[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

193 / GENNAIO 2024 (CCXXIV)


contemporanea

SULLA DISFATTa DI CAPORETto

EVENTI, PERSONAGGI, CONSEGUENZE / PARTE II

di Luca Mannucci

 

Sul piano generale, Cadorna ebbe colpa di non aver sviluppato una dottrina militare meglio aderente alle necessità della guerra di posizione, con una generale propensione a evitare le riunioni con i suoi comandanti e i comandi stessi dei corpi d’armata d’armata. Invece, sul piano prettamente pratico della battaglia di Caporetto egli aveva ordinato che le sue armate sull’Isonzo approntassero una difesa nelle migliori condizioni possibili.


Luigi Capello, avendo una visione più offensiva rispetto a quella di Cadorna, credeva che in caso d’attacco occorresse lanciare subito un’energica controffensiva, non solo a fini tattici, come raccomandava Cadorna, ma anche a fini strategici. Per questo motivo decise, solo parzialmente e in ritardo, gli arretramenti del grosso delle truppe e delle artiglierie pesanti sulla destra dell’Isonzo. Bisogna però tenere in considerazione che tutte le disposizioni date da Capello furono trasmesse, per conoscenza, anche al comando supremo e che Cadorna non ebbe nulla da obiettare. A questo si aggiunge il fatto che Capello, già costretto a letto da una nefrite agli inizi di ottobre, nei giorni antecedenti l’attacco nemico dovette ricoverarsi in ospedale, lasciando il comando interinale della 2ª Armata al generale Luca Montuori, riprendendolo solo il 22 ottobre.
 

Il cambio al comando generò confusione nelle truppe comandate da Capello e lo stesso Cadorna si allontanò per 15 giorni, poco convinto che il nemico avrebbe sviluppato un offensiva su vasta scala, e quando rientrò al comando generale di Udine il 19 ottobre, rimase convinto che l’azione nemica a Tolmino fosse solo un diversivo per distogliere l’attenzione dalla vera offensiva che sarebbe partita più a sud.


D’altro canto Cavaciocchi, comandante del IV Corpo d’armata, non godeva della stima di Cadorna per le sue scarse qualità di comandante e non era molto presente tra i suoi uomini. Cavaciocchi era convinto che le sue linee fossero abbastanza fortificate per resistere a un eventuale attacco mentre in realtà gli uomini di Below impiegheranno solo tre ore per sfondarle. Egli ammassò le sue truppe attorno al monte Nero anche a battaglia in corso, trovandosi all’improvviso senza riserve.


Il XXVII Corpo d’armata era invece guidato da Badoglio, anche lui sicuro della preparazione delle sue truppe e proprio da lui partì l’errore tattico più sconcertante compiuto sul suo fianco sinistro, ovvero sulla riva destra dell’Isonzo, tra la testa di ponte austriaca davanti a Tolmino e Caporetto: questa linea, lunga pochi chilometri, costituiva il confine tra la zona di competenza del suo reparto e quello di Cavaciocchi (riva sinistra) e, nonostante tutte le informazioni indicassero proprio in questa linea la direttrice dell’attacco nemico, la riva destra fu lasciata praticamente sguarnita con piccoli reparti a presidiarla mentre il grosso della 19ª Divisione e della brigata “Napoli” rimaneva trincerata sui monti vicini.


Sicuramente, in una giornata di tempo sereno, la posizione in quota avrebbe consentito alla 19ª Divisione di dominare tutta la riva destra rendendo il corridoio impercorribile ma,invece, il 24 la presenza di nebbia fitta e pioggia, impedì alle truppe italiane di accorgersi del passaggio dei tedeschi a fondovalle che catturarono senza combattere le scarsissime unità italiane lì presenti. In quota comunque, la 19ª Divisione resistette tenacemente per un giorno bloccando varie volte gli attacchi delle truppe nemiche, ma alla fine fu costretta ad arrendersi.

L’artiglieria italiana, sebbene numerosa e ben rifornita, non aveva ricevuto un addestramento sufficiente, e nessuna differenza si faceva sul suo uso offensivo e difensivo, infatti venne ordinato semplicemente di disporre i cannoni il più avanti possibile per aumentarne la gittata. Cadorna quando il 18 settembre ordinò ai suoi generali di predisporre le linee di difesa, ordinò anche di arretrare in posizioni sicure le artiglierie, ma il 10 ottobre cambiò idea e ordinò a Capello di lasciare i piccoli calibri nelle trincee e i medi sulla Bainsizza, alterando di fatto in misura irrilevante lo schieramento complessivo. È da aggiungere anche che molti artiglieri non erano provvisti di fucili, e non si era pensato a delle fanterie da porre a protezione delle batterie di cannoni, problema che poi si ripresenterà, in maniera anonima, nel secondo conflitto mondiale per quanto riguarda il binomio corazzati-fanteria.


L’attacco delle formazioni nemiche cominciò intorno alle ore 8:00 con uno sfondamento immediato sull’ala sinistra del XXVII Corpo d’armata, occupato dalla 19ª Divisione, e sull’ala destra del IV Corpo d’armata tra Tolmino e Caporetto. Generalmente il fuoco di contro-sbarramento delle artiglierie italiane fu inefficace e ritardato per alcuni motivi: 1) i comandi italiani erano effettivamente impreparati per quanto riguarda l’uso dell’artiglieria soprattutto per quanto riguarda l’attuazione del tiro di contro-batteria; 2) il meteo nella notte del 24 ottobre gioco a sfavore dei fanti italiani al fronte in quanto neve, pioggia e foschia impedirono alle prime e alle seconde linee italiane di scorgere in tempo l’avanzata delle fanterie nemiche e di conseguenza di ordinare il tiro controffensivo con i piccoli e medi calibri, mortai e bombarde divisionali. Fu necessario ricorrere infine alle staffette, con tutti i ritardi legati ad esse in un teatro caotico come quello. oltre a ciò, merita menzione l’ “epopea” Badoglio che, individuato dalle artiglierie nemiche, dovette più volte spostare il suo comando ritrasmettendo ogni volta la sua nuova posizione dall’altra parte gli operatori tedeschi addetti alle intercettazioni telefoniche furono però sempre in grado di passare le giuste coordinate all’artiglieria, che impedì così al capo del XXVII Corpo d’armata italiano di prendere stabilmente contatto con i suoi uomini; 3) Il regio esercito e soprattutto i suoi comandanti, erano sicuri di poter far fronte all’assalto degli austriaci, consapevoli che l’Austria fosse agli sgoccioli ma ignorando la capacità militare e di manovra dei reparti tedeschi; 4) Gli ufficiali erano tutti diplomati che venivano chiamati a comandare uomini che avevano più esperienza di loro ma che non si potevano opporre ai “signori ufficiali”, particolare che invece non era presente nell’esercito tedesco dove la maggior parte dei comandanti (capitani e tenenti) erano, nella vita civile, o capi reparto o capi officina ovvero persone abituate a comandare e che sapevano cosa significava comandare degli uomini, a differenza del regio esercito

Da parte austro-tedesca, ci fu una nuova dottrina di impiego delle forze in campo, soprattutto per quanto riguarda l’impiego dell’artiglieria e delle truppe d’assalto, una nuova dottrina nata in seno all’esercito tedesco e che venne impiegata anche contro il regio esercito.


Se da una parte, il regio esercito era bloccato da una burocrazia e da una mentalità che impediva ai singoli capitani di prendere decisioni in autonomia, dall’altra parte, soprattutto da parte tedesca, nacque l’idea che non era necessario mandare all’assalto orde di soldati addosso alle mitragliatrici, supportati da bombardamenti di artiglieria che duravano giorni ma ne sarebbero bastati pochi gruppi, pesantemente armati e addestrati per sfondare i punti deboli del fronte nemico, aprire un varco e successivamente far affluire in quei varchi il grosso dell’esercito.


Questa fu una tecnica e prima ancora una mentalità che nacque prima di Caporetto, dopo che si era conclusa la famosa “corsa al mare”; la corsa al mare fu una serie di tentativi di aggiramenti che ebbero inizio in Francia nel settembre del 1914 e prosegui nelle Fiandre e in Piccardia, portando alla fine, la linea del fronte fino alle coste del mar del nord e che diede il via alla guerra di trincea.


A Caporetto, mentre le linee italiani erano bloccate dal caos tattico generato dalla mancanza di informazioni e di comandi, dall’altra parte, i reparti tedeschi avanzano autonomamente verso il loro obiettivo, utilizzando non solo le conoscenze acquisite dallo spionaggio ma anche le nuove capacità di manovra che avevano a differenza degli italiani che si possono riassumere con la frase: «dovete arrivare all’obiettivo, se non avete informazioni o ordini, gestitevi da soli, ma non rimanete fermi».


Questa nuova tipologia di conduzione della guerra, porta alla luce una grande differenza che sarà lampante nel primo periodo di guerra del secondo conflitto mondiale: la guerra di movimento che si oppone alla guerra di posizione, la manovra che si oppone alla staticità dell’avversario che, come a Caporetto nel ‘17 cosi come alla Linea Maginot nel ‘40, portò inevitabilmente alla caduta del fronte avversario, dimostrando come per opporsi alla guerra di movimento, pensiero che era ancora in gestazione durante la prima guerra mondiale, occorreva una difesa mobile, pensiero anche questo in via di sviluppo durante il primo conflitto, ma entrambi prenderanno vita e arriveranno all’apice nel conflitto ‘39-’45.

La disfatta subita dagli italiani a Caporetto mise in luce le grosse limitazioni dell’esercito italiano e, dopo la conferenza di Rapallo, venne destituito non solo Cadorna ma anche Capello e Cavaciocchi, colpevoli, secondo la commissione d’inchiesta, di non essere stati in grado non solo di far fronte alla controffensiva ma soprattutto di aver perduto circa 300.000 unità e quasi 2.500 pezzi d’artiglieria.


L’esercito, attestato alla metà di novembre del 1917 sul Piave, svilupperà nuove tecniche di combattimento atte a riprendere in mano la capacità offensiva contro gli austriaci. Il posto di Cadorna fu preso da Armando Diaz, che darà una nuova svolta all’esercito e alle modalità di comando, dal punto di vista militare, lungo tutto il fronte del Piave, l’esercito riuscì a resistere agli attacchi nemici che, dopo quasi centocinquanta chilometri di avanzata, erano allo stremo e non riuscirono a forzare le difese italiane tranne per due teste di ponte installate a Capo Sile e a Cortellazzo.


Mentre sul fronte militare la situazione sembrava assestarsi, anche se si avrà bisogno di altre battaglie per fermare definitivamente gli austriaci e poi respingerli indietro, a livello sociale, la disfatta di Caporetto segnò un punto fondamentale nella mentalità dei cittadini che cominciarono a chiedersi se, effettivamente, non ci fosse bisogno di una svolta più autoritaria nella politica italiana, per far fronte a quei problemi sociali e militari che affliggevano l’Italia in quel momento.


Ulteriore peso a questo pensiero, fu dato dal bollettino di guerra che Cadorna fece circolare subito dopo la disfatta: «La mancata resistenza di reparti della II Armata, vilmente ritiratisi senza combattere, ignominiosamente arresisi al nemico o dandosi codardamente alla fuga, ha permesso alle forze austrogermaniche di rompere la nostra ala sinistra del fronte Giulia».
(estratto del bollettino di guerra scritto da Cadorna in merito alla disfatta di Caporetto)

Con questo bollettino, Cadorna scaricò tutta la colpa sull’esercito, marcito per colpa di quella branca della politica e della società che ancora spingeva per la pace e per la fine del conflitto, posizione vista da molti come un’inquinante per il morale della truppa e per la conduzione della guerra che invece doveva continuare contro il nemico secolare. Si fa avanti, lentamente, l’idea che c’è qualcosa di marcio nel paese e anche questo a fatto sì che si verificasse il disastro di Caporetto.


A suggellare questa idea, un estratto di una lettera del Gen. Luigi Cadorna indirizzata al Gen. Konrad Krafft von Dellmensingen datata 1925: «[…] il disastro di Caporetto non sarebbe stato possibile se in Italia ci fosse stato il forte governo attuale […]». Nel 1925, in Italia, era già presente il governo fascista.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]