e in quelle presso le cattedrali; i docenti delle prime università sorte in Europa tra l’XI e il XIII secolo erano per la maggior parte appartenenti al clero, e le stesse città dipendevano da un signore feudale o da un vescovo. Oltre coloro che preparavano liquori e infusi d’erbe nella pace del convento, oltre i santi confessori e i santi martiri, c’era chi s’interessava di marchingegni come quella micidiale miscela di salnitro, carbonella e zolfo più nota come polvere da sparo, introdotta dal monaco Ruggero Bacone e poi perfezionata nella prima metà del 1200 in Inghilterra dal monaco tedesco Berthold Scwartz. Vescovi e abati di nobili origini esercitavano fortemente la loro influenza sullo sviluppo dell’architettura gotica in Europa, in particolar modo sul progetto di costruzione delle cattedrali: il loro potere sociale, culturale e anche economico li poneva nelle condizioni di seguire lavori così complessi. A due domenicani tedeschi, Heinrich Institoris e Jacob Sprenger, si deve l’idea di aver pubblicato, nel 1488, una sorta di manuale del perfetto inquisitore, Malleus Maleficarum, ideale per smascherare streghe, stregonerie, combutte col demonio e tutto quel che si voleva vedere in atteggiamenti anticonformistici o semplicemente controcorrente di liberi pensatori e libere pensatrici fuori dal coro.

 

Sfilze di precettori, di stanza nei palazzi signorili, e nugoli di parroci tiravano su, soprattutto nei piccoli centri di provincia, generazioni di fanciulli a suon di musica (canto, organo), lezioni di latino, servizi di chierichetto, e questo fino a buona parte della metà del secolo scorso, quando, grazie a una forma spesso artigiana ma di buon livello di praticantato di provincia, si sono formate le migliori generazioni di cantanti che mai teatro lirico abbia conosciuto fino ad oggi. Basterebbe sfogliare una qualsiasi biografia di un artista del passato per rendersene conto. Le voci venivano scoperte perlopiù così, nei cori delle chiese, e ancor prima con un sistema didattico-religioso del genere s’istruivano, senza neppure saperlo, i futuri compositori, ma di certo non mancavano le eccellenze e i capiscuola. Maestri del contrappunto furono il famoso bolognese padre Giovanni Battista Martini (che lo insegnò a Mozart) e i suoi discepoli padre Angelo Tesei e padre Stanislao Mattei, che questa cultura trasmisero al giovane Rossini.

 

Dal pulpito alla scena

 

Non è un segreto per nessuno che il parroco delle Roncole avviasse a leggere, contare, scrivere il piccolo Verdi, di soli otto anni, mentre il vecchio organista del villaggio, Pietro Baistrocchi, lo faceva esercitare sull’organo della chiesa e lo istruiva sui rudimenti del servizio musicale nelle funzioni religiose. Don Pietro Seletti, canonico della cattedrale e insegnante comunale, gli impartiva lezioni di grammatica italiana nel Ginnasio di Busseto; Carlo Cerotti e don Giacinto Volpini gli insegnavano umanità e retorica.

 

Tuttavia è arcinoto che, per il Peppino più famoso d’Italia, l’approccio con il mondo della tonaca non fu incoraggiante, col tempo peggiorato dal tradizionale atteggiamento emiliano storicamente avverso alla politica dello Stato Pontificio in quei territori. L’aneddoto in proposito circolante sui tempi dell’infanzia fa ancora testo, soprattutto per la suggestione del tema della maledizione presente nella drammaturgia verdiana (non solo in Rigoletto), quando il Maestro forse si ricordò del ruzzolone sui gradini dell’altare fattogli fare da don Giacomo Marzini, prete della Roncole, nell’accorgersi che il piccolo Giuseppe si era distratto nel servire messa. Pronta la reazione del ragazzino dalla risposta di fuoco: «Dio ‘t manda ‘na sajetta», cosa che avvenne puntualmente il 14 settembre 1828, quando un fulmine piombò sul santuario della Madonna dei Prati uccidendo il prete con altre cinque persone. Più tardi, come racconta la “spia” Emanuele Muzio in una lettera ad Antonio Barezzi del 29 dicembre 1844, arriverà a esprimere soddisfazione all’annuncio della morte di un nemico bussetano, per cui «Il signor Prevosto ha fatto bene a morire; così speriamo che le cose andranno meglio; lo ha detto anche il signor Maestro».

 

Confidente epistolare di Giuseppina Strapponi fu il canonico di Vidalenzo Giovanni Avanzi, il quale unirà in matrimonio Maria Verdi, pupilla di casa, e Alberto Carrara, nella cappella di Sant’Agata l’11 ottobre 1878. Prezioso rapporto, grazie al quale ci sono rimaste alcune tra le lettere più belle della signora Verdi, donna intelligente e spiritosa, nonché sprecata per i suoi tempi spesso ottusi. Comunque, volente o nolente, il giovane Verdi non poté sottrarsi al costume dell’epoca, contraddistinto dalla prassi di provincia legata alla banda e alla chiesa, quest’ultima futura ispiratrice, in musica, di preghiere particolarmente illuminate (come quella di Zaccaria dal Nabucco, solitamente comparata alla consorella rossiniana del Mosè), ma era logico che prima o poi superasse quell’esperienza monotematica consona al gusto del tempo e si lasciasse alle spalle la giovanile parentesi compositiva.

 

La scelta del Nabucodonosor, poi Nabucco, da parte del provinciale inurbato a Milano con le sue ambizioni, non è casuale come appare dall’aneddotica circolante sulla genesi di quest’opera, da sempre forse troppo ammantata di favolistica popolare, ma deriva da una moda del tempo indirizzata a soggetti di carattere biblico e più in generale ad ambienti orientaleggianti. Più che di religione, si trattava di argomenti religiosi cari anche alla de Staël (propensa per il medioevo cristiano e l’epoca delle crociate), a Byron o a Moore, cantori dell’Oriente pagano e cristiano, con estensione alla pittura (Nazareni, Pock, Servi, Molteni, Hayez). D’altro canto Andrea Maffei, Giulio Carcano, Temistocle Solera si rivelarono traduttori biblici, il drammaturgo toscano Giovan Battista Piccolini era autore di un dramma dal titolo Nabucco e lo stesso Vincenzo Monti aveva scritto una poesia sull’argomento, contesto culturale questo assai favorevole a una probabile scelta non casuale del soggetto da parte di Verdi. Un altro tema religioso gli venne suggerito da un dipinto dell’Hayez, “La sete patita dai primi crociati sotto Gerusalemme”, a sua volta ispirato a un celebre libro di Tommaso Grossi, “I Lombardi alla prima Crociata”: naturalmente il nuovo soggetto musicale sarà proprio questo. Sorvolando sulle tonache più famose della maturità, quelle ne La forza del destino di Padre Guardiano – l’irreprensibilità inamovibile del santo – e quella di Fra Melitone – il frate brontolone che tira a campare, antesignano di sir John Falstaff – non vi è dubbio che la rappresentazione più riuscita del potere ecclesiastico al suo culmine, come istituzione e come personaggi, stia nel Don Carlo, l’opera dei contrasti e delle ossessioni, delle tetraggini umane e politiche, dell’assolutismo asfittico di Stato e Chiesa.

 

Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altar!

 

Con il Don Carlo si chiude l’ultimo sprazzo di cupezza verdiana – intesa nella sua massima perfezione – prima della luce di Aida al sole dei templi egizi, che apre un nuovo ciclo fino al Falstaff. Nato dall’originale di Friedrich Schiller Don Carlos, Infant von Spaniel, il Don Carlo Infante di Spagna venne pubblicato dall’editore Luigi Pirola nel 1842 e dedicato dal traduttore Andrea Maffei all’amico Tommaso Grossi, ma con Verdi diventò Don Carlos, testo di François-Joseph Méry e Camille Du Locle, rappresentato per la prima volta l’11 marzo 1867 all’Opéra di Parigi, in cinque atti. Nella capitale francese aveva iniziato a comporre ma, afflitto da un mal di gola, decise di far rientro a Sant’Agata dove, tra l’aprile e il maggio 1866, riuscì ad abbozzare il quarto atto. Purtroppo il clima politico si era surriscaldato sia in patria sia in Francia per l’ambiguo ruolo tenuto da Napoleone III nei confronti dell’Italia e dell’Austria, al che si aggiunse la terza guerra d’indipendenza assai sfortunata per noi. Tra irritazione e perplessità, Verdi preferì non muoversi prudentemente da Sant’Agata, preoccupandosi delle sorti dell’opera e lamentandosi che il suo Don Carlo si trovasse «in mezzo a fuoco e fiamme, e fra tante agitazioni o riuscirà meglio delle altre, o sarà una cosa orribile». Lui era sempre molto interessato alla storicità degli avvenimenti trattati, circostanze politiche comprese, e nessuna opera sua si prestò a un tale approfondimento meglio del Don Carlo, l’opera della grandezza politico-religiosa che colloca l’azione nel 1560, un anno dopo la pace di Cateau-Cambrésis tra Enrico II e Filippo II, evento che segnò la fine delle lunghe ostilità tra Francia e Spagna con il solito matrimonio pacificatore di scambio (di qui le terze nozze del monarca spagnolo con la figlia di Enrico, l’Elisabetta di Valois amata da Carlo).

 

Opera dunque assai specifica, dalla ritrattistica imperiale, dalla Spagna oscurata dalla cappa dell’Inquisizione, dalle libertà soppresse, dove tutto mostra l’affanno, i tratti di quel lungo arco di storia tra i più ingarbugliati d’Europa, e ce ne offre uno spaccato importante pressoché occupato dalla politica – assai meno dallo sfondo della vicenda amorosa di Carlo e Isabella – e dalla figura di Filippo II, che tanto interessò Verdi più di quanto abbia mai fatto con la voce di basso. Valga altrettanto, sia pure per il breve lasso di tempo di cui il personaggio dispone, per il Grande Inquisitore, una cariatide dalla forza tremenda di cui persino Filippo, pur detestandolo, ha bisogno per sostenersi, per alimentare il proprio potere assoluto in cerca di conferme, come se il placet del vecchio gli mettesse a posto trono e coscienza. Non a caso Massimo Mila definirà questa scena una «specie di Machiavelli in musica», un enigma, un conflitto non risolto.

 

Nell’atto quarto, dopo il famoso monologo del re “Ella giammai m’amò”, due poteri si scontrano, due figure immense nella loro monumentalità statica, mummificata. Due assolutismi, Chiesa e Impero, stringono un braccio di ferro che mai avrà fine. L’ingresso del frate, accompagnato da celli e bassi, fa venire i brividi, pur trattandosi di un vecchio di novant’anni, cieco per giunta, ma da lui si sprigiona tutta la forza disumana dell’Inquisizione, la superiorità che non ammette repliche. Il dialogo si svolge tra colpi di percussione e l’imperversare degli ottoni, l’orchestra è avvolta dalla gravità dei suoni che accompagnano come un sottofondo ossessivo tutta la scena, allungandosi talora in squilli lunghi e ripetuti, talora in lugubri fissità sonore. Si noti come la tensione delle voci sia portata allo stremo, come una corda tirata. I due bassi danno vita a uno scambio serrato di battute su cui il frate assume chiaramente una posizione soverchiante, s’incalzano con virulenza lanciandosi rombi di tuono fino al punto di spazientirsi e minacciarsi. Declamatoria, la musica assume una cupezza che coincide con l’oscurantismo politico e religioso di cui l’opera è pervasa. La malinconia che è nel re si riveste di muscoli, ma ricade poi in se stessa, nella perenne solitudine del monarca, mentre nell’Inquisitore c’è soltanto l’inflessibilità dell’aguzzino, senza nulla di umano. Il Vangelo è solo carta scritta, per non dire straccia: come Cristo è stato immolato dal Padre, è giusto fare lo stesso con Carlo e Rodrigo, vale a dire con chi si oppone alla ragion di Stato e al Sant’Uffizio. Si resta stupiti da quanta cura Verdi abbia messo nella figura dell’Inquisitore, lui che detestava i preti, di come lo faccia giganteggiare su un despota quale Filippo II, di quanta e quale musica, assieme alla vocalità senile e terribile, si formi il personaggio, su che piedistallo poggi in perfetta simmetria con quello su cui campeggia il re. Nei due monoliti si mescolano tutte le ossessioni possibili, le più deleterie, ma la musica non si scosta da questi banchi di ghiaccio, anzi li asseconda, li carica di suspance e dinamite sotto la sferza orchestrale cupissima dei tromboni, dei corni, dell’oficleide, dei timpani e degli archi gravi. Il vecchio, perentorio, quando esce di scena piantando in asso il re, è come se avesse pronunciato una sentenza per il solo fatto di essere stato convocato al suo cospetto. Alla richiesta del Sire se vi sarà fra loro ancora pace, sussurra un “forse” lasciato a mezz’aria, come se facesse pesare il doverci pensar su, del tipo: per ora me ne vado, sappi però che hai osato sfidarmi e non so se rientrerai nelle mie grazie.

 

Ma davvero “ il trono piegar dovrà sempre all’altar”? Al tempo di Filippo II le cose non stavano esattamente così. La Spagna, dominata dall’Inquisizione, era una monarchia cattolica, e immane compito di Filippo, per consolidare a livello internazionale il proprio impero, era quello di combattere dappertutto l’eresia, di farsi lui stesso braccio della Controriforma. Chiesa e Regno stavano nelle mani del sovrano, come dimostra lo stesso istituto dell’Inquisizione: nel Medioevo era da considerarsi prettamente religiosa e controllata dai vescovi, in Spagna però se ne servì in maniera assoluta la monarchia. Ricostituita infatti in Castiglia nel 1480 e poi estesa in tutto il regno, l’Inquisizione era sottoposta al sovrano, il quale nominava gli inquisitori, si appropriava dei beni sequestrati ai condannati e faceva sentire la sua voce tramite un Consiglio supremo appositamente istituito. Nessun ricorso al Papa, perché vietato. Gli inquisitori potevano dunque considerarsi dei dipendenti al servizio del monarca.

 

La verità della Storia e del linguaggio musicale

 

Nel Don Carlo, Verdi si occupa di politica per la prima volta in modo esplicito, in prima persona, attivamente partecipe, ponendo in risalto i contrasti fra potere e umana debolezza, fra le delusioni private del monarca e la ferocia dell’oppressione esercitata sulle popolazioni ribelli. Da una parte l’indifferenza d’Isabella, la rivolta delle Fiandre, i dissapori con il figlio Carlo, dall’altra la mano spietata dell’assolutismo imperiale che Filippo II, assieme al controllo esercitato dall’Inquisizione, credo abbia incarnato più d’ogni altro non solo ai suoi tempi. Non per niente tutta l’opera, fondata sugli aspri contrasti con Carlo sostenitore della causa fiamminga ma anche innamorato della matrigna, si snoda sull’affare politico delle Fiandre in rivolta, nella seconda metà del Cinquecento, contro la corona di Spagna: una grana che Filippo II, succeduto al padre Carlo d’Asburgo – più noto come Carlo V – ereditò insieme ai domini italiani della Lombardia, Regno di Napoli, Sicilia, Sardegna, parte della Toscana con Talamone, Orbetello, Porto Ercole, Porto Santo Stefano, Monte Argentario (territorio denominato Stato dei Presìdi) e le ricchissime colonie americane. Il perché il problema della ribellione dei Paesi Bassi spagnoli e, con essi, le Fiandre e l’Artois (Nord della Francia) costituisse uno dei problemi più spinosi del regno, dipendeva da un fatto di necessità di traffici economici per quelle terre: era la floridità stessa di quei paesi a richiedere la libertà indispensabile ai loro commerci. Da lì, la rivolta per riprendersi i propri spazi.

 

Intorno a questa causa si esprimono le tensioni interne all’opera, con la sfida a mano armata di Carlo al padre che lascia tutti trasecolati (“L’acciar! Innanzi al Re! L’Infante è fuor di sé”), la scena dei deputati fiamminghi e dell’auto-da-fè, il sacrificio di Rodrigo, l’unico “cor leale” di cui il re si fidi in una corte priva di scrupoli, dove l’amicizia vera è un sogno proibito anche per il potere che si possiede. Filippo la brama a tal punto da mostrare benevolenza al saggio marchese di Posa, lo tranquillizza dicendogli di non aver sentito quando l’altro lo redarguisce sull’oppressione del suo governo e il genere di pace concessa alle Fiandre: “Orrenda, orrenda pace! La pace è dei sepolcri! […] Questa è la pace che voi date al mondo?”. Un bel ragionare di politica, non di passioni. Per lo “strano sognator” arriva un insolito avvertimento regale, dettato dal debole che Filippo nutre per quest’uomo degno di rispetto e che merita le proprie confidenze di monarca, sposo, genitore: guardarsi dal Grande Inquisitore, perché lui non capirà. Appare fuori da ogni procedere verdiano, anche quello riservato ai vecchi e ai saggi delle opere precedenti, questo duetto dai toni nobili, in cui lo stato di vessazione patito dalle Fiandre viene descritto da Rodrigo nella sua crudezza e il re, come un qualunque mortale, spiega le sue ragioni, vuol farsi capire, accetta i rimproveri dell’uomo giusto, la sua disapprovazione, finanche la sua condanna.

 

Come con l’Inquisitore, il confronto con Posa regge sulla politica, argomento su cui non è facile creare melodia, musica ad effetto, segno evidente che Verdi aveva ancora una volta cambiato pagina, dimostrando di sapersi rinnovare ad ogni opera sua, cercando profondità nelle situazioni, nei caratteri, nelle vocalità, senza nulla di scontato. La chiusura dell’atto terzo con il lamento in disparte dei deputati fiamminghi, il coro di frati, di popolo – inneggianti al re e alla punizione degli eretici al rogo – è connotata dalla cerimonia dell’auto-da-fè, termine sibillino che a primo acchito pare persino suggestivo. Invece sotto questa voce si nasconde un significato che nulla ha della festa, come dal suo punto di vista la definisce Filippo impaziente di recarvisi dopo aver nominato duca il marchese di Posa (“Marchese, Duca siete. Andiamo ora alla Festa!”), l’unico ad aver avuto il coraggio di disarmare Carlo, ribelle al padre e fedele alla causa delle Fiandre.

 

L’auto-da-fè – il primo avuto luogo a Siviglia nel 1481, l’ultimo in Messico nel 1815 – era, alla lettera, “atto della fede”, cioè una sentenza di fede che si emetteva a processo concluso all’indirizzo degli eretici, i quali, condotti in chiesa e collocati su di un palco, ricevevano l’ammonizione dell’Inquisitore con un sermone. E fin qui nulla di così preoccupante. I guai però cominciavano se, anziché abiurare i loro errori assicurandosi l’assoluzione dalla scomunica e la riconciliazione con la Chiesa, i malcapitati persistevano senza rinnegare, così da essere puniti con pene molto gravi, spesso con la morte. Solo in seguito il termine valse a indicare il rogo per gli eretici.

 

Il carattere di Filippo II «cupo, intollerante, testardo, pedante e lento nel disbrigo degli affari», come lo definisce lo storico Rosario Villari, coincide con il ritratto che abbiamo imparato a conoscere dall’opera verdiana e che il compositore stesso aveva ben definito, rendendo addirittura protagonista il personaggio rispetto allo stesso Carlo. La grande scena che apre l’atto quarto, con il lamento del violoncello a fare da introduzione, immette subito nella desolante solitudine di Filippo, che medita fino all’alba sul suo fallimento di consorte e, semplicemente, di uomo destinato come tutti alla morte: “Ella giammai m’amò” è anche la cupa considerazione che prima o poi attraversa i potenti della terra di ieri e di oggi, e che in Verdi diventa angoscia ancestrale prima che individuale. Chi invece ritenesse i contrasti tra padre e figlio una trovata di Schiller o dei librettisti verdiani, può ricredersi perché la storia ne attesta l’esistenza con tutte le problematiche annesse. Don Carlos, principe delle Asturie, primogenito di Filippo II e di Maria di Portogallo, era nato a Valladolid nel 1545 e si scontrò più volte con il padre a causa delle dissipazioni e del carattere violento che purtroppo da figlio aveva, caratteristiche che, come noto, nei canoni della letteratura romantica fecero presto a trasformarsi in doti eroiche, nel coraggio del ribelle contro l’ordine costituito che soffoca libertà, voglia di andare controcorrente, di stare dalla parte dei più deboli: proprio come Carlo sul finire atto terzo, quando, accompagnando la rappresentanza fiamminga, invano cerca di convincere il padre a lasciarlo partire per le Fiandre e poi reagisce snudando la spada. Non aveva che ventitré anni quando, fatto segregare in una torre da Filippo – messo alle strette dalle circostanze – vi morì nel giro di pochi mesi, nel 1568, a Madrid. In Verdi i suoi vaneggiamenti a intermittenza, il suo fare trasognato, le sue stranezze, emergono fin dal primo duetto con Isabella, “Io vengo a domandar grazia”, in cui la personalità dell’Infante alterna trasalimenti e scatti nervosi a ripiegamenti di lirismo amoroso davvero unici.

 

La matrigna era Elisabetta di Valois, figlia di Enrico II di Francia, sposa in terze nozze a Filippo II dopo il di lui matrimonio – voluto dal padre Carlo V – con la regina d’Inghilterra Maria la Cattolica, unica figlia sopravvissuta di Enrico VIII e Caterina d’Aragona. Maria, per inciso, era detta la Sanguinaria per il non trascurabile dettaglio di aver dato il via ad alcune centinaia di esecuzioni capitali per eresia, fatti che segnarono il suo quinquennio (1553-58) sul trono inglese. Della passione di Carlo per la giovane matrigna ci dà conferma ancora una volta la storia, così come di certo sappiamo che Filippo II, dopo Elisabetta, passò a nuove nozze con Anna d’Austria, dunque da un regno all’altro per consolidamenti di dinastie e territori, secondo l’usanza delle corone europee.

 

Molto tempo dovette purtroppo trascorrere prima che i Paesi Bassi potessero rendersi liberi. Fiumi di sangue furono versati per lo scoppio delle rivolte religiose, per lo scatenarsi dei calvinisti, per la terribile repressione del Duca d’Alba, inviato nei Paesi Bassi da Filippo II nel 1567 a soffocare la rivolta che portò a migliaia di eretici al rogo, a ottomila condanne a morte, a una politica fiscale obbrobriosa, a massacri e saccheggi di città. Solo dopo una catena di guerre e morti senza fine, l’Olanda, nel 1648, si liberò finalmente della Spagna, ed era giusto che anche nell’opera di Verdi prevalesse la drammaticità di questo aspetto politico ben compreso e musicalmente attuato più che le passioni stesse, limitate tutto sommato a Don Carlo preso della matrigna, o ad Isabella, che però sa controllarsi e non fa poi nulla di così speciale per tutta l’opera, se si eccettua la grandiosa “Tu che le vanità” all’apertura atto quinto (atto spesso incorporato al quarto, di cui costituisce la coda finale). Ne basterebbe la breve introduzione orchestrale a farne già un pezzo d’arte.

 

Il riscatto della Principessa d’Eboli, amante del re e innamorata non corrisposta di Carlo, varrebbe da solo quanto lo spazio generosamente dedicato da Verdi ai mezzosoprani dei lavori precedenti e, nel caso di Amneris, successivi, perché “O don fatale” (Parte prima atto quarto) costituisce una novità di stile tutta giocata in ampiezza, dove arioso e impeto accelerato hanno un ruolo diverso rispetto al passato. Perfino il carattere brioso della Canzone del Velo (Parte seconda atto secondo) passa onestamente in secondo piano. Eboli canta come una protagonista, primeggia alla stregua di una regina in un’unica scena e questa imponenza vocale ha il suo incipit nell’ “Ahimè! Più non vedrò, no, più mai la Regina!”, frase scultorea cui scattano di seguito gli ottoni e la famosa apostrofe alla bellezza – la propria – che non le ha giovato.

 

Se abbiamo volutamente tralasciato la figura di Rodrigo, è solo perché in questo generale tratteggio si è preferito volgere l’attenzione agli aspetti che più s’interessava approfondire: non un’analisi dell’opera e dei personaggi, ma alcune considerazioni sui rapporti tra potere politico e potere religioso evidenti nelle intenzioni di Verdi, solito nel mettere in pratica ciò che aveva ben chiaro in mente. Posa è il saggio, il buono, il martire, la sua fine firmata dall’Inquisizione è un’altra maestosa pagina di amore amicale (come narra il celebre tema che lo lega a Carlo, rivelatosi già inizialmente in “Dio che nell’alma infondere”), il trionfo delle virtù umane e politiche, ma sono altri personaggi e altri momenti a segnare la inconsueta immensità di quest’opera, la più cupa e la più insondabile di tutte, quella dove più si scava e più si sprofonda. Il Don Carlo è opera caravaggesca, fatta di abissi scurissimi e di cieli aperti all’immenso. Mai finirà di stupire, mai di essere esaminata fino in fondo.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.