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antica


N. 113 - Maggio 2017 (CXLIV)

la disfatta di atene in sicilia
l'inizio della fine

di Federica Campanelli

 

La spedizione ateniese in Sicilia del 415-413 a.C., operazione militare che s’inserisce nel gigantesco ambito della Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), ebbe un catastrofico esito per la polis greca. La superpotenza del mondo antico, “faro di democrazia”, non si sarebbe mai più ripresa da quella disfatta, andando progressivamente incontro al suo inesorabile destino: la sconfitta totale contro Sparta nel 404 a.C., la perdita della supremazia in Grecia e l’instaurazione del regime oligarchico dei Trenta Tiranni.

 

L’occasione di un intervento militare in Sicilia si era presentata nel biennio 416-15 a.C., quando la città di Segesta, coinvolta in una disputa con Selinunte, aveva invocato l’aiuto di Atene contro Siracusa. Quest'ultima aveva infatti offerto il proprio sostegno militare ai selinuntini, minacciando l’indipendenza non solo di Segesta, ma dell’intera isola, che sarebbe potuta cadere sotto il suo diretto potere. Non solo, Siracusa, “figlia” di Corinto (storica alleata di Sparta), rappresentava a quel punto una minaccia per la stessa Atene. Una volta assoggettata la Sicilia, vi era infatti il concreto rischio che Siracusa potesse intervenire in Grecia spalleggiando le città peloponnesiache.

 

Questo pericolo, unitamente al lauto compenso offerto da Segesta, convinse l’assemblea cittadina di Atene ad accogliere le richieste di soccorso. La scelta dei comandanti da inviare in missione cadde su Lamaco, Nicia (già firmatari di un trattato di pace con Sparta nel 421 a.C.) e Alcibiade, abile statista nonché personaggio sfrontato e ambizioso, che da subito si dimostrò il più appassionato sostenitore di una eventuale spedizione in terra siciliana. Egli infuocava gli animi degli astanti puntando sulla inferiorità militare delle poleis siceliote e quindi sulla reale possibilità di assoggettare l’intera Sicilia (e magari Cartagine), accumulando le risorse utili a sconfiggere una volta per tutte l’arci-nemica Sparta. Nicia, al contrario, era riluttante all’idea di un’iniziativa tanto sconsiderata, ma suo malgrado prese parte al progetto di spedizione.

 

Le cose iniziarono nella peggior maniera possibile. Poco prima della partenza della flotta, una mattina di primavera del 415 a.C., i cittadini ateniesi si accorsero che quasi tutte le erme della città erano state mutilate nel corso della notte. Un atto sacrilego di pessimo presagio che aveva suscitato nella comunità (forse con eccessivo trasporto emotivo) timori e indignazione. Tra gli altri, a essere accusato di tale misfatto (passato alla storia come “scandalo delle erme”) fu Alcibiade, che agli occhi degli oppositori politici non rappresentava altro che una minaccia per la stabilità ateniese. Malgrado ciò, pur di non compromettere la missione siciliana, si preferì sottoporlo a giudizio in un secondo momento. Per Alcibiade non fu cosa gradita, egli contava infatti di esser processato prima della partenza, perché forte del consenso popolare che nel frattempo aveva raccolto, era sicuro che sarebbe stato assolto.

 

Nella seconda metà del mese di giugno del 415 a.C., Atene mise in moto la sua imponente e costosissima macchina da guerra, la più grande spedizione oltremare che avesse mai organizzato: 134 triremi (di cui 100 fornite dalla sola Atene), 2 pentecontere rodie, 30 navi da carico per il vettovagliamento e il trasporto di attrezzatura varia utile per gli assedi e le fortificazioni, più un numero imprecisato (di certo oltre un centinaio) di imbarcazioni d’altro tipo. Gli uomini imbarcati constavano di circa 5.100 opliti, 1.300 soldati di fanteria leggera e circa 700 soldati teti equipaggiati da opliti. Il punto debole era invece la cavalleria, inizialmente di appena 30 unità (nel corso dell’anno successivo raggiungerà le 650).

 

Salpati dalla madrepatria e attraversato lo Ionio, gli ateniesi cercarono dapprima supporto logistico presso le città greche dell’Italia meridionale, ma invano: Taranto, Locri e persino Reggio (precedentemente alleata di Atene) rifiutarono le richieste di aiuto; non solo, le ricchezze tanto millantate dai segestani e promesse in cambio del sostegno militare erano praticamente inesistenti. Gli incubi di Nicia iniziavano a prender forma, tant’è che egli suggerì di seguire la strategia più cauta già delineata nel corso della prima assemblea cittadina, ovvero risolvere la disputa tra Segesta e Selinunte, dopodiché tornarsene a casa.

 

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Rotta della spedizione.

Il primo nucleo della flotta, salpata dal porto del Pireo, si ricongiunge al resto dell’armata alleata di Atene presso Corcira (oggi Corfù), per poi proseguire verso l’Italia meridionale e la Sicilia.

 

Ma il piano adottato dagli strateghi fu quello caldeggiato da Lamaco e Alcibiade, cioè l’attacco diretto a Siracusa (ovviamente dopo essersi assicurati l’appoggio di alcune città in loco). Gli ateniesi, lasciate le coste calabresi, trovarono sostegno prima a Naxos, poi a Catania, dove decisero di acquartierarsi. Per le autorità ateniesi era però giunto il momento del processo per lo “scandalo delle erme”, così Alcibiade s’imbarco su una nave diretta in patria, ma all’altezza di Turi fece perdere le proprie tracce. Il processo si svolse comunque e il verdetto fu la condanna a morte in contumacia.

 

Nel frattempo, gli ateniesi erano riusciti, con l’inganno, a spingersi fino alla baia del Porto Grande, conquistandolo. Pronti a dar battaglia, allestirono quindi un secondo accampamento presso il tempio di Zeus e la foce del fiume Anapo, sulla riva occidentale del porto. Il giorno successivo si consumò il primo scontro armato, che vide Atene vincere sulle forze rivali.

 

Con l’inverno alle porte, cessarono le ostilità e le due città ne approfittarono per rinforzare le proprie fila. Atene inviò ambascerie un po’ ovunque alla ricerca di denaro e contingenti militari. Siracusa procedette potenziando il proprio sistema difensivo e inviò a sua volta delegazioni presso Corinto e Sparta. In particolare, i siracusani auspicavano la ripresa in Grecia del conflitto diretto tra Sparta e Atene, in modo da impegnare quest’ultima su un secondo fronte lontano dall’isola. Fu nell’ambito di questo gioco diplomatico che riapparve la figura di Alcibiade: egli si era rifugiato proprio a Sparta e ora si dichiarava pronto a sostenere la causa peloponnesiaca contro Atene. E fu inoltre di Alcibiade l’idea di inviare in Sicilia una flotta e un uomo di fiducia (spartano) che conducesse la difesa di Siracusa contro gli invasori. La scelta cadde su Gilippo.

 

Il conflitto sull’isola riprese nella primavera del 414 a.C., concentrandosi sul promontorio dell’Epipoli (a Nord del centro abitato). Qui, nel continuo tentativo ateniese di assediare la città siceliota da un lato, e quello di impedirne l’accerchiamento dall’altro, iniziò un’intensa corsa alla fortificazione: quando Atene avviava la costruzione di una cinta muraria, Siracusa rispondeva bloccando l’opera con l’edificazione di un contro-muro a esso perpendicolare. Lamaco, intanto, nel corso di uno scontro armato in cui Siracusa fu costretta alla ritirata, aveva perso la vita e Nicia si ritrovò solo.

 

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Gli ateniesi invadono l'altipiano dell’Epipoli prendendo alla sprovvista le forze siracusane. Qui erigono la fortezza del Labdalo e iniziano la costruzione di una muraglia in direzione N-S al fine di isolare il centro abitato. Siracusa sbarra l’opera con un contro-muro perpendicolare, ma Atene risponde bloccando a sua volta la cortina siracusana e, non senza difficoltà, prosegue verso il Porto Grande con un sistema di doppie mura. In seguito all’arrivo dei rinforzi di Gilippo, i siracusani realizzano un terzo contro-muro nell’area Nord dell’Epipoli che chiude ogni possibilità d’assedio.

(Fonte immagine: C. Orrieux, P. Schmitt Pantel, Storia greca, in U. Fantasia, La guerra del Peloponneso, Roma 2012).

 

L’eventualità di un assedio si stava di fatto allontanando e il comandante ateniese decise di spostare i combattimenti in mare, dove Atene avrebbe potuto dare una vera dimostrazione di forza. Si dispose pertanto l’allestimento di una base navale al Plemmirio, nella penisola della Maddalena, un promontorio che chiude il Porto Grande di Siracusa da Sud, mentre un contingente di cavalleria siracusana si stanziava nei pressi del tempio di Zeus. Ma prima di darsi battaglia in mare, i due schieramenti si sarebbero fronteggiati ancora in terra (e se in un primo momento gli ateniesi ebbero la meglio, alla fine furono i siracusani a imporsi sui nemici).

 

In vista dello scontro navale, inoltre, Gilippo aveva iniziato a viaggiare per la Sicilia raccogliendo tutti gli aiuti necessari, mentre da Corinto e dalle città greche alleate iniziavano a sopraggiungere i rinforzi richiesti precedentemente.

 

Prima dell’inverno del 414 a.C., Nicia si rivolse ad Atene denunciando il pessimo stato in cui versavano le imbarcazioni, alle quali era preclusa qualsiasi forma di manutenzione. Secondo lo stratego, le possibilità a quel punto erano due: o si disponeva l’invio immediato di un’altra flotta, potente tanto quanto la prima, o in alternativa Atene avrebbe fatto cosa saggia a ordinare il ritiro della spedizione. Ma la città scelse di non arrendersi e nominò due ufficiali da affiancare a Nicia: Demostene e Eurimedonte.

 

Nel 413 a.C., Sparta, su consiglio di Alcibiade, aprì finalmente un secondo fronte in Attica, dove attaccò il forte di Decelea. Per Atene gli sforzi militari ed economici si moltiplicarono esponenzialmente...

 

Ottenuti nel frattempo i giusti rinforzi, Gilippo procedette con l’assalto e la distruzione della base navale stanziata sul Plemmirio. Parallelamente, 80 imbarcazioni siracusane si adunavano all’imboccatura del Porto Grande, pronte a scontrarsi con le 60 ateniesi. Si consumò così un primo scontro in cui Siracusa ebbe il maggior numero di perdite; tuttavia Atene aveva perso il Plemmirio, un punto d'approdo fondamentale per i rifornimenti via mare.

 

Forti di ciò e degli aiuti sopraggiunti da Gela e Camarina, le truppe siracusane si organizzarono per un altro attacco combinato via terra e via mare, e battendo sul tempo l’arrivo dei rinforzi nemici, costrinsero in più occasioni la flotta ateniese a fronteggiarsi nello spazio ristretto del Porto Grande, sovrastandola.

 

Ma una volta giunti in Sicilia i nuovi colleghi di Nicia (Demostene e Eurimedonte) con 73 navi, 5.000 opliti e 3.000 soldati di fanteria leggera, il morale ateniese si risollevò nuovamente. Ancora intenzionati a isolare la città, gli ateniesi stabilirono di attaccare l’Epipoli, dove messo in fuga un presidio avversario, procedettero allo smantellamento delle contro-mura siracusane edificate per bloccare l’assedio.

 

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Modello di trireme greca (Deutsches Museum, Monaco di Baviera). Il rostro metallico posto a prua permetteva lo speronamento delle navi antagoniste. L’equipaggio a bordo poteva raggiungere complessivamente i 200 elementi, di cui 170 vogatori.

 

Sembrava che Atene avesse ripreso il pieno controllo, sennonché nottetempo i soldati dislocati sull’Epipoli furono respinti e dispersi dalle forze nemiche. Ne seguì un violento scontro notturno in cui Atene pianse migliaia di perdite. La situazione stava precipitando ancora una volta e gli strateghi ateniesi, tornati nell’accampamento presso la foce dell’Anapo, un’area acquitrinosa e insalubre che stava contribuendo a mietere vittime, presero infine la difficile ma saggia decisione di ritirarsi e salvare il salvabile prima che fosse troppo tardi.

 

Una scelta razionale che tuttavia dovette fare i conti con la spiccata superstizione di Nicia: l’eclissi di luna del 27 agosto 413 a.C. lo dissuase infatti dall’intraprendere qualsiasi azione prima dello scorrere di 27 giorni. A quel punto la debolezza di Atene era diventata tangibile e nei giorni successivi all’eclissi, Siracusa decise di sferrare prima un attacco via terra, poi impose lo svolgimento degli scontri navali nelle ristrette acque del bacino portuale. Durante il confronto, i siracusani riuscirono a sfondare il centro della formazione ateniese e a sospingere verso la riva l’ala destra guidata da Eurimedonte, il quale perse la vita. Altre imbarcazioni furono poi catturate e distrutte; il loro equipaggio massacrato. Atene nonostante tutto poteva ancora contare sulla superiorità numerica, ma le condizioni in cui versava erano terribili.

 

L’ultimo, decisivo scontro si svolse il 10 settembre. Siracusa aveva sbarrato l’imboccatura del Porto Grande con una fila di triremi e altre imbarcazioni minori ormeggiate una accanto all'altra. Il resto della flotta si dispose “a corona” appena oltre l’accesso alla baia, circondando la flotta nemica. Gli ateniesi tentarono comunque di forzare il blocco navale e intrapresero una sanguinosa e caotica battaglia che li mise in ginocchio. La potenza della loro armata navale, eccellente nelle manovre in spazi aperti, non poteva avere possibilità di esprimersi al meglio nell’angusto e affollato golfo siracusano, dove si erano affrontate complessivamente 200 navi. Quando poi furono gli stessi marinai a rifiutarsi di proseguire con qualsiasi altra operazione, gli strateghi ateniesi decisero finalmente la ritirata via terra, in cerca di riparo presso qualche località amica.

 

Pronto a ostacolare la fuga, lo strategos di Siracusa Ermocrate tese un tranello: inviò presso l’accampamento nemico dei falsi informatori che sconsigliarono ai comandanti di mettersi subito in marcia, poiché la zona – dissero – era sorvegliata. Ma ciò non era vero, non ancora per lo meno: le truppe siracusane avrebbero infatti approfittato del temporeggiamento proprio per presidiare per bene il territorio e impedire l’allontanamento degli ateniesi.

 

Le truppe di Nicia e Demostene avviarono pertanto la ritirata solo un paio di giorni dopo, nella speranza raggiungere Catania o una città sicula loro alleata. Inizialmente si mossero verso l’entroterra, lungo la strada per Akrai (Palazzolo Acreide), dove raggiunsero verosimilmente l’area dove ora è il comune di Floridia, ma le continue incursioni nemiche ne bloccarono l’avanzamento, inducendoli a cambiare rotta e dirigersi verso Sud.

 

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Ricostruzione del percorso seguito dalle truppe ateniesi in ritirata.

 

A un certo punto, durante la marcia, si dispersero: gli uomini di Demostene si ritrovarono indietro e, intercettati dalla cavalleria siracusana, furono accerchiati e colpiti duramente fino alla resa; le truppe di Nicia riuscirono invece ad avanzare fin nei pressi del fiume Erineo, a Sud di Siracusa. Il giorno seguente, messaggeri inviati da Gilippo raggiunsero Nicia per esortarlo alla resa e informarlo della sorte toccata a Demostene. Nicia dal canto suo propose un accordo: Atene si sarebbe fatta carico delle spese di guerra, in cambio Siracusa avrebbe dovuto risparmiare la vita ai soldati ateniesi. Gilippo rifiutò.

 

Ripreso il difficile viaggio verso Sud, ormai stremati dalla fatica e continuamente sotto tiro dei lanciatori, le truppe ateniesi raggiunsero il fiume Assinaro (nella zona di Noto) intenzionati a guadarlo. Ma assetati com’erano, ruppero lo schieramento e si lanciarono disordinatamente nelle fresche acque; i siracusani appostati nei dintorni procedettero al massacro. L’ultimo, disperato tentativo di Nicia di metter fine alla carneficina fu quello di consegnarsi in prima persona nelle mani di Gilippo, firmando la propria condanna a morte. Demostene fu anch’egli giustiziato.

 

I soldati catturati ebbero però sorte peggiore: in parte divennero proprietà di privati cittadini, che potevano farne ciò che volevano, mentre circa 7.000 superstiti dovettero subire l’atroce segregazione all’interno delle Latomie, le profonde cave rocciose di cui Siracusa era ed è disseminata. Abbandonati in condizioni disumane tra le pareti di queste imponenti prigioni di pietra, come ci racconta Tucidide, in molti andarono incontro a una morte miserabile.

 

«[…] Per ristrettezza di spazio si vedevano obbligati a soddisfare i propri bisogni in quello stesso fondo di cava: e con i mucchi di cadaveri che crescevano lì presso, gettati alla rinfusa l'uno sull'altro, chi dissanguato dalle piaghe, chi stroncato dagli sbalzi di stagione, chi ucciso da altre simili cause, si diffondeva un puzzo intollerabile» (La guerra del Peloponneso, VII, 87).

 

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Le Latomie dei Cappuccini (Acradina) rappresentano il più grande complesso

di latomie presenti a Siracusa.



 

 

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