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N. 30 - Novembre 2007

A EST DEL DANUBIO

Capitolo IV

di Leila Tavi

 

Febbraio 1997. Il ritorno.

 

Due volte mi sono separata da un uomo e l’ho visto piangere: mio padre quando ho lasciato Roma per vivere a Vienna e il mio uomo adesso che ritorno a casa da mio padre.

 

Ho asciugato le lacrime di entrambi, quelle di mio padre, una maschera impassibile, e quelle del mio uomo, una roccia impervia.

 

A volte è la vita a decidere per noi e noi dobbiamo solo accettare quello che troviamo davanti a noi a testa alta, anche se è duro mandare giù che un padre bello e autoritario come il mio possa avere le piaghe da decubito e orini in una padella.

 

Mia sorella e mia madre sono sole a Roma e devono avere già una crisi di nervi, soprattutto mia madre che non dorme da quattro notti.

 

Una telefonata nel cuore della notte, Ivan si scioglie dal mio abbraccio e va per rispondere, ma gli trattengo il braccio e, fissandolo senza guardarlo, gli dico: - È la mamma, non voglio sapere, lascialo squillare –

 

Un’altra volta ancora, a lungo, il telefono squilla nel silenzio della fredda stanza; dovrei scendere e alzare la cornetta per accertarmi se veramente le condizioni di mio padre sono peggiorate, ma tiro a me la coperta e mi addormento sfinita, il mio uomo fa lo stesso.

 

Siamo due ragazzi e non sappiano cosa significa la parola sofferenza, eppure a casa mi aspettano una madre e una sorella che va ancora a scuola.

 

Ho promesso a mio padre il giorno che sono ripartita per Vienna e ci siamo salutati, che sarei stata loro vicina nei momenti di difficoltà.

 

Quella promessa strappatami mi era sembrata diversa dai soliti moniti che mi indirizzava ogni volta che prendevo la porta di casa in una foga da ribelle; quel mio modo che a parole biasimava, ma che, credo, dentro di sé guardava con una punta di orgoglio.

 

Quella volta, quel nostro addio prima della partenza per Vienna, era stato un colloquio diverso dai soliti, che terminavano con la sua voce alterata e io che andavo via; quella volta no, l’ho trovato già sveglio, ma ancora a letto, all’alba della partenza; mi sono seduta sul ciglio del letto e l’ho accarezzato sul viso, come si fa con un bambino.

 

Come al solito a cena la sera prima non avevo detto nulla; era una mia abitudine metterlo davanti al fatto compiuto.

 

Prima di bussare avevo esitato un attimo, temendo una sua brusca reazione; le nostre liti erano la tempesta nella quiete della nostra famiglia, la pensavamo in modo diverso su tutto, tranne che sul cinema e il tennis, le nostre passioni.

 

Invece le uniche parole che gli ho sentito dire sono state: - Salutiamoci adesso perché quando tornerai forse non ci sarò più -

 

Ho capito che quell’uomo che a noi sembrava così duro e severo ci amava molto, gli ho visto scendere le lacrime dagli occhi e una ha raggiunto il dorso della mia mano.

 

Non riuscivo più a parlare, è stato mio padre a rompere il silenzio, si è tirato su e ha parlato così come faceva con i suoi soci, in modo cordiale e convincente.

 

Allora sono riuscita a farmi animo e lo ho rassicurato prendendolo un po’ in giro, dicendogli che con gli anni era diventato patetico e che, quando ci saremo rivisti, sarebbe stato il brontolone di sempre.

 

Di Ivan nessuna parola con me, una volta, per caso, l’ho sentito lamentarsi con mia madre mentre diceva che non era da me accoppiarmi così.

 

Un’unica ultima raccomandazione: - Andate piano! -

 

 

La terza telefonata, questa volta sono io ad alzarmi.

 

- Dormi? -

 

- Siamo tornati da poco – La solita bugia per pudore.

 

 

- Anticipare la data del volo? Nessuna possibilità di storno o di cambio -

 

- Giovedì è troppo tardi -

 

La mamma dice che nei suoi deliri mi chiama, mi cerca.

 

Di nuovo alle sette dell’indomani una telefonata. Devo partire, esco in fretta per andare alla stazione.

 

Erledigen, una parola che mi è entrata dentro come un automatismo da quando vivo in questa società così diversa da quella che ho lasciato a Roma, dove l’arte dell’arrangiarsi è la migliore virtù.

 

Il treno, tredici ore di noia, non ho altra soluzione. Riporto le chiavi del Kletterzentrum a Ingrid, che è sempre premurosa come una mamma ed è una delle poche austriache con cui ho fatto amicizia.

 

All’università gli stranieri che decidono fare studi umanistici o filosofici sono visti dai colleghi come pazzi senza speranze.

 

Va bene se studi medicina o ingegneria, tanto hai a che fare con dei numeri o pezzi umani, non importa come ti esprimi, ma in certe categorie gli Austriaci preferiscono mantenere l’esclusiva.

 

Adina mi ha sempre sconsigliato d’iscrivermi a scienze politiche, a suo parere avrei dovuto fare il dottorato di ricerca o la scuola di interpretariato a Lingue, dove si era trasferita lei dopo l’insuccesso e l’isolamento degli anni alla Boku, la Bodenkultur.

 

Lì l’ambiente è stimolante, solo stranieri da tutte le parti del mondo, Adina da quando studia a Lingue si sente rinata.

 

Vado a ritirare le ultime dannate fotocopie per la tesi da aggiungere al resto, che rimuginerò come un bovino per risputarle in bella copia in uno scritto rilegato in undici copie.

 

Ivan legge mentre preparo la valigia, fa l’indifferente, fa finta di dormire in quella sua posizione fetale solita che, nonostante la schiena muscolosa ed enorme da canoista, rivela il suo essere estremamente vulnerabile.

 

Appena mi avvicino per salutarlo si avvinghia a me e sento le sue lacrime scendere sulla mia schiena.

Ho lasciato il mio uomo da un’ora e già non so se non riuscirò a stare senza o se tra due giorni non  mi ricorderò più come è fatto il suo viso.

 

Non è riuscito a strapparmi la promessa di andare ad arrampicare a Sperlonga a Pasqua.

 

Ancora dodici ore seduta e la schiena è già dolorante.

 

Dalla stazione di Süd Banhof  ho chiamato mia sorella da un telefono pubblico: - Come sta? –

 

- Gli antidolorifici lo hanno rimbambito, sta così da giorni ormai. Chiama te, poi la sua ex moglie Rina, ma non dice nulla di senso compiuto -

 

I dolori sono ormai così forti che non riesce a ragionare, ma credo che si sia reso conto di essere un peso per tutti, una cosa buttata lì sul letto, che sporca.

 

L’impatto con Roma è piacevole come sempre, nonostante Termini sia lurida e maleodorante, nonostante i mendicanti che l’assaltano e i benpensanti che girano loro alla larga.

 

Tutti gesticolano e parlano a voce alta, non ci ero più abituata, mi chiedo se mia sorella sarà cambiata, se ha una nuova pettinatura.

 

Di mio padre non voglio che mi dicano nulla per il momento, voglio trovarmelo davanti.

 

Questa luce forte che a Vienna non trovi neanche d’agosto; gli occhi degli uomini addosso.

 

A Vienna è il contrario, sono le donne a guardare con insistenza gli uomini, come degli avvoltoi che non sanno cosa significa il gioco della seduzione: guardano, ruotano intorno e, quando la preda è stordita, vi si avventano sopra senza grazia, senza pudore.

 

Ancora due stazioni è sarò a casa, a casa dei miei genitori, presto solo della mamma.

 

 

Agosto 2007

 

Me ne sto a guardare il panorama da una sporgenza della terrazza dell’Albertina con le gambe penzolanti e gli stupidi turisti che da sotto fotografano me e il piccione che mi sta accanto.

 

Qualcuno porterà la mia foto, che ne so, a Tokio: in contemplazione dell’Oper con piccione e sullo sfondo il Feldmareschall Erzherzog Albrecht von Österreich.

 

Se ci fosse un corso di conformismo per principianti mi segnerei, forse.

 

Anni fa, accovacciata come un gatto, dalla finestra del mio appartamento dell’ultimo piano sulla Ybbsstraße mi piaceva osservare l’interno delle case nel palazzo di fronte.

 

Era uno spettacolo vedere come, dietro ogni finestra, si svelava a me una cultura diversa: pakistani, bosniaci, arabi, ceci, russi, formavano tutti insieme un grande Advenzkalender e io me ne stavo a guardarlo per ore senza stancarmi.

 

Quando mi sono trasferita nello zehntem Bezirk dal primo piano non riuscivo a vedere che uno spicchio di cielo e il trambusto del Café Merlin, dove gli ubriachi uscivano a squarciagola barcollando per Buchengasse.

 

La vita dall’alto ha un’altra prospettiva, me ne convinco sempre di più quando, nelle pause dall’Università, mi rilasso ciondolando da un ramo nel parco sulla Colombo.

 

Eppure per anni a Vienna sono stata etichettata, come tutti i miei connazionali, una di quegli Spaghettifresser o Eismacher.

A Vienna noi Italiani siamo benvenuti come turisti, ma diamo fastidio come ospiti.

 

Nella città degli Zeitungskioskein via di estinzione e delle Litfaßsäulen copiate da Berlino per la creatività c’è spazio solo se è in armonia con la tradizione nazionale.

 

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