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N. 20 - Gennaio 2007

LA DEPORTAZIONE DEI TATARI DI CRIMEA

Pulizia etnica ai tempi dell’URSS

di Stefano De Luca

 

Dal 1941 al 1944 le autorità sovietiche, in primo luogo il ministro degli Interni e capo dei Servizi di Sicurezza Laurentij Beria, annullarono l'autonomia nazionale e ordinarono la deportazione di numerosi popoli: i tatari di Crimea, i ceceni, gli ingusci, i calmucchi, i balkari, i karaciai, i tedeschi del Volga, i greci del Mar Nero, i kurdi del Caucaso, gli hemsiny e i mesketi.

 

Le ragioni di questi provvedimenti, che riguardavano almeno 1.600.000 persone, furono molteplici: connivenza e collaborazione con le forze di occupazione tedesche, mancata partecipazione alla “guerra patriottica”, rischio di un contagio “panturanico” delle popolazioni turcofone e musulmane del Caucaso. Secondo alcune stime, almeno un terzo dei deportati morì a causa delle condizioni di trasferimento e delle difficoltà dell'insediamento.

 

Nel famoso rapporto segreto pronunciato nel febbraio 1956 da Chruščëv, i provvedimenti di deportazione vennero rinnegati, e le nazionalità oppresse vennero riabilitate, ma la possibilità di fare ritorno alle proprie terre d’origine non fu concessa a tutti

I tatari di Crimea sono un popolo che si era stanziato nella penisola del Mar Nero dal XIII al XV secolo. Di lingua turca e religione islamica, diedero vita ad una loro organizzazione statale, il kanato di Crimea, che venne annesso dalla Russia nel 1793. Divenuta Repubblica autonoma all’interno dell’URSS nel 1921, la Crimea venne occupata dai nazisti nel 1941. La maggioranza dei tatari combatté nelle fila dell’Armata Rossa, ma una minoranza e gli esuli diedero vita al Comitato musulmano di Simferopoli, legato agli interessi degli occupanti. Liberata nel 1944, Stalin firmò una delibera che prevedeva l’espulsione di tutti i tatari dalla Crimea per tradimento.

La notte tra il 17 ed il 18 maggio 1944, cominciò la deportazione forzata di circa 200.000 tatari, dei quali più di un terzo perì durante il viaggio. Erano diretti in Asia centrale, principalmente in Uzbekistan, dove si sarebbe formata la loro principale comunità. Riabilitati nel 1956, i tatari non ottennero il permesso al rimpatrio.

La motivazione principale del rifiuto sta nel fatto che la Crimea fu inglobata dalla Repubblica Federativa di Ucraina: il PCUS sacrificò gli interessi di una piccola minoranza, a quelli di una nazionalità molto più influente in seno all’URSS. Per 25 anni, i tatari furono vittima della «legge del più forte», ma diedero vita ad una battaglia che avrebbe trovato il sincero appoggio di numerosi dissidenti.

A partire dal 1964, il Movimento nazionale dei tatari di Crimea cominciò a darsi forme organizzate. Si crearono «Gruppi d’iniziativa per le collaborazione con il Partito e con il governo alla soluzione del problema nazionale del popolo tataro di Crimea», che venivano eletti della comunità tatara, ed agivano direttamente a Mosca. Anche se spesso i delegati tatari furono incontrati dai dirigenti sovietici, non ottennero comunque alcun risultato, così come a nulla valsero i loro appelli all’ONU ed all’opinione pubblica mondiale. Molti tatari decisero di agire individualmente, vendendo i propri beni in Asia e comprando una casa in Crimea, tra mille difficoltà ed a prezzi elevatissimi. Quasi sempre i loro contratti d’acquisto venivano invalidati.

Il 17 maggio del 1968, XXIV anniversario della deportazione, migliaia di tatari si recarono a Mosca per manifestare pacificamente, davanti la sede del Comitato centrale, le loro richieste di rimpatrio. All’ingresso della Piazza Vecchia, dove si trovava la sede del Cc, i miliziani ed agenti del KGB in borghese “arrestavano tutti quelli con le facce dai tratti orientali”. Solamente in duecento, e per poco tempo, riuscirono a manifestare nelle modalità stabilite. I tatari, una volta identificati, furono rimandati, sotto scorta, in Asia centrale.

Un importante dissidente sostenitore dei tatari di Crimea e delle altre nazionalità deportate fu lo scrittore Aleksej Kosterin, membro del PCUS, che aveva scontato 17 anni di lager alla Kolyma a seguito delle purghe staliniane. Riabilitato nel 1955 e reintegrato nel Partito, diede le dimissioni a seguito dell’invasione della Cecoslovacchia. Conobbe il generale Grigorenko, e divenne un attivo sostenitore del rimpatrio dei tatari. Morto il 13 novembre del 1968, i sui funerali si trasformarono in un evento politico al quale presero parte 400 persone (200 erano tatari): Grigorenko avrebbe descritto il funerale di Kosterin in un opuscolo del samizdat.

Il leader del movimento dei tatari di Crimea era Mustafa Džemilev, eletto nel 1967 tra i rappresentanti del popolo. Džemilev, che ebbe modo di conoscere Kosterin, Grigorenko e Gabaj, fu anche membro del «Gruppo d’iniziativa per la difesa dei diritti civili»: la sua azione dissidente in favore del proprio popolo lo portò sul banco degli imputati. Processato a Taškent insieme a Gabaj nel gennaio del 1969, sotto l’accusa di “divulgazioni notoriamente false ed infamanti l’assetto sociale e statale sovietico”, Džemilev venne condannato a 3 anni di lager a regime duro, mentre Gabaj a 3 anni a regime normale.

I tatari ottennero il permesso a tornare in Crimea solo alla fine degli anni Ottanta, quando l’Unione Sovietica era ormai giunta alle battute finali. Proclamata l’indipendenza dell’Ucraina, lo status della Crimea costituì un serio problema sia di politica interna sia nelle relazioni con la Russia. La concessione dell’autonomia sembra avere posto la sordina alla questione di quella regione abitata in prevalenza da russi e tatari più che da ucraini.

Riferimenti bibliografici

Giulia Lenzi Castoldi, I tatari di Crimea, i tedeschi del Volga, le minoranze scomparse del Caucaso, Roma, 1995

Alexander Von Tarnow, La Russia del dissenso, Roma, 1976

Tribunale Sacharov, Le testimonianze sulla violazione dei diritti umani dell’uomo nell’Unione Sovietica, Milano, 1976

Piero Sinatti, Il dissenso in URSS. Scritti di A. Solženicyn, A. Kosterin […], Roma, 1974

Convegno Internazionale: i Giusti nel Gulag, Milano 9-11 dicembre 2003, relazione di Jurij Mal’cev

Pëtr Grigorenko, Stalin e la Seconda guerra mondiale, Milano, 1970

 



 

 

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