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N. 59 - Novembre 2012 (XC)

LIBERISMO IERI E OGGI
Si può "elogiare" la precarietà?

di Giovanna D’Arbitrio

 

L’anno scorso, il 21 dicembre a Napoli, nella sede della Fondazione Valenzi , fu presentato il libro di Enzo Mattina “Elogio della precarietà. Il lavoro tra flessibilità, sussidiarietà e federalismo”(edito da Rubbettino).

 

Come l’autore stesso spiegò, il titolo è provocatorio poiché l’obiettivo non è tanto difendere la precarietà in sé, quanto piuttosto fare una lucida analisi di un fenomeno che spesso “per un singolare strabismo politico, fa percepire il lavoro precario più negativo del lavoro nero mentre in realtà è sempre esistito e oggi si è solo accentuato: il lavoro a tempo determinato è visibile, quantificabile, legale e deve essere solo meglio regolamentato”.

 

Secondo Mattina, esso è sinonimo di possibilità, di occasioni, di creatività e di crescita professionale. La sfida del futuro non è solo ragionare sul lavoro che manca, ma anche sul lavoro che cambia e in tempi di globalizzazione non si può più pretendere il cosiddetto posto fisso a cento passi da casa e quindi i giovani, invece di piangersi addosso, dovrebbero guardare con ottimismo al futuro.

 

Fissavo l’autore alquanto meravigliata, pensando al suo curriculum di socialista, di sindacalista, di europarlamentare, ai suoi importanti incarichi attuali: in fondo i concetti espressi erano gli stessi illustrati in un libricino, Who Moved My Cheese? di Spencer Jonhson, che circolava anni fa nei corsi per manager aziendali con l’obiettivo di illustrare, mediante un’allegorica storiella su topi e nani alla ricerca del formaggio (cioè il lavoro!), i vantaggi della globalizzazione, basata su free trade, delocalizzazione della produzione di merci in paesi del terzo mondo e consequenziali effetti di mobilità, flessibilità, precarietà.

 

Mi vennero in mente i miei studi universitari, il libro di letteratura inglese aperto sul mio scrittoio, il titolo del capitolo The Victorian Age e poi più in basso, in fondo alla pagina, The Victorian Compromise, la prima fase della Rivoluzione Industriale inglese “il compromesso utilitaristico di una società che vide l’industrializzazione solo come una fonte di prosperità e progresso, una società che rifiutò rigidamente di confrontarsi con i numerosi conflitti e problemi sociali da essa scaturiti...

 

L’enorme sviluppo industriale e l’incessante progresso scientifico resero l’Inghilterra la nazione più potente in Europa a livello politico ed economico. Su queste basi fu costruito il Compromesso col suo ottimismo e la fiducia nel progresso, la sua fede nella teoria del laissez-faire in economia” (Elio Chinol A Short Survey of Enghish Literature).

 

“Quanti compromessi passati e presenti!” pensai mentre ascoltavo i relatori. Eppure anche a quei tempi si levarono diverse voci di protesta, tra le quali ricordiamo quella di John Morley che definì l’Inghilterra della sua epoca come “un paradiso per i ricchi, un purgatorio per i capaci e un inferno per i poveri”, per la feroce competizione industriale, il disumano sfruttamento degli operai (tra i quali c’erano perfino bambini), la spaventosa invivibilità e l’immensa miseria dei bassifondi, aspetti più aspramente denunciati in seguito nella seconda fase della Rivoluzione Industriale da autorevoli personaggi come Thomas Carlyle, John Ruskin, Matthew Arnold, nonché da vari movimenti socialisti, come il Cartismo, la Fabian Society e il Labour Representation Committee che misero le basi per lo sviluppo del moderno Labour Party.

 

Insomma, c’era allora un movimento in ascesa per la conquista di diritti in campo lavorativo in Inghilterra e in tutta Europa.

 

Come dimenticare “il Capitale” di K. Marx ? Oggi invece non stiamo per caso facendo il percorso inverso? E come se non bastasse, ci vogliamo anche convincere che tutto ciò sia giusto? Le strategie del colonialismo, neocolonialismo e dell’attuale globalizzazione non sono in fondo sempre le stesse, divenute ora solo più raffinate, efficaci e veloci grazie ai progressi tecnologici e scientifici?

 

La voce dell’autore giungeva alle mie orecchie, desideravo dirgli qualcosa, ma non riuscivo a coordinare i miei pensieri per formulare una domanda sintetica ed efficace. Alla fine quando ancora una volta si discusse sull’incapacità dei giovani di costruirsi le competenze necessarie attraverso studio e sacrificio, non potei fare a meno di alzarmi in piedi e di far fluire verso l’esterno con impeto quel torrente di idee che mi ronzava per la testa.

 

Parlai di tanti giovani che lasciano il Meridione e vanno a lavorare al Nord e all’estero, di laureati con la valigia, della cosiddetta “ fuga dei cervelli”, di disoccupazione e criminalità, di sistema clientelare e voto di scambio, di tagli a istruzione e cultura, delle giuste proteste di studenti e docenti; infine conclusi il mio discorso affermando che il posto fisso a cento passi da casa forse a Napoli lo ottiene solo chi si avvale di intrallazzi e corruzione: sono proprio i giovani più onesti, capaci e meritevoli che per dignità decidono di andarsene e poi, quando cercano di ritornare in Italia per offrire le loro accresciute competenze, in realtà non vengono aiutati da strategie politiche che ne favoriscano il rientro. Mi fu detto che i tempi cambiano e bisogna adeguarsi.

 

 Con tutto il rispetto per l’autore che sicuramente con questo libro intende dare suggerimenti e indicare una strada da seguire per regolamentare il lavoro precario, non capisco come si possano accettare le attuali politiche economiche internazionali che, per realizzare il massimo dei profitti nei paesi poveri, senza rispettare regole puntano allo sfruttamento di risorse di vario genere (incluse quelle umane) e allo stesso tempo sbattono sul lastrico tanti lavoratori in Europa, cancellando diritti faticosamente conquistati.

 

Pertanto ci si chiede: L’attuale crisi è davvero una crisi reale per un sistema che è andato in cortocircuito, oppure essa è creata ad hoc dalle potenti lobby internazionali per ricattare e manipolare i paesi più indebitati seguendo le strategie della “Shock Economy”, ben illustrate da N. Klein nell’omonimo libro?.

 

Ecco su questo forse dovremmo riflettere per trovare soluzione ai problemi attuali.



 

 

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