[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

197 / MAGGIO 2024 (CCXXVIII)


antica

EFIALTE DI TRACHIS
STORIA DEL PASTORE CHE TRADì i TRECENTO
di Massimo Manzo


Elfiate Il pastore che tradì i Trecento Nella folta galleria di traditori che hanno popolato la storia umana, Elfiate è una presenza immancabile. A prima vista la circostanza potrebbe apparire curiosa, dato che gran parte della sua vita è, e probabilmente rimarrà per sempre, ignota. Tutte le informazioni disponibili si concentrano in pochi anni e per il resto di lui sappiamo pochissimo. Eppure la sua triste fama supera spesso quella di gran parte dei traditori del mondo antico. Il perché lo si deve a due circostanze particolari: la prima è che il suo tradimento fu cruciale in uno degli episodi di eroismo più noti di sempre, entrato tra i “miti” fondanti dell’identità occidentale; il secondo è che tale episodio, insieme a quel poco che sappiamo di Elfiate stesso, è stato raccontato da una delle “penne” più brillanti e talentuose dell’antichità.

 

L’evento di cui si parla è la strenua resistenza che un manipolo di 300 spartani e un pugno di altri alleati greci oppose all’immenso esercito persiano sul passo delle Termopili, nel nord della Grecia. La penna è invece quella di Erodoto, il padre indiscusso della storiografia occidentale. È grazie alle sue Storie (composte nella seconda metà del V secolo a.C.) che è possibile conoscere il conflitto che nel 480 a.C. oppose l’impero achemenide a una coalizione di poleis greche guidate da Atene e Sparta. Si trattava, in realtà, del “secondo tempo” di una guerra iniziata dieci anni prima, quando il Gran Re persiano Dario I aveva deciso di lanciare una “spedizione punitiva” contro ateniesi ed eretriesi, colpevoli di aver appoggiato le rivolte delle città greche dell’Asia Minore formalmente incorporate nel suo immenso impero, esteso dalla Turchia all’Egitto, fino alle remote province dell’attuale Afghanistan.

 

Nel 499 era infatti avvenuto che un gruppo di poleis greche della Ionia, guidate da Mileto, si erano ribellate al giogo persiano abbattendo le tirannidi che le reggevano, espressione del potere achemenide, incendiando la città di Sardi. Il tutto con l’aiuto (più simbolico che reale) di una parte della flotta di Atene ed Eretria. Di fronte alla pronta reazione persiana, la rivolta ionica fallì e i greci dell’Asia Minore furono ridotti all’obbedienza, ma lo scontro aveva inevitabilmente aperto una profonda ferita nei rapporti tra il mondo greco e quello persiano, spingendo Dario I a pianificare la vendetta contro i ribelli ateniesi. Nonostante siano state enfatizzate dalla storiografia occidentale, oggi alcuni storici pensano che, probabilmente, le intemperanze di Atene costituivano per il Gran Re un problema secondario. Indicativo, in questo senso, è un famoso aneddoto riferito da Erodoto, secondo cui Dario avrebbe ordinato a un servo di ricordargli tre volte al giorno dell’affare ateniese, ripetendogli la celebre frase «Signore, ricorda gli ateniesi».

 

Evidentemente il Gran Re, abituato ad amministrare domini vastissimi, aveva bisogno di un promemoria per ricordarsi degli abitanti di quella piccola città a ovest del suo impero. Nel 492 decise in ogni caso di inviare in Grecia un contingente militare guidato dal generale Mardonio, che in poco tempo ottenne l’annessione di una parte della Tracia e l’obbedienza del re dei macedoni, Aminta I. A fermare l’avanzata delle sue forze fu solo un tremendo temporale, che causò gravi danni alla flotta persiana che appoggiava l’armata. Per nulla intimorito, l’anno dopo Dario I inviò degli ambasciatori alle principali cittàStato greche, chiedendo un tributo simbolico di terra e acqua in segno di sottomissione. Molte città accettarono l’invito tranne le due principali, Atene e Sparta, che, gelose della propria autonomia, rifiutarono sdegnosamente di sottomettersi. A quel punto il Gran Re decise che la misura era ormai colma: era arrivato il momento di invadere nuovamente la penisola ellenica. Nel 490 a.C. riunì una poderosa flotta di seicento navi e un esercito che secondo le stime più accurate contava tra i ventimila e i trentamila uomini. Distrutta Eretria, i persiani erano pronti a sbarcare in Attica, la regione in cui si trovava Atene, ma i loro piani furono inaspettatamente mandati all’aria dal genio militare di Milziade, uno degli strateghi al comando dello sparuto contingente di ateniesi e plateesi schierati a difesa della spiaggia. Sulla piana di Maratona le forze greche, forti di appena diecimila opliti, ricacciarono in mare i persiani, che furono costretti a ritirarsi con la coda fra le gambe. Per gli elleni si trattò di un trionfo epico, per il Gran Re di una cocente umiliazione.

 

Dario I non fece comunque in tempo a organizzare un’ulteriore spedizione, come aveva senza dubbio in mente, perché spirò appena quattro anni dopo, nel 486 a.C., passando il testimone al figlio Serse. Se il “primo tempo” si era concluso con un’inattesa vittoria ellenica, la riscossa persiana sembrava essere inarrestabile. Il nuovo sovrano mise in piedi un’armata molto più numerosa di quella del padre, e nella primavera dell’anno 480 a.C. un esercito alla guida del solito Mardonio attraversò l’Ellesponto (attuale stretto dei Dardanelli) su un ponte di barche, ricalcando il percorso da lui stesso compiuto più di un decennio prima. A guidare la lega antipersiana erano ancora una volta Atene, che finì per dirigere di fatto le operazioni navali, e Sparta, che invece aveva formalmente il comando supremo delle operazioni militari. Rinomati per essere i guerrieri più temibili ed efficienti dell’intero mondo ellenico, gli spartani decisero di bloccare ai persiani la via d’accesso alla Grecia piazzando un baluardo difensivo sul passo delle Termopili, uno strettissimo passaggio fra il Monte Eta e il Golfo Maliaco, che dalla regione nordica della Tessaglia apriva la strada verso la Grecia Centrale. A sua difesa, oltre a un contingente di 5.200 alleati greci, parteciparono 700 tespiesi e solo uno sparuto gruppo spartano, forte di 300 uomini scelti della guardia reale, comandati dal re Leonida.

 

Come già avvenuto nel corso della prima guerra persiana, quando non poterono partecipare in tempo alla battaglia di Maratona, gli altri lacedemoni erano stati trattenuti in città dagli efori, il consiglio degli anziani che affiancava i due re nel governo cittadino. Il motivo del ritardo nell’invio dei rinforzi era la celebrazione delle Carnee, festività religiose che, secondo le rigidissime usanze spartane, prevedevano nove giorni di sospensione delle attività belliche. In prossimità del passo, Serse inviò degli esploratori per informarsi sull’entità e la disposizione delle forze nemiche.

 

È sempre Erodoto a descrivere il modo in cui il Gran Re cominciò a conoscere quegli “strani” guerrieri che poco dopo avrebbero messo in seria difficoltà il suo esercito, e lo fa imbastendo una scena dal sapore cinematografico: «L’esploratore si accostò alle truppe e le osservò attentamente [...] ed egli vedeva gli uomini dedicarsi a esercizi fisici o pettinarsi le chiome. Questo spettacolo lo stupì e volle informarsi sul loro numero. Appurò ogni cosa con esattezza e se ne tornò indietro indisturbato; perché nessuno lo inseguiva ed era stato accolto con molta indifferenza. Se ne tornò e riferì a Serse tutto ciò che aveva visto. Ma dal suo racconto, Serse non seppe trarne conclusione giusta: che cioè quegli uomini si preparavano a morire e a uccidere con tutte le loro forze; e poiché il loro agire appariva ridicolo, fece chiamare Demarato, figlio di Aristone, che si trovava nell’accampamento. E quando giunse l’interrogò su questi particolari, per intendere il significato della condotta dei lacedemoni. E Demarato [disse] “Ti avevo già parlato prima di questi uomini, quando partivamo per l’Ellade; e tu, nel sentire come io prevedevo lo svolgersi degli avvenimenti, mettesti in ridicolo le mie parole. Perché di fronte a te, o Re, la mia missione principale è il culto della verità. E ascoltami ancora una volta. Questi uomini sono venuti a disputarti il passaggio e a ciò si dispongono. Perché così usano: quando stanno per correre un rischio mortale si acconciano i capelli. Anzi, ti avverto che, se tu soggiogherai costoro o questi che sono rimasti a Sparta, non vi sarà, o Re, nessun altro popolo al mondo che ti resista a mano armata; perché tu adesso avanzi contro il più bel regno e i più valorosi uomini dell’Ellade». La presenza di Demarato, un ex re spartano deposto qualche anno prima, nell’accampamento di Serse, non deve stupire più di tanto.

 

La corte del Gran Re fu spesso un rifugio sicuro per molti membri dell’élite greca caduti in disgrazia, e nei decenni successivi i sovrani persiani furono avvezzi a reclutare mercenari o “consulenti militari” di origine ellenica, che venivano profumatamente pagati. Nel corso della prima guerra persiana Dario I aveva fatto lo stesso, facendosi accompagnare da Ippia, un ex tiranno di Atene che sperava di riconquistare la città con l’aiuto persiano. Erodoto non descrive tuttavia Demarato come un traditore, ma come un uomo che serbava ancora grande rispetto nei confronti della patria. Quando si trovava a Susa, la capitale achemenide, era stato proprio lui ad avvertire i suoi compatrioti dell’imminente spedizione persiana, inviando un messaggio segreto a Sparta contenuto in una tavoletta di legno coperta da uno strato di cera, per evitare che fosse letto dagli emissari persiani.

 

Ora, anche dopo aver ascoltato le sue parole, Serse non riusciva ancora a capire come quel manipolo di scriteriati potesse sperare di resistere al suo smisurato esercito. Decise quindi di attendere nuovamente quattro giorni, dando il tempo ai nemici di ritirarsi. Lo storico Plutarco aggiungerà in seguito di come il sovrano achemenide tentasse a quel punto di dissuadere i lacedemoni dalla resistenza, provando a trattare una loro resa a condizioni più che onorevoli e offrendogli addirittura il dominio sull’intera Grecia. Dopotutto, entrare nelle grazie del Gran Re poteva essere conveniente e molti popoli avevano già fatto tale scelta unendosi all’impero. In cambio, Serse chiedeva solo una cosa: deporre le armi. La risposta di Leonida arrivò secca, in due semplici parole, che da allora e nei secoli a venire furono utilizzate da chiunque decidesse di lottare fino all’ultimo per la libertà: «Molon Labe», vieni a prenderle. In altre parole, se il re persiano voleva le loro armi, doveva prima combattere: gli spartani le avrebbero deposte solo da morti. Di fronte alla fierezza di Leonida e dei suoi, Serse si risolse a scatenare l’offensiva. I primi a essere scagliati contro le falangi greche furono le truppe dei medi, che vennero però falcidiate, ritirandosi dopo aver subito perdite pesantissime.

 

Pur inferiori per numero rispetto ai loro avversari, gli opliti erano infatti infinitamente superiori dal punto di vista tattico. In più combattevano in un terreno stretto a loro favorevole e avevano una motivazione ben maggiore dei sudditi coscritti del Gran Re. Il secondo giorno, Serse ordinò che ad attaccare fosse la sua guardia personale, i cosiddetti Immortali, diecimila soldati d’élite della sua armata. Anche loro però, con sua grande sorpresa, furono respinti dagli spartani. Durante gli assalti, in preda a continui e incontrollati scatti d’ira, il re balzò per tre volte dal seggio da dove osservava le operazioni: i suoi uomini erano in grave difficoltà. Si era già al terzo giorno di durissima lotta e Serse non sapeva come uscire da quell’empasse, quando gli si presentò a colloquio Elfiate, figlio di Euridemo. Costui «aspettandosi dal re una ricompensa, gli svelò il sentiero che conduceva alle Termopili attraverso il monte, e fu la rovina degli Elleni ivi di guardia». In un passo successivo, Erodoto menziona come alcuni pensavano che i veri traditori fossero invece Onete da Caristo e Coridallo da Anticira, ma lui stesso scrive di non credere affatto a questa versione della storia, identificando in Elfiate il principale responsabile del tradimento. Rimane tuttavia possibile la presenza di complici, anche se le informazioni al riguardo sono troppo scarne per formulare tesi storicamente attendibili.

 

Su chi sia stato esattamente Elfiate non esiste certezza alcuna, ma possiamo dire con assoluta sicurezza che la sua figura storica è ben diversa da quella dipinta dalla celebre pellicola Trecento (2007), adattamento cinematografico della graphic novel di Frank Miller ispirata all’epopea delle Termopili. In essa, il traditore è ritratto come uno spartano deforme e mostruoso, che vuole dare il suo contributo allo sforzo bellico dei compatrioti ma, respinto da questi ultimi per la sua incapacità di combattere (e persino di sollevare lo scudo), si vendica subdolamente rivolgendosi al sovrano achemenide. Lungi dall’essere un rinnegato spartano, il vero Elfiate abitava quasi sicuramente la Malìde, la piccola regione che circondava le Termopili, ed Erodoto conferma tale tesi chiamandolo Elfiate di Trachis, dal nome della principale cittadina malia. La sua dimestichezza con la zona lo rendeva in grado di conoscere a menadito il territorio su cui si stava svolgendo lo scontro, disponendo di informazioni inestimabili per le truppe di Serse, e sulla base di questo indizio alcuni hanno ipotizzato che fosse un pastore, abituato a percorrere sentieri tortuosi e poco battuti.

 

Più che mosso da vendetta o risentimento, Elfiate deve aver fatto un calcolo (estremamente realistico) osservando la sproporzione delle forze in campo. Quanto potevano resistere ancora gli elleni di fronte alla gigantesca potenza persiana? Presto Atene, Sparta e i loro alleati sarebbero stati travolti, tanto valeva schierarsi in tempo dalla parte dei futuri vincitori e ricevere una lauta ricompensa dal Gran Re, noto in tutto il mondo antico per le sue ricchezze. Un gran numero di città aveva già fatto un simile ragionamento non unendosi alla coalizione anti-persiana e scongiurando così la vendetta dell’achemenide. Le parole di Elfiate, in effetti, furono gradite a Serse, che nella notte del terzo giorno di combattimenti mandò un distaccamento di uomini comandati da Idarne attraverso il percorso indicato dal traditore melio. A detta di Erodoto il sentiero, sorvegliato da mille soldati focesi, «era stato scoperto dalla gente del luogo, i meliesi», molto tempo prima, tanto che si era quasi persa memoria della sua esistenza. I persiani di Idarne, guidati da Elfiate, marciarono quindi per tutta la notte e all’alba si ritrovarono inaspettatamente di fronte a degli opliti, sorpresi anche loro di quell’incontro non previsto con i nemici. Lo “sherpa” di Trachis, da buon informatore, rassicurò che i guerrieri di guardia non erano i tanto temuti lacedemoni ma altri greci, che furono oggetto di un fitto lancio di frecce da parte dei persiani. I focesi si allontanarono occupando la cima del monte, ma Idarne e i suoi li evitarono, continuando nella loro manovra per prendere i greci alle spalle. Poco dopo, anche le restanti truppe greche vennero a conoscenza dell’aggiramento in corso e capirono che erano ormai spacciate.

 

Per evitare che l’intero contingente venisse sterminato, Leonida consentì allora agli alleati di mettersi in salvo: lui e gli spartani sarebbero invece rimasti fino all’ultimo. Si avverava così l’oracolo della Pizia, che aveva tempo prima preconizzato come il prezzo della salvezza di Sparta sarebbe stata la morte di uno dei suoi re. Accanto agli spartani rimasero solo i tespiesi e i tebani, decisi anche loro a resistere. Sull’altro fronte, la morsa dei persiani si stava per chiudere: su consiglio di Elfiate, che aveva calcolato alla perfezione la tempistica della manovra, Serse ordinò di avanzare quando il sole era ormai alto in cielo e i suoi uomini furono i primi a ingaggiare lo scontro, che proruppe furibondo. Il colpo di grazia arrivò quando sopraggiunse anche il distaccamento guidato da Idarne.

 

L’epilogo del nostro racconto è storia nota: secondo Erodoto, dopo aver consumato le lance, gli spartani e i tespiesi «si difendevano con le spade (quelli ai quali ne erano ancora rimaste) e con le mani e con i denti, finché da ogni parte in giro i barbari li seppellirono sotto una pioggia di frecce, gli uni attaccandoli di fronte e abbattendo la difesa del muro [costruito a suo tempo per arginarli, nda], gli altri sopravvenendo alle spalle». Elfiate pareva aver azzeccato i propri calcoli, e secondo alcuni la sua delazione fu determinante per il massacro dei greci nella battaglia delle Termopili, mentre altri pensano che abbia solo accelerato l’inevitabile sconfitta. L’esito della guerra fu però opposto da quello che il traditore di Trachis aveva immaginato: nemmeno un mese dopo, in un’epica battaglia sul mare di fronte alle coste di Atene, a Salamina, la marina ateniese inflisse un’incredibile batosta alla flotta persiana e l’anno seguente, nel 479 a.C., gli elleni si rifecero sulla terraferma segnando la definitiva disfatta di Serse. Elfiate non ricevette mai l’agognata ricompensa da parte del Gran Re: braccato dai lacedemoni fu costretto a fuggire in Tessaglia. L’anfizionia delfica aveva posto una taglia sulla sua testa.

 

Erodoto non fornisce ulteriori dettagli sulla sua latitanza, informandoci solo che in un momento imprecisato Elfiate si rifugiò ad Anticira, una città della Focide, dove fu ucciso da un suo “concittadino” di Trachis, tale Atenade, che secondo lo storico lo ammazzò «per un motivo diverso da quello per cui era ricercato, ricevendo ugualmente la ricompensa». Erodoto era sicuramente a conoscenza del motivo di tale omicidio, tanto da ripromettersi di spiegarlo «nelle narrazioni seguenti». Purtroppo per noi, il “padre della Storia” non tenne fede alla sua promessa ed Elfiate scompare di colpo nelle nebbie del suo racconto. Ma così come avvenne con Leonida e i suoi eroici trecento, il nome del traditore delle Termopili era destinato a rimanere scolpito per sempre nella memoria dei greci.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]