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N. 109 - Gennaio 2017 (CXL)

DIDONE, EROINA EPICA O ELEGIACA?

DUE MODELLI A CONFRONTO – parte iI
di Paola Scollo

 

Ovidio tenta di racchiudere il personaggio epico di Didone entro un’aura elegiaca, scegliendo pertanto di ritrarla nel momento di maggiore cedimento. Contrariamente al modello virgiliano in cui la regina di Cartagine è ostaggio di un vortice di sentimenti dirompenti e contrastanti che procedono dall’innamoramento e dalla passione sino alla caduta delle illusioni e alla decisione estrema del suicidio, in Ovidio Didone mostra di essersi arresa alla sorte. A lei non restano che suppliche e pianti.

 

Tale punto di divergenza tra le due narrazioni è di vitale importanza. Infatti, mentre la Didone virgiliana, forse anche sull’esempio della Medea di Euripide, necessita di tempo per dare sfogo al proprio furore e per elaborare progetti di vendetta, la Didone ovidiana chiede del tempo per procrastinare la partenza di Enea (41 - 44): «Dove fuggi? La tempesta ti ostacola: il favore della tempesta mi sia d’aiuto! Guarda come l’Euro turba le acque sconvolte! Quel che avrei preferito dovere a te, lascia che lo debba alle tempeste: i venti e le onde sono più giusti del tuo cuore». E ancora (45 - 48): «Io non valgo abbastanza - ti valuto forse ingiustamente? - da dover tu morire fuggendo da me sul vasto mare. Tu nutri, a gran prezzo, un odio costoso e ostinato se, pur di liberarti di me, ti importa poco morire». Inoltre, nell’immagine di Ovidio, non Didone ma Enea è chiamato ad allontanare il furor, nell’attesa che le condizioni atmosferiche siano favorevoli alla ripresa del viaggio.

 

Connesso ai tentativi di rinviare la partenza dell’amato è nelle Heroides l’evocazione da parte di Didone del piccolo Ascanio. Un riferimento che ribalta i contenuti dell’Eneide. In Virgilio, infatti, Enea pone tra le motivazioni della sua partenza da Cartagine il desiderio di non privare il figlio della nuova patria italica: (IV 353 - 355): «[…] anche il fanciullo Ascanio, con l’offesa al suo caro capo, che defraudo del regno d’Esperia e dei campi fatali». Di contro, in Ovidio è Didone a supplicare Enea di rimanere a Cartagine per non esporre Ascanio a ulteriori pericoli. Nell’Eneide sono Giove e Mercurio a rammentare a Enea le responsabilità nei confronti del figlio (IV 234 - 236): «Che fa, o con quale speranza indugia tra gente nemica e non guarda la discendenza ausonia e i campi lavinii? Navighi: questa la conclusione; questo il nostro messaggio». E ancora (IV 274 - 276): «[…] guarda ad Ascanio che cresce, e alle speranze dell’erede Iulo, al quale spettano il regno d’Italia e la terra romana». Risulta così evidente che in Virgilio le riflessioni sulla sorte di Ascanio si pongono quale motivazione a partire da Cartagine, in Ovidio divengono, piuttosto, motivo per restare.

 

Alla luce di tale ragionamento, è impossibile non scorgere nell’epistola ovidiana il potere ricattatorio che il riferimento ad Ascanio può esercitare sull’eroe troiano. Ed è, a un tempo, doveroso sottolineare come Didone, ben consapevole di tale potere, manifesti un atteggiamento premuroso, quasi materno potremmo concludere, nei confronti del fanciullo. Con ogni probabilità, la precisazione che Iulo è un puer introduce una connotazione affettiva. A suggerire ciò anche la presenza dell’allitterazione che, con ogni evidenza, contribuisce a rafforzare il nesso.

 

Il riferimento ad Ascanio ben si salda poi con il sospetto, adombrato da Didone ai vv. 135 - 137, di attendere un figlio da Enea: «Può anche essere, o scellerato, che tu lasci Didone incinta, e che una parte di te sia nascosta racchiusa nel mio corpo. Al destino della madre si aggiungerà quello di uno sventurato fanciullo e tu sarai responsabile della morte di lui non ancora nato: insieme a sua madre morirà il fratello Iulo, e uno stesso castigo ci rapirà uniti». L’insistenza sulla sfera emotiva piuttosto che su quella delle argomentazioni razionali pone Didone in una dimensione spiccatamente elegiaca e, a tratti, melodrammatica. Certamente non epica.

 

Tale riflessione riceve conferma dai versi conclusivi dell’epistola in cui Didone chiede (165 - 168): «Quale colpa mi addebiti, se non di averti amato? Io non sono di Ftia, né originaria della grande Micene, e non ho uno sposo o un padre che hanno lottato contro di te. Se ti vergogni di avermi in moglie, mi si chiami non sposa, ma tua ospite; pur di esser tua, Didone sopporterà di esser qualunque cosa». Emerge qui, in tutta la sua portata, la distanza dall’immagine di una fiera e orgogliosa sovrana. Il processo di autoumiliazione per Didone è ormai compiuto.

 

È diffusa tra i critici l’opinione secondo cui le Heroides siano delle suasoriae in versi. A ben vedere, nella VII epistola il personaggio di Didone è ritratto sin dai primi versi nell’estremo tentativo, talvolta anche disordinato, di persuadere Enea a rimanere a Cartagine. La scelta stilistica di Ovidio di intrecciare argomentazioni retoriche con temi tratti dal patrimonio mitico non deve comunque sorprendere. Già nel IV libro dell’Eneide è in nuce tale tendenza.

 

Nelle Heroides l’amplificazione dell’impronta virgiliana di stampo retorico è funzionale allo scopo di Ovidio di proporre l’immagine di una Didone che, ben salda sin dall’inizio nel suo proposito di suicidio, reputa tuttavia di avere ancora qualche margine di trattativa con Enea. In tale contesto il ricorso alla persuasione si configura dunque quale percorso inevitabile. Per la critica, i tre nuclei tematici a partire dai quali tale trattativa si sviluppa, ossia utile, periculum e honestum, si pongono in linea con l’ideologia borghese della donna innamorata ostinata a rivalutare i propri affetti e a svalutare le attività propriamente maschili, prima fra tutte la guerra. La distanza dal modello epico di riferimento si rivela dunque in tutta la sua forza.



 

 

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