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N. 21 - Febbraio 2007

MOVIMENTO PER L'EMIGRAZIONE IN UNIONE SOVIETICA

Popoli deportati e minoranze etniche

di Stefano De Luca

 

Tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, si sviluppò in Unione Sovietica un forte movimento per l’emigrazione. Dal 1971 al 1981 partirono circa 400.000 persone: questo fu “uno degli avvenimenti più impensabili nella storia post-rivoluzionaria sovietica”. Tedeschi, evangelico-battisti, pentecostali ed ebrei furono i focolai principali di questo movimento.

 

La procedura per la richiesta di emigrazione era complessa. I richiedenti dovevano presentare inviti da parenti stretti risiedenti all’estero, assieme ad altra documentazione, pena la certezza di non ottenere una risposta affermativa. Fino al 1971, l’autorizzazione necessaria sarebbe stata concessa in modo sporadico, spingendo molti individui a tentare di espatriare clandestinamente: in tal caso, se il tentativo andava a vuoto, per il soggetto che aveva tentato di espatriare clandestinamente si prospettavano conseguenze penali.

 

Ai sensi dell’art. 83 del CP della RSFSR, “l’espatrio clandestino e l’entrata illegale in URSS […] sono puniti con la privazione della libertà da uno a tre anni”. Anche chi agiva nella legalità, rischiava comunque la galera. Amnesty International rileva che “in molti casi ebrei, tedeschi e credenti, come anche altri individui, sono stati incarcerati per aver chiesto con insistenza l’autorizzazione di lasciare il Paese”.

 

I tedeschi sovietici, che come i tatari di Crimea erano un popolo deportato, diedero vita al movimento per l’emigrazione. All’epoca di Pietro il Grande e, con maggiore intensità, di Caterina II, il governo russo incoraggiò l’insediamento di colonie tedesche. Dal 1963 al 1772 si trasferirono, nella zona del Volga, circa ottomila famiglie tedesche. Una seconda ondata di tedeschi, si insediò nell’Ucraina meridionale e nel Caucaso. La loro identità linguistica e culturale non venne messa in discussione sino ai tempi di Stalin.

 

Nel 1941, accusati di “spionaggio ed eversione”, il Soviet supremo decretò la loro deportazione in Siberia, nell’Altaj, nel Kazakistan ed in altre repubbliche dell’Asia Centrale. Riabilitati ufficialmente nel 1964, gli fu comunque impedito di riorganizzarsi come nazionalità. Alla fine degli anni Sessanta, cominciarono a richiedere il permesso di emigrare nella Repubblica Federale Tedesca. Correlate, anche per affinità religiose, alle istanze dei tedeschi, le comunità di evangelico-battisti e pentecostali chiesero a gran voce negli stessi anni il diritto di emigrare. Tra il 1971 ed il 1981, circa 62.000 tedeschi riuscirono ad ottenere l’espatrio nella Repubblica Federale Tedesca, aiutati in tal senso dal governo di Bonn.

 

Il gruppo principale del movimento per l’emigrazione dall’Unione Sovietica fu quello costituito dagli ebrei. Vi sono due tipi principali di analisi del movimento migratorio ebraico: l’analisi ‘estrinseca’ e quella ‘intrinseca’. In base a quella estrinseca le forze principali che influenzano l’emigrazione ebraica sono collocate al di fuori dell’URSS. L’approccio intrinseco rileva invece come l’emigrazione ebraica sia dovuta a processi sociali che si svolgono all’interno dell’URSS. Secondo Zaslavskij, “questi due modelli esplicativi non si escludono affatto a vicenda, sia dal punto di vista logico che empirico”.

 

La principale motivazione estrinseca, è lo sviluppo del sionismo tra gli ebrei sovietici in seguito alla vittoria di Israele nella ‘guerra dei sei giorni’ del 1967, che risvegliò in molti di loro una nuova coscienza nazionale, giustificata anche dall’atteggiamento violentemente anti-israeliano del Cremlino durante tale guerra. Dal 1968, favorita dalla pressione del governo israeliano, di quello americano e l’opinione pubblica occidentale sul governo sovietico, cominciò la richiesta di numerosi ebrei di emigrare in Israele. A seguito della ‘guerra dei sei giorni’, all’interno dell’URSS (motivazione intrinseca quindi) prese inizio una violenta campagna anti-israeliana, che finì per colpire gli ebrei sovietici, i quali godevano di relativa tranquillità dalla morte di Stalin. Si comprende come le motivazioni estrinseche e quelle intrinseche fossero in sostanza le due facce della stessa medaglia.

 

I dirigenti sovietici avevano visto sgretolarsi la loro politica medio-orientale sotto i colpi israeliani, che non raggiunsero Il Cairo solo per un tempestivo ammonimento dell’ONU. L’11 novembre del 1967, a seguito di un incontro tra Brežnev ed il vice-presidente egiziano Ali Sabry, il Cc del PCUS emise un comunicato dal tono minaccioso: “l’Unione Sovietica ritiene che la sicurezza in Medio Oriente non possa essere ripristinata senza che siano pienamente liquidate le conseguenze dell’aggressione israeliana, prima che vengano liberati i territori arabi occupati”. Si trattava di un fuoco di paglia: il prestigio sovietico in Medio Oriente era ormai fortemente compromesso, ed un intervento diretto era pura propaganda.

 

Di estrema importanza fu il ‘caso’ dei 12 dirottatori ebrei che tentarono di fuggire dall’URSS. Guidati da Mark Dimšic ed Edvard Kuznecov, nel 1970 tentarono di dirottare dall’aeroporto di Leningrado un Antonov (AN-2) dalle linee aeree interne, per condurlo in Svezia, tappa sulla via di Israele. Zaslavskij e Schroeter sostengono che sia “ampiamente dimostrato che il KGB stava osservando le attività dei presunti dirottatori, e cercò persino di agevolare l’operazione”. Questo perché il KGB intendeva far compiere agli attivisti del movimento ebraico un atto altamente illegale, anche sul piano del diritto internazionale, tale da screditarne il movimento in sé stesso. Probabilmente i dirottatori sapevano delle trame del KGB, ma decisero di non tirarsi indietro, per rendere nota all’opinione pubblica internazionale l’esistenza del problema dell’emigrazione ebraica dall’URSS.

 

Tratti in arresto mentre erano in procinto di dare vita al dirottamento, i 12 vennero trovati in possesso di una pistola e di alcuni bastoni. Processati a Leningrado dal 15 al 24 dicembre del 1970 in base agli art. 64 (tradimento della Patria), 15 (progettazione di un crimine) e 93/1 (sequestro) del CP della RSFSR, ai dirottatori vennero comminate pene estremamente severe. Dymšic e Kuznecov vennero condannati alla pena di morte ed alla confisca dei beni. Gli altri, subirono pene che andavano dai 15 anni di lager a regime duro inflitti a Mendelevič e Fedorov, ai 4 inflitti a Bodnju. Il 31 dicembre, sulla scia delle proteste internazionali contro l’estrema severità adottata nei confronti di Dymšic e Kuznecov, la pena di morte venne loro commutata in 15 anni di lager a regime duro. Nel maggio del 1971, vennero processati, sempre a Leningrado, nove complici dei dirottatori, che subirono condanne variabili dai 10 anni di lager inflitti a Gilja Butman, ad 1 anno inflitto a Štil’bans.

 

Il sacrificio dei dirottatori venne premiato dal fatto che il mondo si accorse dell’esistenza del movimento ebraico di emigrazione dall’URSS. Gli attivisti di questo movimento usavano anche delle tattiche e delle forme di protesta nuove per la realtà sovietica, come i sit-in e gli scioperi della fame. Il movimento per l’emigrazione ebraica possedeva anche alcune riviste del samizdat. La rivista Ischod (Esodo) veniva pubblicata a Mosca, e segnalava le persecuzioni contro gli ebrei che chiedevano il visto per emigrare, così come dava spazio alle lettere ed agli appelli degli stessi. Di analogo contenuto i tre numeri della rivista Vestnik ischoda (Il messaggero dell’esodo) usciti tra il 1971 ed 1972. Più tarda (1975) la pubblicazione di Ebrei in URSS, che si soffermava maggiormente sull’analisi della cultura e della storia degli ebrei sovietici, ed in particolare sulla loro coscienza nazionale.

 

Dal 1971, l’Unione Sovietica cominciò ad aprire agli ebrei le frontiere che li separavano da Israele e dall’Occidente. Dalla metà degli anni Settanta si riscontra un’inversione di tendenza: il flusso migratorio ebraico prese sempre più la direzione verso gli Stati Uniti, e sempre meno verso Israele. Questo fu dovuto a due fattori: la minore influenza del sionismo tra gli ebrei sovietici; la presa di posizione degli Stati Uniti a favore della loro emigrazione.

Dopo l’incontro del maggio 1972 tra Nixon e Brežnev a Mosca, che apriva la strada ad una nuova fase nelle relazioni tra USA ed URSS, principalmente nel campo commerciale e del disarmo, l’URSS non riuscì ad ottenere la clausola di nazione più favorita. Nel 1974 infatti, un emendamento dei senatori Jackson e Vanik alla legge 10710, riguardante le strategie commerciali statunitensi, venne approvato dal Senato: l’emendamento, stabiliva che la clausola di nazione più favorita non poteva essere concessa a quei Paesi dai quali non era possibile emigrare liberamente.

 

Valerij Čalidze, fondatore del «Comitato per i diritti dell’uomo» in Unione Sovietica, nel 1972 si recò negli Stati Uniti per un ciclo di conferenze, e fu privato della cittadinanza sovietica. Assieme a 90 ebrei, Čalidze scrisse una lettera al Congresso, firmata poi anche da Sacharov, che chiedeva in sostanza quanto avrebbe poi sancito l’emendamento Jackson-Vanik. Il gesto di Čalidze spezzava, secondo Solženicyn, il fronte del dissenso sovietico: gli ebrei, “come sempre negli interessi propri […] estranei dal Paese”, non presero “in considerazione la situazione complessiva dell’Unione Sovietica”. Tale lettera fece si che il Congresso lasciasse cadere nel vuoto la proposta del senatore Mills, che voleva ancorare la clausola di nazione più favorita al rispetto della Dichiarazione dei diritti dell’uomo nel suo complesso. “Se noi chiediamo unicamente l’emigrazione”, rilevava Solženicyn, “perché il Senato americano dovrebbe occuparsi di ottenere di più?”.

 

Non aveva tutti i torti, ma la potente lobby ebraica statunitense riuscì ad incanalare le trattative commerciali degli USA nella direzione a loro più congeniale. In che rapporti allora si trovava il movimento del dissenso sovietico, con la volontà di emigrazione ebraica? “Il diffuso slogan ebraico «senza di me» lo dimostra in maniera abbastanza chiara”. Il movimento ebraico, rileva Victor Zaslavskij, “si è rivelato un compagno di viaggio temporaneo del movimento di dissidenza”.

 

Riferimenti bibliografici

 

Victor Zaslavskij, Fuga dall’impero. L’emigrazione ebraica e la politica delle nazionalità in Unione Sovietica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1985

Amnesty International, Unione Sovietica. Detenzione per motivi d’opinione, S. Daniele del Friuli, Studio Tesi, 1980

Tribunale Sacharov, Le testimonianze sulla violazione dei diritti umani dell’uomo nell’Unione SovieticaGli ebrei nell’Europa Orientale, Roma, STEC, 1968

Victor Zaslavskij, Il consenso organizzato. La società sovietica negli anni di Brežnev, Bologna, Il Mulino, 1981

 



 

 

 

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