.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


.

attualità


N. 107 - Novembre 2016 (CXXXVIII)

SULLE ELEZIONI STATUNITENSI
ANALISI DEL VOTO dell'8 novembre 2016 E RIFLESSIONI COMPARATIVE

di Alessandro Di Meo

 

Le elezioni presidenziali statunitensi che hanno portato alla vittoria del miliardario Donald Trump sono state contrassegnate da diversi aspetti di rottura rispetto alla tradizione, che diventano comprensibili solo se la campagna elettorale negli Stati Uniti viene confrontata con il voto tenutosi negli ultimi anni nei paesi europei; da un’analisi comparativa delle campagne elettorali e degli esiti di voto si delinea infatti l’evoluzione in atto della politica occidentale.

 

La campagna elettorale statunitense, che ha visto contrapposti per la corsa alla presidenza Hillary Clinton e Donald Trump, è stata segnata fin dall’inizio dal clamore suscitato dalle candidature di Trump nel Partito Repubblicano e di Bernie Sanders nel Partito Democratico fino alle primarie; si tratta di due personaggi, lontanissimi per formazione politica e programmi elettorali, accomunati però dal fatto che entrambi si sono presentati come forze antisistema, e che hanno basato la loro campagna proprio su questo aspetto. Trump è stato sottovalutato dai suoi concorrenti di partito perché non ha presentato fin da subito un programma elettorale e ha impiegato toni durissimi contro le minoranze etniche negli Stati Uniti, soprattutto latinos e ispanici, e per contrastare l’immigrazione dal Messico ha proposto la costruzione di un muro lungo il confine texano. Il suo programma economico, ultraliberista, prevede la detassazione delle imprese con un’aliquota fissa al 15 % e la creazione di venticinque milioni di posti di lavoro nei prossimi quattro anni di mandato, un’iniziativa che ha fatto leva soprattutto sul ceto medio, impoverito dalla crisi economica degli ultimi anni. Trump ha conquistato le primarie repubblicane perché si è presentato come la principale alternativa politica ad Obama, prima promettendo una massiccia liberalizzazione della vendita di armi, poi annunciando che abolirà la riforma sanitaria realizzata da Obama, in quanto la copertura statale delle spese mediche è vista dai repubblicani come una misura di tipo socialista, ottenendo così un indiretto appoggio anche da parte delle lobby e delle assicurazioni sanitarie che hanno ostacolato al Congresso le iniziative della presidenza democratica negli ultimi otto anni.

 

Sanders aveva invece puntato la sua campagna elettorale su un’estensione delle iniziative politiche di Obama, con un programma che non aveva esitato a definire “socialista” e che prevedeva, oltre ad un incremento della copertura statale delle spese mediche, anche l’abolizione delle rette universitarie, una stretta sia sulla vendita delle armi sia sulla costruzione di prigioni private – cui lo stato federale demanda la detenzione di individui condannati per diversi tipi di reati – e, soprattutto, un controllo più rigido sulle transazioni commerciali e sui mercati; Sanders aveva così ottenuto l’appoggio dei giovani e nelle prime fasi della campagna elettorale anche di gran parte del ceto medio, ma le sue iniziative – che, se approvate, sarebbero state rivoluzionarie per gli Stati Uniti – hanno suscitato timori nel mondo finanziario, che ha sostenuto la principale rivale di Sanders nel Partito Democratico, Hillary Clinton, promotrice di un programma più moderato. Occorre comunque aggiungere che, nel corso delle campagne per le primarie, Sanders raramente aveva superato la sua avversaria, ottenendo i maggiori consensi soprattutto nelle votazioni all’estero e in alcuni stati successivamente passati al campo repubblicano, come Michigan e Wisconsin.

 

I democratici hanno preferito sostenere apertamente l’ex First lady anche per contenere il carattere dirompente di Sanders, ma la campagna elettorale della Clinton è stata resa difficoltosa, più che dalle esternazioni di Trump, dal fatto che la candidata ha dovuto improntare il suo programma elettorale sulla continuità con Obama, a differenza di Trump o di Sanders che, in modi radicalmente differenti, puntavano tutto sulla rottura dell’ordine preesistente; ha inoltre dovuto accettare il supporto della stampa e di Wall Street, con la conseguenza di apparire agli occhi dell’opinione pubblica come “l’espressione dei poteri forti”, una definizione che ha pesato sulla sua campagna elettorale.

 

L’esito delle elezioni generali, tenutesi l’8 novembre scorso, hanno portato alla vittoria del Partito Repubblicano che ha ottenuto, oltre alla Presidenza, anche la maggioranza dei seggi sia alla Camera sia al Senato; stati come la Florida, l’Iowa, il Michigan, l’Ohio, il Wisconsin e la Pennsylvania sono passati ai Repubblicani. Hillary Clinton aveva invece vinto con il voto popolare, superando Trump di circa 140 mila voti (il 47,7 % rispetto al 47,5 % del candidato repubblicano), ma al termine degli scrutini aveva ottenuto 232 Grandi Elettori, contro i 306 dei Repubblicani. Il risultato è stato contestato fin dal giorno successivo, soprattutto nelle grandi città delle coste statunitensi e nei campus universitari, che hanno indicato nel sistema elettorale a doppio turno un metodo antiquato per le votazioni, visto che non tiene conto della votazione individuale e permette la vittoria di un candidato che non ottiene la maggioranza assoluta dei voti popolari; una situazione analoga era già avvenuta con le elezioni presidenziali del 2000, che portarono alla vittoria di Bush nonostante la situazione di sostanziale parità con il suo rivale, il democratico Al Gore.

 

L’esito del voto è stato definito dagli elettori e dagli analisti “la brexit statunitense”, perché, al pari del referendum britannico del giugno scorso, anche in questo caso sondaggisti ed esperti avevano sottovalutato del tutto la discrepanza tra l’elettorato e l’indicazione di voto sostenuta da partiti, stampa e circuiti finanziari; in entrambi i casi è stata inoltre completamente trascurata la ripartizione del voto per luogo e fasce d’età, in quanto tanto la brexit quanto l’elezione di Trump sono state sostenute principalmente nelle aree rurali e deindustrializzate, a differenza delle elezioni che si possono definire “prosistema” (il mantenimento della Gran Bretagna nell’Unione Europea nel primo caso, l’elezione della Clinton alla presidenza nel secondo) che hanno vinto soprattutto nelle aree maggiormente globalizzate, dalla città di Londra agli stati costieri dell’Unione, dove la vivacità economica e la presenza di numerose minoranze hanno contribuito a creare una società multiculturale aperta e poco incline agli slogan nazionalisti propugnati dai movimenti populisti.

 

Trump ha vinto anche perché ha garantito una politica isolazionista degli Stati Uniti, con l’estensione dei costi della Nato a tutti gli stati membri, ma occorrerà del tempo per giudicare se la politica estera statunitense dei prossimi anni sarà contrassegnata dalla volontà di cooperare con le altre grandi potenze del XXI secolo, soprattutto la Russia e la Cina, come già annunciato dal neopresidente, oppure se gli Stati Uniti perseguiranno una politica completamente svincolata dalle evoluzioni geopolitiche e improntata all’hard power teorizzato negli anni Novanta da politologi conservatori e incentrato sull’impiego della forza militare statunitense sia per il mantenimento dell’assetto politico mondiale sia per garantire la difesa degli Stati Uniti, anche con attacchi preventivi; l’hard power, impiegato durante la presidenza Bush (2001-2008) con le guerre in Afghanistan e in Iraq, è stato abbandonato durante l’amministrazione Obama che ha preferito il soft power, una politica estera incentrata sulla cooperazione con gli alleati al posto di iniziative militari unilaterali.

 

Il voto come espressione di protesta, oltre che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, si è osservato anche in Germania, dove l’Unione di Centro – il partito della Merkel – è stato superato dal Partito Socialdemocratico (SPD), ma negli stati federali del nord ha visto una preoccupante crescita dei partiti di estrema destra, cui sembra contrapporsi simmetricamente la crescita dei partiti di sinistra nella Baviera e più in generale nella Germania meridionale. In Francia, dove l’anno prossimo si terranno le presidenziali, il Partito Socialista di Hollande attualmente è dato in calo di consensi, al pari del Front National, a differenza del partito conservatore, diviso però tra le candidature di Sarkozy e Juppé. In Spagna si è invece finalmente sbloccata la crisi istituzionale scaturita dalle elezioni tenutesi in giugno, dove il movimento antisistema Podemos ha avuto un brusco calo di consensi – probabilmente derivato dalla paura scaturita dall’esito della brexit – e si è classificato terzo, ma il Partito conservatore ha vinto con uno scarto leggero sul Partito socialista; lo stallo che ne è derivato si è risolto qualche settimana fa, quando la dirigenza del partito socialista si è astenuta al voto di fiducia al governo, consentendo la formazione di un esecutivo di minoranza.

 

 Il voto è quindi diventato una forma per esprimere dissenso alle politiche governative, in un momento storico in cui in Occidente si sta verificando una progressiva erosione dei diritti individuali, a cominciare da quelli sul lavoro; non si vota più un candidato sulla base di un programma elettorale o di un’appartenenza di partito, ma si vota contro le politiche dell’esecutivo. In Italia, una situazione analoga si potrebbe verificare con la consultazione referendaria di dicembre, dove la sorte del governo è legata all’approvazione delle modifiche costituzionali; il referendum, che dovrebbe ratificare la riforma di alcune parti della Costituzione, è stato strumentalizzato da tutte le opposizioni che lo hanno presentato come un plebiscito popolare a favore o contro il governo, con la conseguenza che partiti che fino a qualche tempo prima annunciavano con forza la necessità di introdurre cambiamenti molto più rischiosi nella carta costituzionale si presentano oggi come strenui difensori dei valori in essa contenuti.

 

L’uso del voto come strumento di dissenso provoca però gravi conseguenze, che vanno dall’adesione dell’elettorato ai programmi di candidati che utilizzano toni molto duri, tanto che le campagne elettorali stanno diventando sempre più violente, fino all’esito del voto, dove raramente si ha una maggioranza schiacciante e spesso si deve ricorrere ad un ballottaggio, mentre nel sistema inglese e statunitense questa misura non è prevista e spesso tra i vincitori delle consultazioni e gli oppositori c’è uno scarto molto scarso.

 

In conclusione, le elezioni statunitensi hanno portato, più che alla vittoria del candidato repubblicano, alla sconfitta del Partito Democratico; la campagna elettorale della Clinton, ostacolata tra l’altro sia dalla divulgazione di documenti effettuata da Wikileaks subito dopo le primarie, sia dalla decisione dell’FBI, presa qualche giorno prima delle elezioni e chiusa alla vigilia del voto, di aprire un’indagine sull’utilizzo del suo account personale durante il suo incarico di Segretario di Stato nel primo mandato di Obama, è stata segnata da errori tattici e dalla condotta ambigua tenuta dall’amministrazione uscente negli ultimi mesi in politica estera, soprattutto riguardo alla Turchia e al Medio Oriente, ma soprattutto dalla scarsa considerazione delle istanze popolari, provate dalla crescente disuguaglianza economica, di una miglior redistribuzione dei redditi; ciò ha portato al paradosso che le categorie sociali più deboli hanno votato per i repubblicani, dalle minoranze etniche agli immigrati latinos, sono numericamente aumentate rispetto alle ultime elezioni presidenziali del 2012.

 

In ogni caso, un’analisi politica delle elezioni presidenziali statunitensi presenta numerose analogie con l’attuale evoluzione politica in corso anche in Europa, che vanno dalle aspettative economiche alla richiesta di maggiori diritti di rappresentanza; non si tratta di aspetti circoscrivibili esclusivamente agli Stati Uniti, ma il dibattito suscitato dalla campagna elettorale prima e dall’esito imprevisto del voto poi ha mostrato le analogie con le modalità elettorali e referendarie in atto in Europa.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.