[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

185 / MAGGIO 2023 (CCXVI)


contemporanea

QUALE “eccezionalismo”?

Analisi del paradigma-guida DELla politica estera AMERICANA

di Emanuele Molisso

 

L’espressione “eccezionalismo americano” fu utilizzata per la prima volta nel 1835, dal visconte Alexis de Tocqueville, nella sua opera Democracy in America. Un termine che indica un nazionalismo, quello statunitense, caratterizzato dalla visione secondo cui gli Stati Uniti sono l’unica nazione a sottrarsi alle leggi della Storia, a cui tutti gli altri paesi invece devono sottostare. Ne deriva che l’eccezionalismo americano sia mosso da una vocazione messianica che conferisce agli Stati Uniti, un’ambizione universalistica, con cui gli Stati Uniti si sono da sempre autorappresentati, come la nazione che aveva il compito di plasmare, intervenire e trasformare l’ordine internazionale secondo i propri principi, valori e interessi. L’autorappresentazione eccezionalista ha scandito la storia dell’azione internazionale degli Stati Uniti con l’eccezionalismo americano che ha rappresentato uno dei paradigmi fondamentali della politica estera statunitense.

 

Non è un caso che il perseguire questo compito di nazione prescelta da Dio, è stato il vettore lungo cui è avvenuto lo sviluppo dell’egemonia globale statunitense. Tutto ciò, a partire dal 1945, ovvero dal dopo seconda guerra mondiale quando gli Stati Uniti hanno iniziato a costruire una rete di alleanze molto ampia con cui riuscirono, attraverso diverse forme di potere (multilaterali, cooperative, consensuali) a proiettare su scala mondiale, un modello di egemonia senza precedenti per diffusione e profondità. Tanto che si è iniziato a parlare e si parla di imperialismo americano nonostante il dibattito storiografico sia molto acceso – con la presenza di due fronti, quello imperialista che parla di impero americano come un impero globale contro il fronte antimperialista – negli stessi Stati Uniti, che rifiutano la visione di un’America imperialista visto che andrebbe contro i principi promulgati dalla stessa Costituzione americana.

 

Il mio focus non è centrato alla questione dell’imperialismo americano, questa breve presentazione mi è servita per introdurre il tema principale che voglio trattare ovvero i cambiamenti che il paradigma dell’eccezionalismo americano per la politica estera statunitense, ha subito nelle ultime quattro presidenze americane. Per arrivare a ciò, bisogna dire, che l’eccezionalismo americano nel dopo Guerra Fredda, è stato unito al concetto di modernization ovvero termine utilizzato per indicare una ricostruzione della società moderna secondo il modello statunitense. Questo concetto doveva essere applicato su scala globale e quindi gli Stati Uniti, sempre sul modello messianico, si auto-assegnavano

 

l’obbligo di promuovere ed esportare il proprio modello di sviluppo tecnologico, economico, culturale e scientifico che permise di immaginare un nuovo ordine mondiale con Washington al centro di esso, da cui espandere il modello americano di un capitalismo liberal-democratico su scala globale, con il campo militare che doveva essere assegnato alla NATO, la quale doveva salvaguardare le relazioni internazionali e allo stesso tempo, creare una rete di stati-alleati al di sotto del primato statunitense. Proprio questo consolidamento della posizione preminente ed eccezionale degli Stati Uniti permise di creare un ordine internazionale di marca statunitense. All’alba del XXI secolo, gli Stati Uniti d’America sono arrivati in questa posizione e con questi paradigmi tra cui, quello dell’eccezionalismo americano è rimasto il predominante.

 

Quest’ultimo, a partire dagli attacchi terroristici al World Trade Center di New York, l’11 settembre 2001, ha iniziato a essere interessato da un’oscillazione. Un’oscillazione tra la dottrina politica dell’unilateralismo e tra la dottrina politica del multilateralismo. Quest’oscillazione deve essere considerata anche come il punto di rottura dei paradigmi tradizionali dell’eccezionalismo americano del dopo Guerra Fredda. Il punto di rottura è avvenuto con la presidenza di George Walker Bush. Per l’esattezza, nei mesi precedenti alle elezioni presidenziali del 2000, che lo vedranno uscire vincitore.

 

In quei mesi, l’ala conservatrice del paese promosse una visione nettamente votata all’unilateralismo. Una visione che rigettava la politica di cooperazione multilateralista che invece era stata promossa dall’amministrazione Clinton. Il rifiuto nasceva dalla volontà di non voler schiacciare la libertà d’azione e la potenza statunitense con gli Stati Uniti che dovevano liberarsi di qualsiasi vincolo che avrebbe impedito di sfruttare al massimo il loro primato. L’eccezionalismo americano subì i primi cambiamenti visto che ci fu un inasprimento dei suoi principi con una richiesta di una politica estera statunitense, volta a un coinvolgimento estero selettivo con la priorità che doveva essere riservata soltanto all’estensione del primato egemonico americano.

 

Questa visione venne trasferita nella dottrina presidenziale di Bush, il quale sposò la visione del neoconservatorismo del nation building (dopo l’11 settembre) ovvero la teoria dell’esportazione della democrazia in tutto il mondo, con l’utilizzo della forza, lì dove fosse stato necessario per costruire governi democratici e liberi. Ne derivava quindi, un rifiuto del multilateralismo, visto che gli Stati Uniti dovevano agire soltanto per raggiungere i propri obiettivi e quindi soddisfare solamente i propri interessi.

 

Bush Jr iniziò a rifiutare ogni tipo di trattato multilaterale e questo creò un paradosso. Il paradosso di una società, quella americana, che ormai aveva fatto propri i paradigmi di pluralismo e internazionalismo e ormai il paese aveva, già da tempo, impostato una politica estera, quella economica, quella militare come delle politiche globali e quindi interconnesse con il resto del mondo.

 

Il paradosso dove stava? L’eccezionalismo americano si mostrava realizzabile, visto il contesto globale, soltanto entro una cornice di una politica multilateralista. Il multilateralismo, quindi, tornava a essere l’approccio da scegliere per la politica estera americana. Un approccio che è stato il vettore lungo cui è stata concepita la dottrina di Barack Hussein Obama. Egli vinse le elezioni presidenziali del 2008, e dal 2009, e fu il primo afroamericano a ricoprire la carica di presidente degli Stati Uniti d’America.

 

L’eccezionalismo americano durante la sua presidenza subì dei nuovi cambiamenti che in realtà piuttosto che rappresentare un ritorno al passato, si sono rivelati una continuazione della linea dettata dal suo predecessore Bush Jr. Obama decise di abbandonare e di rifiutare la strategia del deep engagement di Bush Jr, preferendo un selective engagement. Gli Stati Uniti dovevano iniziare a differenziare tra teatri strategicamente vitali, ove si doveva agire in modo diretto e concreto, e teatri secondari e di minor importanza, ove invece bisognava ricostruire i rapporti con gli alleati locali, i quali dovevano farsi carico di responsabilità e dei costi delle varie operazioni; un approccio che Obama definì burder sharing.

 

Obama creò una gerarchia d’importanza con ai gradini più alti le regioni e i territori che risultavano vitali per gli interessi americani, mentre i gradini più bassi, erano riservati alla gestione multilaterale cosicché gli Stati Uniti non dovevano più essere coinvolti direttamente, ma potevano limitarsi soltanto a fornire aiuti materiali e umani, ma sempre a costi contenuti, agli alleati nelle regioni coinvolte.

 

Quindi Obama credeva che gli Stati Uniti non fossero più eccezionali? La risposta non deve essere negativa perché Obama credeva ancora negli Stati Uniti, come la nazione più ricca e potente del mondo, una nazione eccezionale e superiore che aveva la capacità di ricoprire un ruolo attivo di leadership all’interno dell’ordine globale. Per la dottrina Obama, l’eccezionalismo americano doveva essere coniugato a un rinnovato internazionalismo che avrebbe permesso agli Stati Uniti di esportare il proprio modello fondato su valori democratici e su ideali universali, non più attraverso la guerra ma attraverso la forza dell’esempio: un modello da soft power diplomacy. Quindi, nonostante una dichiarata volontà multilateralista, l’eccezionalismo americano promosso da Obama si è rivelato esattamente lo stesso del suo predecessore Bush Jr.

 

Dopo la presidenza Obama, l’oscillazione dell’eccezionalismo americano tra multilateralismo e unilateralismo è continuata durante la presidenza del tycoon Donald John Trump, eletto presidente degli Stati Uniti d’America durante le elezioni presidenziali del 2015. Trump è stato fortemente influenzato dalla corrente del nazional-populismo jacksoniano. Quest’ultimo è stato il settimo presidente della storia degli Stati Uniti d’America e gettò le basi per quello che è noto come eccezionalismo americano jacksoniano. Un eccezionalismo incentrato sul perseguimento di un interesse nazionale ben definito, con un interesse ristretto e da riservare esclusivamente all’economia e alla sicurezza nazionale; entrambe considerate interessi nazionali primari che automaticamente portavano alla rinuncia della dimensione morale dell’azione politica in campo internazionale.

 

Per questo tipo di eccezionalismo, la sovranità deve essere preservata e non esiste nessun avversario con cui gli Stati Uniti non possono negoziare nessun accordo ma l’obiettivo primario deve sempre essere la difesa del primato economico e militare che garantisce una posizione di vantaggio in tutte le trattative. Conseguenzialmente, da questa visione, nacque il rifiuto di voler continuare a sostenere le economie dei paesi alleati e la conseguente scelta di salvaguardare l’economia statunitense con politiche di attivo sostegno al lavoro degli americani, con la scelta di misure protezionistiche.

 

Ne deriva che il progetto di nation building sia completamente rifiutato con gli Stati Uniti che dovevano soltanto fornire un esempio da seguire e inoltre fornire risorse in modo limitato nei casi di gravi emergenze e di conseguenza, gli Stati Uniti non dovevano assolutamente avere voce in capitolo sulle scelte di governo delle altre nazioni del mondo. Tutte queste caratteristiche sono state riprese da Trump per la sua dottrina e per la sua visione dell’eccezionalismo americano. Basti pensare agli slogan dell’America First e del Make America Great Again, veri cavalli di battaglia del tycoon, il quale ha sposato la corrente jacksoniana proprio perché egli era un ampio detrattore della globalizzazione e delle politiche estere volte all’internazionalismo,colpevoli di gravare sulle spalle dei cittadini americani.

 

Quello di Trump doveva essere un eccezionalismo americano che non doveva essere più basato sull’idea che gli Stati Uniti fossero il modello da seguire e importare nelle altre società ma soprattutto gli Stati Uniti dovevano riprendersi tutto quello che avevano ceduto al mondo, con l’obiettivo principale che doveva essere quello di ristabilire e risanare la politica economica interna americana.

 

Per la dottrina Trump, piuttosto che di unilateralismo, si è iniziato a parlare di isolazionismo visto che il tycoon iniziò a sparare a zero sulla Nato, sull’Unione Europea, su tutti gli alleati storici degli Stati Uniti d’America e inoltre promosse e firmò l’uscita del suo paese dal TTP che ha causato una guerra dei dazi contro la Cina, che perdura ancora oggi. Una visione che, come per la svolta unilateralista di Bush Jr, si è ritorta contro lo stesso Trump per il medesimo motivo: un mondo ormai globalizzato e interconnesso non può essere caratterizzato dall’abbandono del suo perno centrale.

 

L’abbandono di questa visione vicina all’isolazionismo è avvenuto con le ultime elezioni presidenziali statunitensi del novembre 2020, da cui è uscito vincitore Joseph Robinette Biden Jr. Quest’ultimo ha ripreso i dettami e i fondamenti della dottrina multilateralista per il suo eccezionalismo americano, ma con una novità fondamentale: una dichiarata volontà di un impegno statunitense limitato e non sempre garantito.

 

Nei suoi primi due anni di presidenza, Biden ha presentato un nuovo paradigma dell’eccezionalismo americano, quasi come se fosse una sintesi tra quello obamiano e quello trumpiano. Un eccezionalismo che mira a ricostruire le alleanze internazionali, ma allo stesso tempo gli Stati Uniti d’America dichiarano di non voler più garantire quella presenza e quell’azione, cardini onnipresenti dal dopo Guerra Fredda, in quelle questioni che non sono fondamentali e vitali per gli interessi americani. Una strategia da “egemone ma non troppo”.

 

Quest’ultima la si è vista con il ritiro delle truppe dall’Afghanistan che ha lasciato l’opinione pubblica internazionale senza parole visto che è stato un ritiro repentino e che non ha visto nessun tipo di piano di sicurezza per la regione, lasciata in mano ai talebani. Al momento, nel mese di maggio 2023, con ancora un anno e mezzo di presidenza davanti a Biden, gli Stati Uniti e l’eccezionalismo americano, dopo l’uscita dalle ondate di Covid, hanno dovuto e stanno affrontando questioni delicatissime come la guerra in Ucraina e quindi lo scontro con la Russia e la crescente ostilità con la Cina, con la questione del controllo dell’isola di Taiwan che sembra pronta a esplodere da un momento all’altro.

 

Nessuno ha la capacità di prevedere il futuro nella sua intera certezza, soprattutto in quadro geopolitico che muta velocemente ogni settimana. Quindi è difficile a oggi, capire quale sarà il futuro per l’eccezionalismo americano e quali saranno le sfide che dovrà affrontare, ma l’obiettivo più importante nel futuro, sarà quello di comprendere quali paradigmi verranno assegnati all’eccezionalismo americano e se continuerà ancora quell’oscillazione tra multilateralismo e unilateralismo. Basterà rimanere sintonizzati su tutto quello che accadrà nei prossimi anni.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Del Pero, Mario, Libertà e Impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2016, terza edizione, Edizioni Laterza, Milano 2017.

Lafeber, Walter, The Bush Doctrine in Diplomatic History, vol. 26, n. 4, 2002.

Laruffa, Matteo, L’America di Biden. La democrazia americana del dopo Trump. Rubettino Editore, Soveria Mannelli, 2021.

Ramrattan,Lall, Szenberg, Michael, American Exceptionalism: an appraisal-politicaleconomic, qualitatived and quantitative in The American Economist, vol., 62, n. 2, 2017. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]