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N. 7 - Luglio 2008 (XXXVIII)

DEMOCRAZIA CRISTIANA

Tramonto e resurrezione

di Achille della Ragione

 

La parabola della democrazia cristiana, dopo un lungo percorso verso il basso, dà l’impressione di un’inversione di rotta decisiva, riemergendo dalle tenebre per risalire gloriosamente verso il cielo.


Solo chi ha i capelli bianchi ricorda negli anni del dopo guerra, quell’improvviso apparire sulla scena di una moltitudine di volti silenziosi, tristi e volitivi, che dopo una vita nascosta nel buio delle sacrestie e nella sobria riservatezza delle associazioni cattoliche prendeva corpo e cominciava la lenta marcia verso il potere.


Erano tutti timidi e riservati, parlavano a voce bassa con tono rassicurante e non fissavano mai lo sguardo dell’interlocutore. I loro gesti erano posati quanto le parole, non alzavano mai il mento verso il cielo, non baciavano bambini, né falciavano spighe, aborrivano l’esuberanza fisica e non si interessavano di patria inviolabile e di sacri confini.


Aborrivano espressioni viriloidi, tanto di moda nei decenni precedenti e per riascoltare riferimenti fallici nei discorsi politici dovremo arrivare ai nostri giorni ed ai deliranti proclami dei celoduristi padani. Il loro linguaggio era volutamente astruso ed incomprensibile, ambivano cautamente ad una confusione tra luce ed ombra, tra positivo e negativo. Celebri le incursioni parafilosofiche tra le geometrie non euclidee di Moro, assertore di convergenze parallele… e di strategia dell’attenzione. Non professavano nessuna specifica ideologia, non promettevano paradisi in terra ed uguaglianza universale e senza tronfi proclami si impossessarono delle istituzioni installandosi stabilmente in tutti i gangli della vita pubblica. La loro marcia fu implacabile quanto silenziosa e costituirono tante monadi senza nessun capo riconosciuto, vollero rigorosamente un esercizio del potere tra eguali, i volti dei loro capi momentanei erano intercambiabili, era infatti arduo distinguere Piccoli da Rumor, facile confondere Forlani con Colombo. Anche cavalli di razza come Fanfani e Moro dovettero sottostare a questa dittatura di un potere corale e spersonalizzato.


Non amavano le decisioni difficili, erano fermamente convinti che i problemi avrebbero da soli trovato la soluzione. Assistettero impassibili a migrazioni bibliche da sud a nord, al nascere dell’industria ed al declino dell’agricoltura, all’impetuoso manifestarsi di nuovi bisogni e ad un difficoltoso assestamento tra le classi sociali.


Contro i nemici adoperavano una tecnica già fatale a Napoleone e Hitler: cedevano spazio e tagliavano i rifornimenti, fino a quando l’avversario, incautamente dilatatosi, implodeva fragorosamente. Ebbero il 40% dei voti e l’80% del potere, che fortificarono blandendo promesse e corrompendo subdolamente le coscienze più specchiate: concessero pensioni ai giovani ed invalidità fasulle ai sani, il parrucchiere alle senatrici ed una flotta di auto blu a potenti ed impotenti.


Furono turbati dal subdolo potere del denaro, la loro matrice culturale aveva, in pari misura, praticato e demonizzato l’usura, condannato l’accumulo sconsiderato del ricco e lo scriteriato sperpero del gaudente. Ritenevano, convinti, che il denaro rappresentasse il male e di conseguenza furono attirati irresistibilmente dal suo fascino peccaminoso.


Governarono senza sussulti il Paese per circa cinquanta anni e nessun intellettuale ha scritto la loro epopea, divenuta oramai storia. Gli studiosi, quasi tutti di estrazione marxista, dedicano le loro attenzioni solo al ventennio e alla resistenza, trascurando questo capitolo della nostra storia durato il doppio del fascismo.


Lentamente divennero simili ai loro avversari e persero la loro identità, mentre l’Italia cambiava, con i cittadini, anche nei più sperduti paeselli, che non si raccoglievano più attorno alla vita delle parrocchie. Caddero eroicamente senza reagire sotto i colpi furibondi di una scheggia giustizialista della magistratura e sembrarono scomparsi per sempre, dissolti come il sale che si scioglie nell’oceano, viceversa produssero robuste concrezioni ed i resti disordinati delle loro armate emigrarono a sinistra, al centro, a destra, accolti con prudenza dai nuovi partiti, sorti sulle ceneri della prima repubblica.


Sembrava che fossero stati assimilati e metabolizzati, invece sono lentamente riemersi e proclamano minacciosi di installarsi di nuovo, con rinnovato vigore, al centro del potere.


I loro volti anonimi stanno riappropriandosi delle sembianze del passato, mentre i loro gesti e le loro melliflue parole stanno contagiando, con il loro sottile veleno, il dibattito politico in atto nel Paese.


Erano troppo simili ai nostri vizi ed alle nostre virtù per scomparire definitivamente, ci somigliano, ben più di fascisti e comunisti, per questo non li abbiamo mai amati, per questo li temiamo, ma oramai sono tornati.

 

 

 

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