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filosofia & religione


N. 114 - Giugno 2017 (CXLV)

Deriva iconocentrica

Il culto delle immagini e il narcisismo postmoderno
di Norberto Soldano

 

Risalgono alla preistoria i primi "dipinti" dell’uomo. Sin dai tempi più remoti, l’essere umano ha infatti avvertito l’immancabile esigenza di vedersi rappresentato. Da quando nasciamo e cominciamo a muovere i primi passi, sentiamo il bisogno di acquistare familiarità con matite colorate e ipastelli per lasciar scorrere la nostra creatività. Il simbolismo è da sempre una componente psicologica fondamentale di ogni società. L’estetica è talvolta un’ossessione. Lo stesso Dio, si scrive nel Libro I della Genesi, «creò l’uomo a sua immagine e somiglianza». Tutto si trasforma in segni visivi nella nostra mente.

 

Nell’antica Roma erano le colonne imperiali le “pellicole cinematografiche” dei cittadini. Nel Medioevo erano i tabernacoli disseminati nelle vie principali delle città le “trasmissioni televisive” dei fedeli. La necessità di darsi un marchio, un logo rispondente evidentemente a un target predefinito, affonda le sue radici all’origine delle prime comunità cristiane che nelle catacombe scambiavano in questo modo messaggi in codice. La cosa può sembrare scontata. Ogni partito, associazione o religione ne possiede uno ad hoc e vanta un proprio repertorio iconografico.

 

L’icona architettonica può in questo ambito divenire l’espressione più esaustiva della rappresentazione del potere: il Castel del Monte di Federico II, la Reggia di Versailles e il Palazzo di Aquisgrana ne costituiscono nitidi esempi. Può incarnare anche la testimonianza tangibile della superiorità di una città sulle altre: si esamini il Partenone ad Atene.

 

Pensiamo ancora all’età contemporanea: ai monumenti mastodontici dell’epoca fascista, al Vittoriale degli Italiani di Gabriele D’Annunzio, alle strutture imponenti del Terzo Reich e in tempi ancora più recenti, alla vena imperialistica cinese e alle parate militari di hitleriana memoria della Corea del Nord.

 

Anche gli Stati Uniti venerano, pur inconsapevolmente, le loro immagini: la distruzione in grande stile del Monastero di Montecassino sotto i bombardamenti dell’aviazione, lo sbarco in Normandia del D-day; il fungo atomico dell’agosto 1945 su Hiroshima e Nagasaki, l’allunaggio del 1969 e il crollo del muro di Berlino del 1989, che ha decretato la loro vittoria nella guerra contro l’avversario sovietico. A questo elenco potremmo, senza difficoltà, aggiungere il filmato che mostra la traiettoria e devastante esplosione dell’ultimo capriccio bellico americano: la Mother of all bombs.

 

Luca Marchesini, già nel lontano 16 giugno 2014, commentava su Agora Vox alcune riprese di Al Jazeera: «non è la prima volta che l’Isis ricorre all’uso dell’immagine per rappresentarsi verso l’esterno e per propagandare i propri successi sul campo. La Nazione Islamica ha esteso sul web video nei quali si susseguono, in un montaggio sapiente, i momenti cruciali delle azioni del gruppo.

 

Le immagini, spesso in alta definizione, celebrano la conquista delle città, la razzia delle armi, i successi sul nemico. La CNN ha attribuito ai brutali video del gruppo uno stile di ripresa e montaggio di stampo hollywoodiano. In effetti, i filmati sembrano realizzati da professionisti del settore e vi si alternano, in un racconto serrato, colonne sonore incalzanti e scene che sembrano tratte da un film di Kathryn Bigelow o dalle soggettive di Call of Duty: esecuzioni, agguati, esplosioni, schegge e granate, gli ingredienti ci sono tutti e nelle giuste dosi».

 

Assistiamo oggi a sempre più frequenti fenomeni di spettacolarizzazione: a comizi fastosi in campagna elettorale; al proliferare eccessivo di fotografie delle platee a iniziative culturali, persino di primo ordine, concepite per la riflessione e la contemplazione per attestarne la riuscita; al lavoro perverso svolto delle agenzie di comunicazione in ogni settore.

 

Non si vincono le elezioni nella postdemocrazia, pur disponendo di migliaia di militanti, senza una squadra di validi professionisti che si occupino delle strategie comunicative e di mezzi dell’informazione quali cassa di risonanza della propria proposta politica. Sono segnali questi di forte controtendenza rispetto al passato non molto lontano.

 

La forma tende a prevalere nettamente sul contenuto. La biografia romanzata di un candidato, le sue avventure sentimentali e gli scatti che lo ritraggono a petto nudo sulle riviste di gossip rubano la centralità nel dibattito politico riservata in via esclusiva storicamente ai programmi. Emblematiche le miriadi di condivisioni di Macron in versione macho man sulla copertina di Garcon Magazine.

 

Non rileva la propria condizione culturale oggigiorno, quanto ostentare il suo apparire, millantando la propria conoscenza concedendo di farsi immortalare con dei libri sottobraccio che garantiscano notorietà e stima. I voti agli esami universitari bastano da soli ad attestare le qualità dello studente e il suo promettente futuro lavorativo; la sua integrità morale, condotta diligente e predisposizione al mestiere passano inosservati rispetto ai numeretti scritti nero su bianco sui propri libretti scolastici.

 

Siamo affascinati dall’azione, dal mito della concretezza e da chi ci promette la traduzione nei fatti dei propri propositi quand’anche lascino un po’ a desiderare. Inutile negarlo. Il trumpismo è la manifestazione più evidente di questo aspetto. Una società in cui ci si vergogna di esporre il tricolore nazionale e non ci si imbarazza dei propri infantilismi quando si esulta per un gol in una partita di Champions League.

 

Gli inventori dei social networks hanno ottenuto il loro successo giocando una grande scommessa sui nostri istinti, facendo leva sulla bramosia del nostro “io” ipertrofico. La giustificazione del loro trionfo è a monte e va certamente rinvenuta nei desideri inappagati dell’uomo narcisista postmoderno.

 

La fotografia del profilo di Facebook, la domanda «che stai pensando?» nello spazio adibito alla stesura degli status, le emoticon, le “dirette”, gli hashtag, i twitt, i tag sono funzionali a soddisfare, seppur limitatamente, l’egocentrismo insito in ciascuno di noi.

 

I selfie sono il tratto dominante di questo fenomeno, l’esempio più compiuto dell’illusione di un protagonismo che il più delle volte resta mera utopia amareggiata e ciò genera frustrazione. Un’indagine del Corriere della Sera intitolata Sono tutti narcisi quelli che si fanno i selfie? La scienza risponde così rivela un simpatico aneddoto: «Sarah Diefenbach, Professoressa di Psicologia dell’Università Ludwig-Maximilian di Monaco di Baviera ha intervistato 328 persone in Austria, Germania e Svizzera.

 

Il 77 per cento degli intervistati ha ammesso di farsi selfie regolarmente. Il dato sorprendente però è che l’82% delle persone ha confessato che preferirebbe vedere meno selfie sui social. Insomma, la ricercatrice parla di selfie-paradosso: mi piace fare selfie, ma non amo guardare quelli degli altri».

 

Le logiche di mercato hanno fatto irruzione nella nostra vita giornaliera: il sistema capitalista ci è entrato nelle vene. Ragioniamo con una mentalità sempre più di tipo concorrenziale, nella consapevolezza delle asperità della vita e delle difficoltà del mondo del lavoro. La solidarietà è stata emarginata dalle nostre città come avveniva con i lebbrosi; si naviga a vista; contano i bilanci, gli appuntamenti a breve termine e le sfide a stretto rigore come avviene nell’economia; il Welfare è pura elemosina; non resta che un vano ricordo di quella grande virtù che è la lungimiranza.

 

Nei bassifondi della politica locale si consolidano i rapporti fra dominus e clientes. Si narra con irritante ipocrisia la storiella della democrazia per celare il mercimonio che si verifica a ridosso delle elezioni politiche. Un discorso che vale a tutti i livelli.

 

Un timido elettorato sempre meno influente nelle decisioni del Paese perché tenuto a guinzaglio dai rispettivi padroni si mostra pertanto in tal guisa ripartito: voti clientelari; cittadini che esprimono la propria scelta nella cabina sull’onda emotiva; elettori dichiaratamente antisistema e popolo “alto”. L’edificio corporativista della Prima Repubblica è venuto giù negli anni ’90 e il lobbysmo senza casacche di appartenenza politica ne ha occupato il vuoto.

 

Le scadenze del rinnovo delle cariche periodicamente si avvicinano e i politicanti di turno necessitano di racimolare voti per restare ancorati alle proprie poltrone. Perché rimanere fedeli ai valori storici del proprio partito, spendersi per la coerenza, se questo preclude la possibilità di raggiungere nuovi consensi in altri strati sociali?

 

La strategia in voga è la seguente: gettare le reti alla cieca e prendere sia pesci “di destra” che “di sinistra”. Come si spiega l’ascesa dei movimenti in questo scenario piuttosto frastagliato?

 

La loro natura in fieri risulta piuttosto gradita. Questi, inoltre, non avendo steccati ideologici alle spalle sono più credibili quando rigettano ogni colore politico e la cittadinanza è quindi più incline ad avere fiducia nel loro trasversalismo. Sono malleabili, flessibili e questo è un vero toccasana per chi odia i partiti tradizionali.

 

In un mondo in cui la deriva iconocentrica ha raggiunto i suoi massimi storici, l’immagine riduce in catene invisibili i popoli, monopolizzandone l’intenzionalità collettiva e i luoghi comuni; determina l’orientamento degli elettori; influenza le scelte dei consumatori nell’acquisto dei prodotti commerciali; suggerisce le coscienze individuali, in maniera fraudolenta, in sede di discernimento del vero dal falso; è complice del malcostume, della corruzione politica e della diseguaglianza sociale; i film e le fiction promuovono ciò che più alletta i palati dell’Establishment, condizionano siffatto gli usi e consuetudini societari; un cartone come Kung Fu Panda può avere una forte valenza ideologica insegnando ai bambini delle nuove generazioni a guardare di buon occhio il continente cinese, le sue radici e la sua cultura, contrapponendosi ai personaggi arcinoti della Marvel e facendo da argine al dilagante americanismo.

 

Il narcisismo postmoderno diventa strumento di mitigazione delle masse distraendole dai raggiri operati ai loro danni, dalle spartizioni selvagge della ricchezza e dal depauperamento dei loro diritti a vantaggio dell’élite tenendole impegnate davanti alla fotocamera interna del cellulare a disperarsi per una ruga o per un difetto al naso.

 

L’immaginario diffuso è composto da un album di fotogrammi, la cui scansione, composizione, minuziosa scelta e disposizione è operata con professionalità chirurgica dagli esperti di comunicazione visiva e pubblicitaria al soldo delle multinazionali e logge massoniche che governano il globo. Siamo schiavi delle slide che questi ci proiettano. Un regime è anch’esso, gerarchi inclusi. Come sfuggirvi? Emanciparci da quest’ultimo vuol dire conquistare la libertà nel terzo millennio.



 

 

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