_

.

> Home                                                      > Chi siamo                                                      > Contattaci

 

Percorsi

.

.

Cultura politica società

.

Diritti umani e civili

.

Filosofia e religione

.

Storia e ambiente

.

.

.

 

Periodi della storia

.

.

Storia Contemporanea

.

Storia Moderna

.

Storia Medievale

.

Storia Antica

.

.

.

 

Rubriche

.

.

Falsi storici

.

Storia dello Sport

.

Turismo storico

.

Stampa estera

.

.

.

 

Numeri arretrati

 

 

.

> Cultura politica società

.

N. 29 - Ottobre 2007

A EST DEL DANUBIO

Capitolo III

di Leila Tavi

 

Febbraio 1999. Ogni realtà è ormai precaria.

 

Nel pianto convulso di Denisa, che non si vuole far vestire, immagino di poterla portare a spasso per il mare tra paradisi ormai non più sconosciuti, palme e pirati; ma ditemi dov’è un lembo di terra che non sia stato già visto, che non sia stato già profanato?

 

In inverno, quando torno a casa, a Denisa piace raccogliere le conchiglie a riva, ma dobbiamo fare attenzione, tra frammenti di bottiglie, resti di assorbenti e ferri arrugginiti, a dove mettere le mani. Ma come si fa a gettare un assorbente nello scarico del water senza pensare che va a finire nel mare?

 

E il mare ci rigetta tutto quello che non gli serve.

 

Vorrei mostrarle una terra dove i bambini hanno la pelle scura e i ricci capelli biondi, dove non esistono ancora i centri commerciali e i Teletubbies, dove mare non significa un metro quadrato di sabbia sporco di cicche e di stecche di ghiacciolo, dove i granchietti sono sulla battigia e non solo sui libri illustrati. Qualche anno fa a casa mia se ne prendevano in quantità nei secchielli per poi ributtarli a mare dopo un’ora e adesso non si vedono più, neanche nascosti tra le falde degli scogli e il mare non odora più, non sa più di niente, rimane solo l’alone del sale addosso, il suo sapore sulle labbra appena bagnate.

 

Al mare è rimasto solo il sale da darci e qualche rottame d’aereo incagliato negli abissi, non più anfore, non più tesori, solo ferraglie. Adesso andare nel profondo, adesso sprofondare nella vita per capire per vivere al di là del banale quotidiano.

 

Rigirarsi, ruotare nell’acqua e sentire la leggerezza, l’instabilità del proprio corpo mentre si butta fuori aria per non permettere all’acqua di entrare dentro di noi. Alcuni si auspicano di morire in mare, altri ne hanno ribrezzo, a qualcuno succede. Per chi non sa aspettare il mare è la miglior fine.

 

Si è sempre detto di colui che muore in mare che è un eroe, un eroe a cui puzzano le mani di sardine fresche, oppure colpito da una scheggia di corallo, o disarcionato dall’onda che cavalca.

 

Chi cammina, chi corre a piedi nudi ha un’anima da zingaro, non ha bisogno di arredare una stanza, non ha bisogno di un tavolo per mangiare, forse non ha bisogno di un compagno; mi sono augurata che Denisa non fosse così, che non facesse parte dei dannati, dei maledetti, dei lupi. Invece anche lei ha il sole nella terza casa e anche lei ha qualcosa da dire e vuole essere ascoltata.

 

Quando il sole non splende e il vento non lascia tregua ho l’impressione di abitare nella terra del ghiaccio, dove il vento mi getta in faccia risate di gente che si affanna a soddisfare i propri bisogni, allora mi sento in trappola.

 

Nella vita è necessario adattarsi per sopravvivere, ma si può arrivare a mangiare gli avanzi di un pasto? I bambini non sono obbligati ad ingoiare tutto, gli adulti sì. Se Denisa non vuole qualcosa da mangiare lo sputa senza ritegno, senza educazione, e a nulla serve rimproverarla. Sputa nei bicchieri, nei piatti, a casa, al ristorante, sotto gli sguardi disgustati di certi che hanno imparato ad ingoiare loro malgrado, ma che hanno dimenticato. Anch’io ho dovuto imparare ad ingoiare, nonostante non abbia dimenticato.

 

Quando la neve si confonde con la pioggia nei lunghi viaggi sola con Denisa si sente il rumore dei pneumatici sull’asfalto bagnato; quelle ruote che scivolano sulla strada sono una tentazione ad accelerare, come se spingere il piede sul pedale ti aiutasse a superare le barriere temporali per azzerare tutto di nuovo, invece sei sempre lì su quel maledetto Reichsbrücke che percorri tutti i giorni, il ponte che attraversa il Danubio, dove sfrecciare non è possibile, dove tutte le auto passano in parata silenziose sotto all’imponente UNO-City.

 

Nella città del futuro la neve si è ormai sciolta e ha pulito il freddo acciaio delle facciate postmoderne e la città, sotto il cielo plumbeo che si specchia nel fiume, abbacina gli occhi come se fosse una cattedrale di cristallo in un deserto d’acciaio.

 

Agosto 2006

 

Le hostess si rivolgono a noi in slovacco, penseranno sicuramente che torniamo a casa per far visita alla famiglia, mentre il marito italiano resta a Roma a lavorare, come tutte le atre slovacche con figli che si trovano a bordo.

 

La donna slovacca dopo il comunismo conosce a mala pena il concetto d’indipendenza.

 

Ivan aspetta dietro il vetro che separa gli arrivi dall’esterno dell’aeroporto e guarda sua figlia come se fosse un’innamorata da cui è stato separato a lungo. Cerchiamo di comunicare attraverso il vetro; cerco di spiegarli con la faccia divertita che manca una valigia, temo la sua solita reazione di stizza, gli urli isterici e le accuse, invece mi guarda, mi fa un mezzo sorriso, come a dirmi che ci vuole pazienza.

 

Sento un’improvvisa gratitudine per la donna che è riuscita ad insegnare a Ivan a essere paziente. Gli consegno la figlia e chiedo di aspettare in macchina fino a che non avrò terminato le procedure per il reclamo del bagaglio smarrito. Un tempo mi avrebbe impedito di prendere una qualsiasi iniziativa nel suo paese, adesso questo sembra non essere più il suo paese, lo sento a stento parlare slovacco e mi chiedo come si possa dimenticare la propria patria quando si vive all’estero, ma a soli sessanta chilometri da casa.

 

Padre e figlia si allontanano e sembrano avere molto da dirsi.

 

La strada da Bratislava a Vienna è sempre uguale, monotona, con il suo paesaggio piatto. Tra poco con la nuova l’autostrada la distanza tra le due capitali sarà come da Monte Mario a San Pietro.

 

Prima di portarci a casa Ivan ci invita al Prater, in ricordo dei vecchi tempi, quando abitavamo là, a due passi dal centro, nel quartiere degli artisti, degli stranieri e delle prostitute.

 

Il Prater Park conserva sempre il suo fascino; d’inverno, quando nel silenzio dell’Allee deserta odi solo i tuoi passi nella neve; in autunno, quando al posto della neve trovi un tappeto fatto di foglie secche che crepitano al tuo passaggio come un fuoco allegro di campagna; in primavera, quando sembra un quadro impressionista ed è assaltato da orde di bambini ancora intorpiditi dal rigore dei mesi freddi; in estate, come ora, quando i caffè di sera pullulano di avventori e nell’Allee sfrecciano bici, skate e pattini.

 

Dopo due giorni di assoluto silenzio e solitudine, che fa bene all’anima in un’era in cui portiamo il cellulare fino nella tomba, decido di tornare qualche giorno a Bratislava da Adina e Aleks.

 

Malý Aleks non vedeva l’ora; con il mio slovacco stentato, nonostante tutti questi anni, devo sembrargli alla pari dei suoi compagni più piccoli d’asilo, quelli che è semplice comandare perché non riescono a farsi rispettare con le parole, quelli che sono ormai in grado di comprendere ma parlano con frasi semplici e fanno ancora troppi errori.

 

Aleks sfrutta la sua superiorità linguistica per condurre il gioco sempre; un domani, per quando sarà un adolescente, dovrò aver migliorato le mie competenze linguistiche o dovrò sperare in un secondo figlio di Adina con la stessa pazienza del primogenito.

 

Nella notte dalla terrazza dell’appartamento sulla palisáda il hrad si staglia sopra la città.

 

Adina e Robo sembrano aver trovato un loro equilibrio; sarà generico e genetico che un uomo in qualsiasi parte del mondo sotto i cinquanta anni considera, a sua volta, i propri figli sotto i sei e sopra i dodici anni come marziani da cui guardarsi. In quest’ottica anche la proposta di Ivan di fare un secondo figlio fuori dal matrimonio è da considerarsi una mera operazione di eugenetica, come sotto il nazionalsocialismo dei tempi peggiori.

 

Chissà se sarei tanto incosciente da tirare su un altro figlio da sola; sono cose che capitano a venti anni, difficilmente si scelgono a trenta.

 

Ancora per la strada Ivan e io, questa volta da soli.

 

Parlo dei miei progetti di andare in Siberia l’anno prossimo e sento la sofferenza della sua voce, quel tendere la mano verso il mio mondo e non riuscire mai a raggiungerlo, a capirlo. E la rabbia di non riuscire, l’impeto di distruggerlo come un bambino dispettoso. Inizio a parlargli di politica, come sempre. Gli parlo della ferita aperta nel petto dei veterani americani di ieri e di adesso. Vorrebbe sentirmi parlare di me, vorrebbe forse che lo insultassi per la sua codardia, per le sue insicurezze di sempre, mi parla di Creta, di un’anonima spiaggia; io non l’ho neanche ascoltato, ho capito Cipro e inizio a parlargli della difficile situazione con la Turchia.

 

Ho imparato a trattare Ivan come uno di quelli sconosciuti dell’Est che mi capita di incontrare in occasione dei convegni all’università e con cui sono diventata brava a tenere delle brillanti conversazioni di politica internazionale.

 

Avverto dai suoi silenzi che vorrebbe sentirsi parlare di me, con la testa sono altrove, invischiata in un qualcosa che non saprei neanche definire.

 

eOs dl

 

 

Consulenze storiche

.

.

Enti pubblici & privati

.

Università & studenti

.

.

.

 

Collabora con noi

.

.

Scrivi per InStoria

..

.

.

 

Editoria

.

.

Eos dl edita e pubblica:

.

- Manoscritti

.

- Tesi di laurea

.

Catalogo opere Eos

.

.

.

 

Links

 

Banners

 

 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 215/2005 DEL 31 MAGGIO]

.

.