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N. 28 - Settembre 2007

A EST DEL DANUBIO

Capitolo II

di Leila Tavi

 

Il disgusto del contatto con un bambino dal naso sporco e il desiderio di essere pressato tra corpi ammucchiati.

 

Petržalka gennaio 1997

 

Al di là della frontiera di Berg, che divideva l’Ovest dall’Est, il primo paesaggio urbano che si incontra è la bidonville di Petržalka, nata dagli errori di un’ideologia. Lì, a parte i figli di qualcuno che ha fatto fortuna all’estero facendo il cameriere, nonostante una laurea in ingegneria, la gente è vestita come nell’Italia del dopoguerra: donne con i fazzoletti in testa, stivaletti imbottiti di pelliccia di coniglio e un cestino di vimini per fare la spesa. Donne corpulente e massicce dal raro sorriso, perché svela i loro denti d’oro.

 

Le giovani invece, da quando hanno scoperto che il segreto delle Occidentali è depilarsi le gambe con la ceretta, hanno una bellezza fatta di carni algide e sode, che spesso rovinano con una seduta ai raggi UV. Anche se non sono sempre alte sono longilinee, dai fianchi stretti e la fronte ampia, hanno i capelli fini e radi come quelli delle bambine e gli occhi azzurro ghiaccio. Alcune spiccano tra loro per il moro delle loro pelli, dei loro occhi, figlie di vagabondi, di peccatori.

 

Parlano tutti una lingua dai suoni a me ormai familiari e dalle parole ancora sconosciute.

 

La struttura d’acciaio sul Nový most, prima chiamato Most SNP, in ricordo della Resistenza slovacca del 1944, sembra un disco volante dei film di fantascienza americani posato su un espositore; i due pilastri che sorreggono la struttura in modo asimmetrico  sono fissati sull’argine del Danubio che guarda alla bidonville, dei cavi metallici la sorreggono nell’altra direzione, così da non farla cadere, e in cima si trova un ristorante. Starý Ivan ci ha spiegato una volta i complicatissimi dettagli tecnici della realizzazione; gli anni in cui studiava al Politecnico furono proprio quelli in cui si progettò il ponte e la struttura sovrastante.

 

La prima volta che sono salita lassù ero con Adina e i miei zii nel 1991, appena dopo il crollo del regime; Adina non voleva salirci, diceva che era un locale per i capi del partito e che la gente comune non poteva permetterselo, poi l’abbiamo convinta che ormai per i capi del partito non serviva più e che avrebbero accolto degli stranieri volentieri, pur di avere dei clienti.

 

Non so quanto abbiamo aspettato davanti all’ascensore che porta al ristorante, tra un viaggio e l’altro c’erano delle lunghissime pause e noi pensavamo che sopra il locale fosse pieno, invece, finalmente, quando siamo arrivati sopra il ristorante era semi deserto. Perché allora tutto quell’aspettare? Adina ci spiegò che era normale fare le file davanti agli spacci o ai ristoranti, era un’abitudine importata direttamente dall’ex Unione sovietica, Oчередь! Il nome russo per “fila”, una parola che anni più avanti non avrei dimenticato più neanche io.

 

L’interno del ristorante era monumentale, con mobili color antracite e lampadari enormi; servivano solo tartine, alcolici e tè nero, ma la vista da lassù era mozzafiato! Quello che piaceva ad Adina e a me era che, a ogni colpo di vento, la struttura oscillava e avevi quasi la sensazione che si sarebbe spezzata, invece come un elastico tornava a posto ogni volta e noi ripetevamo: alles zittert!, qui trema tutto! Lo avevamo appena imparato al corso di tedesco a Vienna che frequentavamo a Schwedenplatz e lo ripetevamo con soddisfazione, così da poter comunicare tra di noi.

 

Anni dopo Denisa avrebbe avuto la stessa sensazione, questa volta però con il locale completamente ristrutturato e occupato dai Prominenti, dalle starlet della televisione.

 

Ora il ristorante non si chiama più Bystrica, appunto, ma UFO.

 

Roma agosto 2007

 

Prima della partenza per Vienna sono sempre un po’ inquieta, perché so che ogni volta, quando ritorno lì pian piano riprendo delle vecchie abitudini e dimentico la mia vita qui a Roma.

 

Decido di andare a pattinare sulla pista della Garbatella, a casa non c’è nessuno, Denisa è al Circeo; ci arrivo con i pattini direttamente dall’Università. Dopo essermi fatta la ripida salita che porta a piazza Benedetto Brin trovo la pista occupata da un’arena estiva, sotto lo schermo la pubblicità di 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni. Mi viene in mente che a suo tempo ho fatto bene a tenermi Denisa, a non averci neanche pensato a un aborto.

 

I ragazzi della cassa sono gentili, mi fanno pattinare prima dell’apertura e inizio a svicolare tra le file di sedie sotto lo sguardo allibito del protezionista. Ho la testa già in vacanza, la prossima volta mi porto il vigorboard.

 

Visto che sono stati così gentili potrei anche rimanere a vedere il film, ma nonostante si dica che la fruizione dell’opera cinematografica sia collettiva, io, al cinema, vado raramente; lo faccio soprattutto a Vienna per disperazione, perché a casa, ho un apparecchio PAL color del 1969, naturalmente non registrato, con cui riesco a vedere solo ORF1, il primo canale austriaco, con le righe; insomma, una rarità vintage nella definizione dell’immagine nei televisori a cristalli liquidi o al plasma.

 

Quando il mio amico Nurhan viene a prendersi il tè da me mi fa notare che quel televisore ha l’età del mio ex marito e quasi il doppio dei suoi anni, poi chiede ironicamente se è proprio il primo televisore messo in commercio, allora gli dico di fare poco lo spiritoso, che sicuramente a Izmir di quelli apparecchi se ne trovano ancora più che a Vienna.

 

In realtà a casa nella Buchengasse avrebbero potuto girare Good bye Lenin senza dover sforzarsi di ricreare gli ambienti, con quella carta da parati giallo scolorito, il frigorifero che miracolosamente dopo quarant’anni ancora funziona, la stufa a gas e i vestiti negli armadi di Adina di quando andava a scuola a Bratislava, in puro stile socialista anni ‘80.

 

Anzi, è proprio Denisa che me lo ha fatto notare, la prima volta che ha visto il film di Becker e ha chiesto se era stato girato a casa nostra. Dovrei convincere Luca o Angiola a girarci un corto prima che cada tutto a pezzi.

 

Comunque al cinema ci vado solo per fare una cortesia agli amici; quando mi trovo in quelle sale con tutte quelle teste e l’odore del pop corn mi manca l’intimità di casa, di quando mio padre proiettava solo per me in salone oppure, per le anteprime, invitavamo la famiglia di mia madre nel salottino di proiezione della casa di produzione.

 

Esausta mi sdraio come un gatto randagio, sporca e sudata, su un muretto che affaccia su piazza Benedetto Brin; controllo vigile la piazza nella penombra dei lampioni: la trattoria da Meschino, la fontana, due ragazzi che si baciano appassionatamente tra un morso di pizza e l’altro e che, improvvisamente, si accorgono che il film sta per iniziare e corrono in direzione dell’arena; lasciano libera la panchina a una coppia soprappeso, che si siede mantenendo le distanze e non parla con lo sguardo fisso nel vuoto.

 

Mi piace osservare l’umanità, con cui ho incontri ravvicinati sempre casuali, ma non capisco come si possa essere così ciecamente egoisti da acquistare la domenica mattina un gelato con la patina d’oro al Serentipity di New York per mille dollari, quando a Teheran ci si lascia asportare un rene per poco di più.

 

Annuso l’odore della mia pelle che alla fine della giornata profuma di sale e sole, penso che la gente, me compresa, non sa che lusso possa essere farsi una doccia ogni giorno, quando 1,1 miliardi di persone al mondo non hanno accesso all’acqua potabile. Ma alla gente che importa? Continua a vivere la sua vita fatta di piccoli egoismi fintanto che non esploderà l’emergenza acqua, allora entrerà in gioco l’isterismo collettivo, la violenza, l’autodistruzione.

 

Forse l’ignoranza dell’uomo contemporaneo, o post moderno, che dir si voglia, è legata all’accesso all’informazione e alla apartheid scientifica: i paesi sviluppati hanno troppi scienziati e ingegneri, mentre quelli in via di sviluppo non ne hanno affatto, e in tal modo il divario che divide i ricchi dai poveri diventa ancora più profondo.

 

Per reazione penso all’eliminazione fisica della classe politica e a quando mia madre mi rimprovera se pronuncio queste parole in presenza di Denisa.

 

Guardo ancora una volta i palazzi della Garbatella, che nella notte sembrano una quinta teatrale, poi salto giù dal muretto in cerca di qualcosa da mangiare.

 

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